minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 48

Manca una settimana al 4 maggio, che è la data indicata come l’inizio di una timida riapertura, come già detto, e invece l’aria che tira è l’attesa del giorno del condono carcerario, dell’assoluzione plenaria, dei supersaldi di gennaio. Tutti fuori, tutti liberi, e avanti tutta. Al lago, al lago, al mare, al mare, ma noi non abbiamo il mare. Ah, beh, adesso no, ma dopo il 4. Ah, il 4. Non solo, anche le persone più timide si interrogano se proseguire o meno con le abitudini assunte in via precauzionale in questi cinquanta giorni: continuerò a farmi portare la spesa? Potrò uscire di casa? E per andare dove? Già, tutti bei programmi e belle domande. Se la fase della chiusura era stata complicata, questa lo sarà ancor di più, non vorrei essere nei panni di chi dovrà far rispettare i decreti. Perché se là c’era il timore della pandemia, della malattia e la spinta dell’emergenza, qui c’è la spinta individuale verso i propri obbiettivi, da quelli più sciocchi a quelli più intimi e necessari. Ma non mi incazzerò, non stavolta, non voglio e non devo. Volete fare le feste? Fatele. Volete lavorare come dei matti perché vi siete accorti che a casa con la vostra famiglia, che vi siete creati con tanta dedizione, vi rompete le balle? Lavorate. Volete recuperare tutto il tempo perduto facendo tutte insieme le cose cui avete rinunciato? Fatelo. Volete ricostruire rapidamente il vostro habitat edenico fatto di palestra, catechismo del bambino, non-ho-mai-tempo-per-nulla, fast food, code in tangenziale, sbiancamento dei denti? Prego. Tanto non andavamo d’accordo prima, non andremo d’accordo ora, inutile che mi incazzi. Non sta a me dire cosa si debba fare e cosa no, ho ovviamente le mie opinioni ma sono anche poco certo che questa volta siano corrette. Staremo a vedere, forse tutta questa frenesia non ci sarà, forse sarà tutto più oculato e gestito, forse sì forse no. Forse tutto questo sarà una solenne cappellata e i contagi risaliranno velocemente, forse mantenendo le distanze e alcune precauzioni no. Siccome io non lo so, e ho il sospetto che nessuno lo sappia, andiamo a vedere. Certo, spero che il capo della commissione che consiglia Conte sulle misure da prendere, Vittorio Colao, essendo un manager esperto di grandi aziende, spero dicevo sia bilanciato da figure di scienza di valore che pongano le cose nella giusta prospettiva. Altrimenti è solo ripresa, economia, fatturato e PIL. Che non dico non si debba tenere in conto, dico che vada considerato nella giusta misura. Cioè secondario rispetto alla salute pubblica, senza alcuna discussione. Seee.

L’impressione che ho, e che mi infastisce, è di non avere una guida ferma, coerente e avveduta, quanto di essere in balia della spinta dei più, di chi rivuole la propria libertà individuale, di chi legittimamente rivuole i propri mezzi di sostentamento, di chi ciurla nel manico, di chi ha altri interessi e cui non importa nulla della collettività, di chi ne sta approfittando, di chi non ha capito e si mette in fila. È ciò che accade normalmente, ossia le decisioni vengono prese sotto la spinta di gruppi di interesse eterogenei che condizionano sia l’agenda che le risoluzioni. Ovvio. Diciamo che questa volta, però, in cui il mio animo suggerirebbe ancora cautela e prudenza, in realtà si trova legato ai destini collettivi e mal si accorda a questa situazione, mi tocca subire. Questo mi pesa, sì. Spero me valga la pena, da un lato, e dall’altro non mi stupirei se le cose poi andassero in altra maniera rispetto a quello che penso. Non sarebbe certo la prima volta. Anzi, è ciò che accade quasi sempre.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 47

Mi alzo e, in quel momento in cui ricordo a malapena il mio nome e so fare solo un caffè, mi chiedo che cosa farò oggi. Dura un istante, un attimo, poi torna la consapevolezza e vedo le tacche sul muro, sei verticali e una diagonale a chiudere ogni settimana, sono quasi sette. Cosa farò oggi, mi chiedevo ingenuo… Beh, il solito, tanto è il giorno della marmotta. C’è il sole. Passano pochi minuti e non riesco a evitare che i dati sui contagi del giorno precedente arrivino in qualche maniera al mio cervello, senza però che li registri – chiedo scusa ma in effetti è così, mi instillano preoccupazione, non so che conclusioni trarne, mi sono invisi – e ne tenga traccia, mi basta capire dal tono della voce alla radio o del titolo che leggo se il dato sia buono o meno. È sempre il giorno della marmotta, uguale a sé stesso, ma ogni giorno c’è una piccola, impercettibile variazione che lo fa sembrare nuovo e diverso al primo acchito. Oggi, per esempio, per la prima volta la protezione civile ha comunicato i dati delle persone sottoposte a tampone. Può parer inverosimile ma finora conoscevamo solo il numero di tamponi somministrati, ma non eravamo al corrente se fosse in vigore la regola un-uomo=un-tampone o, invece, magari li abbiano fatti tutti a un pensionato di Monza e Brianza, un tampone ogni cinquanta secondi. Pare una variazione, dicevo, ma solo al primo sguardo: di fatto, i dati che erano già inattendibili così diventano del tutto inverosimili. Difficile dire su che cosa si stiano basando, il gruppo di consulenti del presidente Conte, per regolare e gestire la cosiddetta fase due, la riapertura graduale. Viene il dubbio che si faccia un tentativo, riaprendo (sì, dico per dire, per non scrivere «aprendo nominalmente» e ogni volta poi dover spiegare che tantissimi non hanno mai chiuso) le attività meno difficili da gestire e vedere l’effetto che fa. Vengo anch’io? Per forza. Poi sistemo qualcosa in casa e mi chiedo che giorno sia, se, magari, sia il giorno del grande appuntamento settimanale oppure no. Forse sì, se è giovedì è giorno di ritiro spazzatura. Lo è, lo è, urrah. Nemmeno la messa è rimasta a segnare un giorno preciso, nemmeno gli gnocchi il giovedì. Guardo la posta e come tutti i giorni sono principalmente newsletter e comunicazioni ripetute, con tutte queste videoconferenze, chat, messaggi e, più che altro nel mio caso, assenza di lavoro le mail sono scomparse. Sono le stesse mail di ieri e dell’altro ieri, anche inventarsi dei titoli per le notizie ogni giorno deve avere la sua bella difficoltà in questi periodi. Il giornale della marmotta. Gli unici articoli che leggo in questi giorni sono quelli dei corrispondenti dalla Cina che raccontano come funzionano là le cose. Ha senso, per me, per cercare di capire cosa ci aspetti dal punto di vista pratico. Per esempio, al ristorante si andrà con, ovviamente, mascherine e guanti, ci verrà provata la temperatura fuori e, se dovesse essere in atto qualche tipo di tracciamento, si dovrà mostrare l’app che dichiara che non abbiamo avuto contatti con contagiati negli ultimi tempi. Una volta dentro, i tavoli saranno uno sì e uno no, a seconda ci si potrà sedere da soli o in due se le misure lo consentiranno, l’ordine verrà fatto con la mascherina che potrà essere abbassata soltanto per infilare la forchetta in bocca. Forchetta che verrà sanificata lì, seduta stante, davanti a noi per rassicurarci. Qualora il locale sia piccolo, è possibile che vi siano delle barriere trasparenti tra un tavolo e l’altro o, nel caso estremo, a metà del tavolo, tra i due commensali. Più che una cena, un colloquio settimanale in carcere. Con tutt’e due dentro, però. «Come va, fuori?». Eh, scarsità di argomenti. Mmm, che voglia.

Poi suona il telefono: un’amica o amico con cui ci si scambiano informazioni sulle reciproche condizioni e stati d’animo, ci si informa sulle cerchie allargate, ci si scambia qualche notizia sperando con ottimismo che siano nuove per l’interlocutore, cosa che non avviene mai, «pare che non sarà possibile uscire dalla propria regione», il che, visto che nemmeno possiamo uscire di casa, mi pare un gran passo avanti, poi si azzarda qualche tipo di analisi un pelo al di sopra delle notizie, ma sempre meno devo dire, e alla fine ci si trasmette un po’ di vicinanza e affetto, che è un po’ il senso delle telefonate. Le telefonate della marmotta. Pranzo frugale, composto delle cose intelligenti da comprare al supermercato, durevoli, di poco volume, sane e nutrienti ma sempre quelle. L’altro giorno sono passato fortunosamente da una forneria con un angolino di gastronomia e ho preso qualche fettina di vitello tonnato: mi è parso di essere andato a cena dal duca di Urbino, mancava solo la scultura di ghiaccio al centro della tavola. E i nani, certo, i nani. Il pranzo della marmotta. Poi leggere, ed è qualche settimana che arranco sullo stesso libro perché lungo e metto via libri belli sui quali arrancare in futuro, poi scrivere, «il diario? Come il diario? Ancora?», fare delle chiacchiere alla giusta distanza, tutto bello per carità, mi va bene, ma andrebbero accompagnati da contorni di vita normale. Il diario della marmotta. Verso sera, magari, una doccia – orpo, già passato un mese? – e, che so?, lavaggio di qualcos’altro, magari piatti o verdure o bagno o vetri, poi la cena che per me oscilla tra le otto e le undici, a seconda di come mi viene, tanto il cameriere non c’è, e poi quello che capita, a volte un film – ho finalmente visto «Il fuggitivo» con un Harrison Ford in formissima e «La casa Russia», con una Michelle Pfeiffer altrettanto, film che avrei dovuto vedere venticinque anni fa – a volte una partitina con qualche amico online, a volte scrivo a volte leggo a volte ascolto musica nuova a volte invento a volte mi addormento. Tutto bene, va tutto bene. Il bene della marmotta.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 46

Amazon ha un problema e se avete visto la loro homepage forse vi siete accorti che c’è qualcosa di strano: non promuove alcunché da comprare, a differenza del solito. Sì, per carità, qualche libro, delle calze ma, in sostanza, invita a sostenere la protezione civile, pubblica le misure che l’azienda ha preso nei confronti dei dipendenti, mette in evidenza i programmi su Amazon Prime, ma niente da venditori. Perché? Perché sta vendendo troppo. +23% nel primo trimestre, e in quello la clausura è stata meno di un terzo del periodo, figuriamoci cosà succederà nel secondo timestre. E, infatti, vanno cauti, già la struttura è sotto pressione. Poi, tanto, i soldi veri Amazon non li fa dal mercatino delle piciottate e, quindi, soddisfatti così. Chi, invece, si trova in una situazione opposta sono i produttori di petrolio: il prezzo del petrolio al barile è sceso sotto zero. Non è un modo di dire, è negativo. Giuro che questa non mi sarei mai sognato di vederla. Il prezzo è negativo e se volessimo fare una battuta potremmo dire che pagano loro chi si piglia il petrolio. Sarebbe una battuta ma non è mica tanto lontana dalla situazione reale. I governatori delle regioni più compromesse, Lombardia, Veneto e Piemonte, tutti leghisti, insistono per la riapertura rapida e diffusa, senza troppo preoccuparsi delle condizioni attuali e delle conseguenze. Posto che la cosa non rientra tra le loro prerogative bensì è appannaggio del governo, la cosa più sensata, per una situazione diversificata, sarebbero soluzioni diversificate: il Molise che ha un contagiato apre, la Lombardia no, poco poco. Assurdo? Ovviamente no ma questo significherebbe mettere il dito nella piaga leghista e non permetterebbe all’ampio bacino elettorale della Lega di far finta di riaprire ciò che non è mai, e dico mai, stato chiuso (a parte bar e ristoranti che, porelli, erano troppo esposti per far finta di nulla). Per ora, azzardo, vedremo una timida riapertura alle stesse regole per tutti, e poi si vedrà. La cosa buffa è che c’è un sacco di gente piuttosto convinta che il 4 maggio ritornerà alla vita normale, a lavare l’auto il sabato, a vedere la partita di domenica, a fare sesso il martedì e il giovedì sera (beh, quello è già possibile entro i confini domestici), ad andare a pranzo dalla mamma il sabato o la domenica e il mercoledì sera calcetto o amante. O tutt’e due. Mi spiace, cari, mi spiace proprio, resterete mooolto delusi e amareggiati. Si parla di riapertura del settore manufatturiero, edile e non so che altro, ma tre al massimo. I campi da calcetto temo non siano contemplati. Milano ancora cresce, Brescia e Bergamo pur calanti sono instabili, si registra una diminuzione positiva dei casi gravi, ossia quelli in cui l’infezione degenera in un disastro polmonare, e le cause potrebbero essere molteplici, a partire dalla maggior efficacia dei trattamenti fin dal primo momento al fatto che il virus si sia attenuato, difficile dirlo per me che di professione non faccio il medico ma l’accordatore di organi di chiesa.
Da quando i dati hanno cominciato a mostrare una sensibile curva verso il basso, il peso della clausura non è diminuito ma è diventato più giustificato, in presenza di risultati. È chiaro che quarantasei giorni sono ponderosi sulle nostre spalle e la stanchezza galoppante ma è sentimento diffuso tra le persone consapevoli che tale sforzo non debba andare sprecato con mosse avventate, anche se questo atteggiamento ci costerà certamente tempi più lunghi. Vinceranno le persone consapevoli o gli sciamannati, stavolta? Tocca vedere le prossime puntate.

Per quanto riguarda me, le cose hanno preso un certo ritmo costante, i giorni feriali impegnati tra spese e consegne, i festivi talvolta pure o dedicati a pulizie e scrittura, le incazzature ci sono ma sono lì, in un angolo, e il fatto di vedere un tangibile miglioramento ha dato un senso non opinabile all’impegno che si siamo assunti tutti, o quasi, e ha sopito alcuni timori inconfessabili. Ho preso un ritmo, se si trattasse di proporre un’immagine e fossi una persona molto colta, potrei dire che la sequenza dei battiti cardiaci di questi giorni è diventata, finalmente, euritmica. Non che non desideri fare altro, anzi, salterei sul primo interregionale e andrei a visitare persino Rosignano Solvay, Marghera, Dalmine, Giussano, Gioia Tauro, Reggio Calabria, e ne sarei contento. Ma al momento i giorni scorrono senza momenti particolarmente bassi, il che mi sta bene date le condizioni. Il fatto che non legga giornali né ascolti conferenze stampa o notiziari probabilmente aiuta.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 45

Fase 1, direi che possiamo dire di averla fatta. A questo punto, non vedo l’ora cominci la fase 2, anche se il governo stenta a comunicarcela nel dettaglio per non rovinarci la sorpresa. Giusto, altrimenti poi non facciamo uuuh e poi oooh e diamo tutto per scontato. In ogni caso, la fase 2 che, come sappiamo, prevede la collettivizzazione dei mezzi di produzione, si inserisce nel primo piano quinquennale, mi si scusi l’ovvio, del governo Conte, 2018-2023. Che poi parla parla ma alla fine si tratta sempre di produrre più acciaio, mica altro, e come sempre di ridurre il divario nei confronti della Germania. Sempre la stessa storia, maledetti crucchi. Inevitabile, poi, il periodo di rieducazione per Fontana e Gallera in un’allegra fattoria cooperativa in Molise a causa di ego (plurale? eghi? egos? egoi?) strabordante, dopo alcuni mesi saranno in grado di passare da: «siamo bravissimi, tutto giustissimo» a: «scusate, abbiamo sbagliato». Ma sto già sconfinando nella fase 3, non voglio rovinare la suspans.
Mettiamola così: per fortuna – e qui mi perdonino le vittime e i parenti delle vittime se risulto offensivo, non sarebbe mia intenzione – questa non è una pandemia delle più letali, intendo di quelle dove metà popolazione europea se ne va in un soffio, vedi la peste nera del 1348, quando a nulla valsero gli sforzi che osteggiarono l’avanzare del contagio. Fu come cercare di fermare un’orda mongola lanciata al galoppo con un fucile a tappo. Oggi, dicevo, per fortuna la pandemia di covid-19 è tremenda ma non decima (in senso letterale) e non falcidia la popolazione umana, il che ci permette di mettere a punto le procedure e i protocolli per affrontare una situazione limite come un’epidemia su vasta scala senza cadere come fuscelli. E ci permette anche di sbagliare, di fare confusione, di non capire bene quale sia la cosa migliore. Ciò che ci succede, con tutte le storture possibili, che andranno comunque perseguite, indagate e non giustificate, ci servirà – io spero – in un futuro per affrontare meglio un malanno più grave e più rapido. In quest’ottica, stiamo lavorando per il presente ma, soprattutto per il futuro. Un futuro nel quale la sanità pubblica non sarà messa in discussione, nel quale i fondi non verranno tagliati, nel quale le professioni mediche, infermieristiche, assistenziali, godranno del riconoscimento che meritano, un futuro nel quale la quantità di letti sarà adeguata alla consistenza della popolazione. E ci saranno procedure e protocolli validi, non inventati in teoria da un impiegato svogliato che non ha nemmeno mai visto un dispositivo di protezione individuale: oggi sappiamo, grazie, che una mascherina a testa ogni trenta giorni non basta. E che, magari, ha più senso produrre respiratori che tamagotchi. Tanto verrete collettivizzati, rassegnatevi, e allora sì che produrremo il necessario.

Perché poi si siamo riempiti la bocca nei decenni passati con parole come «globalizzazione», «interconnessione», abbiamo fatto film sul «butterfly effect» pensando che in Giappone uno si innamorasse e, di conseguenza, a Tbilisi aumentasse la felicità. Fuffa, come al solito. La realtà è che uno bacia sulla bocca un pincher da un’estetista di Merate e poi il mondo si ritrova recluso sul balcone a prendersi a martellate la zucca. Perché era comodo pensare che la globalizzazione fosse solo comprare vaccate dalla Cina pagandole una cicca, eh no, così non vale. Se vuoi quello, ti pigli anche questo, se vuoi sfruttare un tizio in capo al mondo il cui lavoro vale una zolletta di zucchero, allora ti devi accasare l’intero pacchetto.
Ed ecco, alla luce di questo, un elenco improvvisato di cose che non faccio dall’otto di marzo, quarantacinque giorni, e – incredibile – sono sopravvissuto: comprare su Amazon, farmi spedire cose che necessitino di un corriere, usare l’auto, cambiare le gomme invernali, comprare abiti, comprare scarpe, cambiare notebook (devo confessare che quello ci stavo provando, l’ho comprato il 25 gennaio ma non è mai arrivato), andare a fare la spesa in un centro commerciale, andare ovunque fuori dal mio comune di residenza a fare la spesa, bere un cappuccino la mattina, cambiare telefono, acquistare un televisore più grande, approfittare degli sconti da Divani&divani, comprare su AliExpress, comprare online in generale, cambiare il piano dati del mio telefono per avere cento giga in più, andare a vedere un film di Star Wars o della Marvel, fare la coda al semaforo, fare la coda in autostrada, comprare la pasta coi cazzetti in autogrill, mangiare un panino schifoso in un bar (anche in autogrill), comprare cibo che poi sia andato a male nel mio frigo, acquistare cose non necessarie, fare spese compulsive al Brico comprando cose che già ho, comprare cose da Hao-mai o dai cinesi in generale che tanto costano niente, lavare l’auto, stampare cinquecento o più fogli al mese, inviare decine di mail e centinaia di messaggi inutili, bere quattro caffè al giorno, andare a mangiare pizze cattive, fare chilometri al giorno per andare a lavorare, abbonarmi alla palestra, comprare magliette a due euro da Decathlon che durano un lavaggio, partecipare a incontri di lavoro senza alcuna conclusione, andare dal barbiere, andare dalla cartomante.
Cosa voglio dire con questo? Forse che potremmo vivere con meno e produrre con più ratio? Forse che molte delle cose che facciamo sono inutilmente frenetiche e ripetitive e che si potrebbe vivere in un’altra maniera? Forse che dovremmo recuperare valori più importanti? Ma per niente, anzi: riprendere a farle tutte e di più e con maggiore intensità. Altrimenti come recuperiamo quel -15% del PIL che dichiarano oggi?

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belle copertine di dischi nuovi pt. 11.301

I dischi escono, per fortuna, e ancor più per fortuna hanno anche una copertina. Perché tanto può essere bella e, quindi, aggiungere ancor di più al disco, e tanto può essere brutta. Ecco, a me piacciono parecchio anche quelle brutte. Siccome, poi, mi fido della copertina (qualcuno direbbe: giudico il disco dalla copertina) di solito il disco non lo compro. Ma mi piace guardarle e, come in questo caso, condividerle ogni tanto. Dischi di marzo e aprile 2020, freschi freschi e dichiaro fin da ora che non ne conosco nemmeno uno, scelti solo perché belli. Via.

Vince il duo Die Antwoord con HOUSE OF ZEF, così ci togliamo la suspàns e via. Eccoli. Bellissima idea, devo dire. Anche se fossero gemelli siamesi.

Poi, a venire, ecco gli altri, a due a due. Tal Jeshi che per forza sente un BAD TASTE perché, come si vede, ha le afte. Poi, un tale Lil French Fries (ottimo nome, pure) che per il suo The Blaack Parads propone una specie di Hitler mosso in delirio.

Virgen Maria, oddio, fa una qualche specie di considerazione sui selfie sulla copertina del suo Devil ma, giuro, non riesco a intuire minimamente quale possa essere il significato. La signora S.hel, invece, è diventata una lampada e nessuno in casa la nota. Pregasi Disconnect.

A Locate S,1 dev’essere caduta la fettina di torta, altrimenti un’espressione così non si spiega. Il disco è Personalia. Kari Faux ha invece una posa per cui non si capisce se stia per inghiottire o se, invece, la farfalla stia uscendo. Lei è forse il fiorellone? Può essere: LOWKEY SUPERSTAR. Disco volgarone.

Non lo posso giurare ma penso che nella realizzazione di Thank You Satan di Benni Hemm Hemm non sia stato ferito nessun albero. Anche se c’entra Satana. ADULT. invece propone per il suo Perception is/as/of Deception una sofisticata fotografia di una poltrona con una gamba di donna tagliata a metà coscia con arte fotografica.

E, infine, due ottime copertine. La prima è l’eccezionale Elvis Depressedly che canta, immagino, la depressione in Depressedelica. O la fa venire, non saprei, l’aureola è bellissima. Poi l’accattivante Sweet Tea di Seth Gilliam fa proprio venire voglia: salute!

In parte sono sicuro ciò accada perché non hanno un produttore e i dischi se li fanno da soli a casa. Meglio. Per me.

minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 44

Oggi piove. Lo dico perché sarà un due mesi che non lo fa. Bene, quindi. Aggiornamento semiglobale sulla situazione: superati i centosessantamila morti nel mondo a fronte di duemilionitrecentomila e passa contagiati. In Francia una comunicazione un po’ inquietante: il Comune di Parigi dichiara di avere trovato tracce di coronavirus dell’acqua non potabile, e questa è la prima volta che la sento. Ha senso? A New York la curva dei contagi pare aver preso la direzione giusta ma i numeri sono ancora notevoli, quasi quindicimila morti solo lì. Texas e Vermont, invece, riaprono oggi allentando le restrizioni mentre in Florida è successa una cosa stranissima: le autorità hanno riaperto tre spiagge e chissà come mai si sono riempite all’inverosimile di gente che se ne è sbattuta tanto delle distanze quanto delle mascherine. Com’è possibile? Incredibile dictu. In Ecuador i morti hanno superato i mille a fronte di oltre novemila contagi. Va detto che le cifre non è che siano così sicure ma paiono riferirsi principalmente a una sola regione. Le altre, più o meno, paiono non contagiate. In Libia dati che si contano su una mano: quarantanove contagiati e un morto. Rivedere. La Tunisia ha dichiarato solo due nuovi casi nelle ultime ventiquattro ore, il che è buona notizia, e il volume complessivo è di ottocento e più contagiati. In Zimbabwe la situazione è drammatica per una grave crisi economica che si somma agli effetti del contagio, per questo il lockdown è stato prorogato ma non per i minatori. Troppo importanti per l’economia del paese e, quindi, che muoiano pure. «È stata una decisione molto difficile che il mio governo ha dovuto prendere con riluttanza», ha detto il presidente Mnangagwa. L’Iran ha esteso ancora il permesso di libertà temporanea per i detenuti perché la situazione continua a essere pesantissima, i morti sono più di cinquemila e i contagi oltre ottantamila. La Turchia ha appena superato l’Iran con oltre ottantaduemila contagiati diventando il paese più colpito del medio oriente. Putin, invece, bello tranquillo in un videomessaggio al paese ha fatto gli auguri per la pasqua ortodossa e ha assicurato che il virus è «sotto controllo» senza riferire alcun dato. Bravo, sempre. Nelle Filippine prosegue il lockdown perché i contagi sono più di seimila e i morti oltre trecento. In Spagna superati i duecentomila malati e i ventimila morti, la situazione è molto difficile. L’Italia resta il paese con il maggior numero di morti al mondo.

E in Lombardia? Salvini ieri sera in una diretta televisiva di oltre mezz’ora senza contraddittorio (epporc…) ha affermato: «Sulle case di riposo [lombarde]… ahimè chi è in casa di riposo… io avevo le mie nonne, ai tempi… è chiaro che se hai 85 anni sei più a rischio che se non ne hai 47…». Pieno così di quarantenni nelle residenze per anziani. Se poi fai entrare i malati di covid-19 la tombolona è assicurata. Infatti, se fosse stato presente un giornalista o, anche, chicchessia, magari una domanda l’avrebbe fatta. Ma c’era Giletti, «l’amico Massimo». Complimenti a La7. In Lombardia è pur vero che gli ospedali sono un po’ sollevati perché per le prime volte i pronto soccorsi non sono assediati e qualche posto in terapia intensiva adesso c’è ma è altrettanto vero che la situazione di Milano è ancora in espansione, la situazione complessiva non può quindi dirsi normalizzata.
Ho già detto che una cosa che mi scoccia parecchio è saltare il 25 aprile, di regola in corteo a Milano, come è d’uopo. Qualcuno propone di cantare «Bella ciao» dai balconi, qualcun altro non è d’accordo – e te pareva… – e opta per «Fischia il vento», perché se non si va divisi non ci si diverte. Non so come andrà, so che non sarò in piazza e non vedrò le persone come me, cosa che mi dà sempre una bella iniezione di fiducia. Poi, ieri sera, ho sentito parlare Caterina Avanza, una che si definisce «euroguerrigliera» e non eletta col PD alle elezioni europee, di «Partigiani 4.0» e mi è venuta ancor più voglia di piazza e di bandiere. Di Partigiani 1.0, che poi mi sono perso il due e il tre.

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laccanzone del giorno: Nic Cester, ‘I know the monster’

Due anni fa, Nic Cester ha scritto una canzone per la colonna sonora de «La profezia dell’armadillo», il film tratto dal fumetto di Zerocalcare. Alla fine, quando il film finisce, parte la canzone di Cester ed è un’ottima chiusa.
Qui sotto il video che è fatto, in sostanza, da alcune sequenze del film intervallate da immagini di Cester in studio, niente di che in realtà, anche perché la canzone viene interrotta due o tre volte dal parlato e, insomma, non è che aggiunga molto.

Su Spotify c’è la versione integrale, finalmente. La canzone è buona, secondo me, e ha tutte le carte in regola per finire tra leccanzoni ed è per questo che ci finisce. Di Nic Cester ho già detto parecchio nei post passati per cui non mi ripeto, di sicuro fa parte del suo nuovo corso musicale post-Jet. Chi vuole.

Trostfar, gentilmente, raccoglie tutte leccanzoni in una pleilista comoda comoda su spozzifai, per chi desidera. Grazie.

minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 43

Prima non avevo capito. Vedevo parecchia gente al supermercato – l’unico posto che frequento, dato che in questo periodo non ho voglia di andare al cinema – con la mascherina solo sulla bocca, col naso fuori. Alla Bertolaso, per capirci. Con tutti quelli che mi riusciva, ho fatto lo sguardo di disapprovazione, pensando a quanto si possa essere stupidi per propria pigrizia e vantaggio. Qualcuno l’ho anche apostrofato, ottenendo solo un mugugno da fatticazzituoi. Pensavo, infatti, che lo facessero per una ragione pratica, senza ovviamente pensare alle conseguenze: fa più caldo e con la mascherina si respira meno piacevolmente. Poi, grazie alla rete che purtroppo frequento solo in pochi anfratti e mi perdo il mainstream, ho capito: «ATTENZIONE!! Occhio alle mascherine!!», avverte Carmen (al posto dei primi punti esclamativi ci sarebbero dei simboletti di pericolo radioattivo, per capire il problema), e spiega: «Chi copre naso e bocca, respira una quantità maggiore di anidride carbonica, rischiando di andare in alcalosi e quindi rischiando lo svenimento. Perché, in questo modo, si respira una miscela di CO2 superiore a quella presente nell’aria». Il concetto generale è parecchio sbilenco, poiché attribuisce alla mascherina fatta di telina capacità superiori a una camera iperbarica e non sono sicuro che l’alcalosi c’entri. Carmen ribadisce: «Con la mascherina si respira un’aria malata, parte di quell’aria emessa dai polmoni, ricca di CO2. Servirebbe, invece, aria fresca, ricca di ossigeno». E qui ho capito: questi girano consapevolmente con la mascherina abbassata per non andare in alcalosi. Certo. Il fatto che non abbia alcun fondamento non importa. Il fatto che così si vanifichi il senso stesso della mascherina evidentemente non è per loro rilevante. Mi prendo la briga di controllare e fare un minimo di ricerca e ci metto poco a rilevare che le parole di Carmen sono prese paro paro dall’intervista di un certo Alberto Macis, medico coordinatore regionale antidoping della Federazione medici sportivi sarda. A parte che lui ne parla a «chi si sottopone a sforzo» ma resta una sonora puttanata ed è, ovviamente, l’unico a dirla sul globo terracqueo. Il problema è che un medico pistola batte le ali in un punto qualsiasi della Sardegna e le Carmen di tutto il paese, vualà, girano col naso fuori dalla mascherina. Il che, per venire al punto, mi dà un certo fastidio perché espongono me a un certo grado di rischio superiore. Se vogliono evitare l’alcalosi a casa loro, lo facciano. Per fortuna, per ogni Carmen c’è uno Jacopo che le risponde: «Ma che cazzo dici… mica ti sei infilata in uno scafandro da palombaro (…). La maschera è traspirante, un filtro tra l’aria esterna e quella che respiri». La discussione poi prosegue perché Carmen non è convinta – lo so, ma mi diverte – e stanca a un certo punto chiede: «E allora cosa respiri?» (il punto interrogativo è un mio omaggio) e Jacopo, altrettanto stremato, butta lì un: «Cotognata e scaloppine al limone. (…) Ma Cristo (…) aria cazzo» (il tutto in maiuscolo perché sta gridando). Grazie, Jacopo. Direi anche: #andràtuttobene.

Finita la parte di servizio di pubblica utilità (ora potete con maggiore consapevolezza mandare affanculo quelli con la mascherina calata), che resta da dire sul giorno? Il novanta per cento dei nuovi contagiati italiani sono in Lombardia, il che dovrebbe indurre ancor più alla cautela, e la situazione al centrosud pare congelata, in effetti, ma credo ci metterebbe ben poco a scongelarsi in caso di riapertura sciagurata, con le conseguenze che possiamo solo immaginare. Però i dati complessivi sono sempre più in calo e qua e là si festeggia la chiusura di qualche improvvisato reparto covid-19. Se la Lega fa casino, il movimento 5 stelle non è da meno e, in assenza di Di Maio, che forse non è stato avvertito, ci pensa Di Battista, ricomparso, a creare confusione sul cammino del governo Conte, votando a casaccio con quella che a tutti gli effetti è ormai la sua corrente. Il fatto che venga definito «sciacallo» da alcuni dei suoi compagni di movimento la dice lunghissima. Saviano scrive un articolo dei suoi sugli errori della gestione lombarda, CL risponde e muove schiere di giovani infermiere di belle speranze che ribattono allo scrittore con i buoni sentimenti, Salvini perde un’altra ottima occasione per tacere, Saviano controbatte e la cosa prosegue. A sinistra, come sempre, si irritano per Saviano (che simpatico non è) e perdono di vista la questione. Come con Renzi che, però, è qualche ora che tace.
Tra sciacalli, cani sfruttati per uscire di casa, gatti infettati dal virus, anatre a passeggio avvistate a Parigi, Roma, Faenza, Padova e Sirmione, a Firenze addirittura entrano in farmacia, i cervi in Abruzzo girano per le strade tranquilli, volpi politiche e non che appaiono in ogni città, tutti animali che c’erano anche prima ma loro erano meno sfacciati e noi più indifferenti, spicca in positivo il delfino che pare si avvisti in ogni parte d’Italia nelle acque sempre più caraibiche del paese, il quale nuota giocondo e felice per le nuove condizioni dell’habitat e indifferente alle nostre disgrazie. Sarà perché è un animale intelligentissimo e, come dice Luttazzi, non gli è mai venuta voglia di presentare «Porta a porta».

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