minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: quattro, carta ma soprattutto lavatrici, studioli portati via, tramutare inghippi in occasioni

Tra l’altro, a Sansepolcro qualche anno fa infuriava il dibattito sulle origini della città, con il dottor Benini che ipotizzava l’accampamento romano e il dottor Ribalta (nomen) che ne contestava le premesse, con pubbliche interminabili discussioni tra i maggiorenti. Ma c’era un vizio di sostanza, nel senso che i due erano cognati, si sospetta che parte dell’acrimonia fosse per quella ragione. Chissà le cene di natale.

Comunque, riprendo. Scendo dal tempietto di Valadier, proseguo per la gola di Frasassi e vado a Fabriano. Esattamente, quella di tutti i nostri album da disegno. In realtà, a dirla bene, la cartiera che fa gli album che conosciamo tutti si chiama Milani ma è ormai per antonomasia ‘Fabriano’, perché nel tempo si è comprata tutte le altre cartiere della zona, centinaia. Poi, che al mercato mio padre comprò, a sua volta è stata comprata dalla Fedrigoni di Verona, stesso settore, e poi tutto il gruppo dal fondone Bain Capital di Boston, e ciao carta italiana prestigio nel mondo.
Se lo stesso gruppo industriale della carta si è ridotto di parecchio, 550 operai oggi contro le migliaia di un tempo, il vero lavoro novecentesco a Fabriano veniva dal gruppo Merloni, un colosso degli elettrodomestici e primo produttore italiano, per citare un po’ di marchi Indesit, Scholtès, Philco Italia, Ariston Thermo Group, più interessi diversificati come la Benelli di Pesaro, motociclette, e via così. Parlo al passato perché nel 1975 il marchio ha cessato di esistere, i marchi scorporati in attività autonome quando non scomparsi, per poi entrare in crisi in anni recenti. Tanta era la ricchezza di questo piccolo borgo quanto lo è la crisi attuale, che si manifesta con la disoccupazione al venti per cento e poche opportunità in valle, se non il turismo più su. Ma il turismo degli stabilimenti abbandonati è ancora troppo di nicchia per contarci fino in fondo.

Venire qui, a Fabriano, e non imparare nulla sulla carta e sulla sua storia sarebbe proprio da stolti, allora mi ci metto e due cose le memorizzo. Tocca abbozzare ma anche questa cosa, la carta, l’hanno inventata i cinesi, e ben prima di Cristo, le ultime ipotesi parlano del secondo secolo prima. Mantennero il segreto a lungo, incredibilmente, perché mille anni dopo erano ancora gli unici a produrla, tutti gli altri a papiro e pergamena. Si ipotizza, poi, che la formula segreta sia passata a noi per via degli arabi, attorno al 750, ma gli studiosi non sono ancora concordi su come ciò sia avvenuto. Io non so niente, per carità, ma un paio di giorni fa sull’appennino tosco-emiliano sono passato da un paese che ha un nome significativo, Mercato Saraceno, secondo me qualche indizio qua e là c’è. Comunque, appreso il segreto, ovviamente poi il genio italico – ah, le narrazioni locali – ha perfezionato il prodotto, migliorato, inventata la filigrana, usato i magli verticali che sfibravano canapa e lino più velocemente e meglio e siamo diventati campioni del mondo nella carta. Va bene. Anche se ricordo in Cina certe carte che erano proprio difficili da battere. Ecco, ultima cosa: fino a metà dell’Ottocento, quando il monopolio della carta europea era in mano agli inglesi, la carta si faceva con gli stracci. Il passaggio alla polpa di legno si deve a loro.

Diluvia, ma come accade spesso d’agosto basta sedersi al riparo e aspettare. Con tutte le richieste d’acqua finora, sarebbe poi vergognoso lamentarsene. Quando spiove, saluto Fabriano e vado a Gubbio, pochi chilometri a est ma, di nuovo, passaggio di regione. La piana nella quale sorge è davvero strepitosa, coronata da colline e qualche monte un poco più alto, il monte Ingino, attraversata da due torrenti, Camignano e Cavarello che, essendo torrenti al momento non esistono, e cielo limpido. Una meraviglia.
A dire Gubbio di solito viene in mente il santo Francesco e il lupo, ovvero il fatto miracoloso: «Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona» e quello buono. Io sono qui non per quello, non sto facendo il cammino di Assisi, bensì per i Montefeltro, ancora. Federico di Montefeltro, associato perlopiù e giustamente a Urbino, ne scrivevo anch’io qualche mese fa, in realtà nacque qui, a Gubbio, figlio di Guidantonio conte e di madre ignota. Ahi. Si ritrovò così ad avere davanti un altro erede, tale Oddantonio e, di conseguenza, a essere mandato via da Urbino e ad essere addirittura scambiato come ostaggio dai veneziani. Dopo un po’ di vagolamenti fruttuosi, condottiero persino a Milano, ecco arrivare l’opportuna congiura che elimina Oddantonio, chi l’avrebbe detto?, ed ecco spalancarsi le porte del potere, Urbino e il Montefeltro. Fe.Dux. Talmente bravo, Federico, da non risultare mai coinvolto nella congiura, quando è evidente che era quello che ne aveva più da guadagnare. Gubbio, insieme a Urbania, divenne un luogo di soggiorno e di esercizio del potere, oltre naturalmente a Urbino, per cui venne dotata di opportuno palazzo ducale, con gli stessi crismi del principale. Ovvero, cortile rinascimentale, architravi delle porte marchiati, studiolo meraviglioso tutto in legno intarsiato, gemello di quello urbinate. Il principio che sottintendeva tutto quanto, lo studio e la pratica delle arti nell’esercizio di governo, è ben riassunto nei versi dell’Eneide nello studiolo: «Fisso a ciascuno il suo giorno, breve e irrevocabile il tempo / Della vita per tutti: gloria allargar con le azioni, / questo ottiene virtù».

A fine Ottocento, sto correndo ma le cose da dire sarebbero moltissime, il palazzo fu acquistato dai ricchi Nonmiricordochi, e spogliato di ogni cosa vendibile. Compreso, horribile dictu, lo studiolo, smontato, venduto a Nemmenoquestomiricordo che lo fece rimontare nella propria villa di Frascati per poi, sciagurato anche lui, rivenderlo al Metropolitan Museum di New York. Beh, almeno è visibile e non privato, infatti io l’ho visto là. Alcuni anni fa, finalmente, il comune di Gubbio ha ingaggiato due ebanisti falegnami bravi e ne ha fatto fare una copia che sta dove dovrebbe l’originale. Visitare il palazzo e vedere il vuoto con lo spiegone “Qui una volta c’era…” sarebbe stato parecchio frustrante.
A ogni modo, a voler vedere un lato positivo nella cosa, è stato grazie anche a episodi del genere che il nostro paese si è dotato, prima di tutti, di una legislazione appropriata che impedisce l’esportazione e la vendita di beni culturali senza l’approvazione dello Stato. Ma a volerlo, proprio, comunque bene anche la copia.

Il malfunzionamento, mi tocca dirlo: orario di apertura ufficiale del palazzo ducale, otto e trenta, sta scritto sugli enormi gonfaloni a fianco dell’entrata e, soprattutto, sul sito; a fianco della porta di entrata, come spesso accade, un A4 stampato e infilato in un ercole, cioè la busta di plastica, che dice le dieci. E sono le dieci, effettivamente, nonostante alle otto e mezza siamo in dieci davanti all’ingresso con aria interrogativa. Si fa, così? No. Almeno cambiarli sul sito, gli orari, vivaddio, che è la fonte primaria dei turisti. Eddai, che costa? Li avranno cambiati su facebook, gli scellerati.
Certo, poi il trucco del viaggiatore sta nel far diventare l’inghippo occasione più propizia, quando è possibile, e stavolta è possibile: poco più in basso c’è una terrazzona-giardino pensile con caffetteria a baracchino che pare mandata dal signore, cappuccione e attesa con vista panoramica da cartolina.
Ed è qui che, beandomi dell’occasione, concludo per oggi, avendone dette abbastanza.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: tre bis, il servizio che ripaga di quasi tutti i disservizi

Questa è un’appendicina per una cosa davvero notevole.
In questo minidiario mi sono lamentato di alcuni disservizi e malfunzionamenti, Ravenna poi Cesena, ce ne saranno anche per Gubbio, e quelli restano. Però a Sansepolcro mi è capitato non un malfunzionamento ma un funzionamento talmente bello che mi ha entusiasmato. Il “più bel dipinto del mondo” di cui parlavo qui sotto è un affresco, si sa, e sta sul fondo di una sala cui hanno attorno costituito il museo. Sulla parete opposta c’è una portona che resta chiusa durante l’apertura del museo. Ma viene aperta quando il museo è chiuso.

Esatto, la Resurrezione di Piero della Francesca a vista, tutta la notte.
C’è un cristallo anti-esplosione nucleare in mezzo, chiaro, ma questo è tutto. Chiunque, al ritorno da una pizza o completamente sbronzo, dopo aver ucciso il marito e prima della questura, o prima di lasciare Sansepolcro per sempre, può fermarsi e guardarselo per tutto il tempo che vuole. Alle dieci di sera come alle sei del mattino.
Io questa cosa la trovo strepitosa, m-a-g-nn-i-f-ic-a-a, meravigliosa. La bellezza a disposizione, lì. E ci saranno anche turisti che si vedono la Resurrezione in questa maniera senza andare al museo il giorno dopo, e allora? Allora va bene così. È la realizzazione e resa concreta dell’idea del patrimonio comune, il bene è davvero a disposizione di chiunque ne voglia fruire, l’idea è talmente semplice e bella da essere avanzatissima, guardandosi attorno. Emozionante anche solo raccontarlo.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: tre, salva il più bello e distruggi gli altri, questioni contemporanee?, imbottito

Ero ad Anghiari, sono a Sansepolcro. Ancora fuori dalle mura mi accoglie l’orrendo coso, che da un manifesto solitario celebra l’appuntamento di Pontida cercando di assumere un’espressione compresa, battendosi il pugno sul cuore. Niente da fare, pare sempre il cugino scemo cui tutti dicono di fare domanda per il reddito di cittadinanza e di smettere di mangiare bomboloni al compiuter. E io sarei qui per la bellezza, la bellezza di Piero della Francesca e l’ingegno di Luca Pacioli, meglio che entri in fretta.

Nessuna sorpresa, in fondo parecchie cittadine toscane, umbre e marchigiane sono amministrate da sindaci leghisti, tra cui appunto Sansepolcro, lista civica più lega. Il manifesto del ciula non è quindi campagna elettorale ma normale informazione delle attività culturali leghiste. Una in tutta Italia e nemmeno un granché. Nessun altro segno della campagna elettorale, come non ci fosse. Chiaro che sono qui per vedere la Resurrezione di Piero della Francesca, quell’affresco con Gesù che risorge dal sepolcro con quei due occhioni fissi e sotto di lui i soldati addormentati, tra cui uno con il volto del pittore. Aldous Huxley lo definì “il più bel dipinto del mondo”, ovviamente argomentando un po’ di più di quanto io riporti qui, se ne potrebbe discutere. Comunque, quando il generale Clarke, parole sue, pianificò il bombardamento di Sansepolcro nell’avanzata alleata, si ricordò delle parole di Huxley e decise di evitare. Ora, due considerazioni che mi vengono così: uno, che bello avere un generale in comando che ha studiato la storia dell’arte o comunque ne ricorda alcune valutazioni critiche al punto da modificare il piano di guerra per salvare un affresco; due, saranno stati poco contenti i proprietari del secondo più bel dipinto del mondo che, invece, si saranno visti piovere in capo le bombe, perché non all’altezza. E il terzo, quarto e così via. Peraltro, a pensar male, se avessero bombardato il primo sarebbero pure saliti in classifica, risparmiandosi magari le prossime bombe.

Mi sposto a un tiro di schioppo e sono a Città di castello. Qui si viene, e lo feci anch’io trent’anni fa, per vedere Burri, che donò la sua propria collezione alla città (di castello). Ma allora dovevo vedere e imparare tutto, oggi Burri mi interessa molto meno, anzi niente, quindi salto a cuor sereno. Io sono qui perché è una graziosa cittadina e poi vorrei vedere alcune cose di Raffaello, Signorelli e Vasari. Per esempio, la chiesa di san Francesco che contiene lo sposalizio della Vergine di Raffaello, l’adorazione dei pastori di Signorelli, la cappella Vitelli progettata da Vasari e la sua incoronazione della Vergine. Beh, Raffaello fu rubato dai soldati napoleonici e ora è a Brera, Signorelli finì sul mercato antiquario e ora alla National gallery di Londra, gli è rimasto Vasari, che bella la cappella ma la pala insomma. Ai tifernati – sì, si chiamano così i cittadini di Città di castello – le balle ancor gli girano: “lo sposalizio della Madonna (…) possiede ora Milano / invidiata ricchezza del suo ricchissimo Brera” c’è scritto su una grossa lapide sul muro esterno. Dentro, riproduzioni. Dei cinque quadri che Raffaello dipinse in città, ne è rimasto solo uno, molto rovinato e molto giovanile, inevitabile esser seccati.

La città (di castello) è comunque un paesone, senza offesa, la sera c’è la tombolona con l’istrionico Ottaviani, si canterà il paguro Bernardo e il divertimento è assicurato, se nun me voi scippà ‘r culo (citazione dovuta dalla più grande attrice di sempre, concittadina). Nella sede del PD in piazza non c’è nulla, nemmeno un manifesto, non sembra nemmeno essere coinvolto nella competizione elettorale. In città idem, nessun manifesto o striscione. Un sacco di scritte no vax, piuttosto, decine e decine, ma dopo un po’ mi rendo conto che la mano è sempre la stessa, servirebbe un calmante più che un vaccino. Per chiudere con Città di castello, vado a visitare palazzo Vitelli, anche qui la mano è di Vasari, con una facciatona istoriata bianco su grigio come i toscani ben sanno fare. I Vitelli fecero fortuna come condottieri al soldo di chi convenisse, cosa che si guadagna bene ma è pericoloso, specie se a un certo punto ci si mette al servizio di un gran filibustiere come Cesare Borgia, il duca di Valentino figlio di papa, e poi si ha la bella idea di ordire una congiura contro di lui. Finisce che si viene invitati a un banchetto e, alla fine, si viene strangolati. Machiavelli nel 1503 scrisse il trattato “Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini”, vualà. Riina poi copiò la cosa, trovandola interessante.

Mi sposto a Umbertide, graziosa cittadina fortificata sull’alto corso del Tevere cui venne in mente a un certo punto di ingraziarsi il re cambiando nome, che idee, e poi proseguo per le gole di Frasassi, che sono spettacolari per quanto sono ripide. Non vado alle grotte, già provvide una gita scolastica molto tempo fa, ma mi inerpico per una breve salita per vedere il tempio di Leone XII di Valadier. In una grottona in mezzo a una parete verticale si costruì un tempietto in onore del papa locale di rara grazia e proporzione (il tempietto, non il papa), in travertino opaco che fa proprio una gran figura. D’altronde, era Valadier, il suo villino sul Pincio a Roma è un’altra meraviglia, lo acquisterei volentieri. Perché Leone XII fu un bravo papa, dicono sulla lapide sul tempio, aprì vie, costruì case in paese – il resto dell’attività papale non pare interessi – ed “avrebbe più largheggiato se più avesse vissuto”.

In realtà visse abbastanza perché Pasquino scrivesse: “Qui della Genga giace, per sua e nostra pace”, e Genga è il paese natio, proprio qui dietro, ma non è la cosa interessante. La cosa interessante, almeno per noi ora, è questa: nel 1820 nello stato papale imperversò un’epidemia di vaiolo e il gonfaloniere Monaldo Leopardi, sì quello, nel 1822 istituì l’obbligo di vaccinazione. Eh sì. Ma attenzione: anche il fatto che la vaccinazione fosse gratuita. A fronte, però, del malcontento della popolazione contadina per l’obbligo vaccinale, che ritenevano pericoloso, il papa Leone XII cancellò la norma nel 1824: «Rimane obbligo a Medici e Chirurgi condotti di eseguirla gratuitamente [la vaccinazione antivaiolosa], a quanti vogliano prevalersene, essendo questa la cura ed il preservativo di una malattia alla quale, come a tutte le altre, essi hanno l’obbligo di riparare», dalla circolare legatizia. Forte, eh? Anche stavolta non abbiamo inventato un bel nulla. Né il rimedio né le idee sciocche. È deprimente e consolante allo stesso tempo, sono confuso.

Io però sono al fresco della grotta e mi sono portato un panino che ho chiesto di imbottire a una gentile salumaia. Non c’è ristorante o trattoria o cucina gourmet che tenga per me di fronte a un panino mangiato all’aperto, in montagna o davanti a un bel vedere, imbattibile. Il prosciutto diventa ancor più buono. Anche la frutta, devo dire, i mandarini sulla neve sono strepitosi. Quindi, io ho il mio panino con crudo e formaggio del posto, si sta bene, il posto è bello, la storia su cui riflettere l’ho raccontata, intendo quella dei vaccini obbligatori e no, direi che sono a posto anche se manca ancora mezza giornata o quasi. A domani, dunque, ripartendo da Fabriano. Sì, quella degli album da disegno.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: due, altro malfunzionamento, gioielli sparsi, doverosi omaggi, scritti personali

Da Ravenna c’è una bella stradona che va giù dritta dritta a Roma, mi fa comodo. Fin dal centro le indicazioni sono per la capitale con tanto di chilometri, trecentocinquanta, è più vicina di quanto non pensi, e fa senz’altro da riferimento anche culturale, Roma più che Milano. Mi fermo subito a Cesena perché c’è la biblioteca Malatestiana, vivessi lì ci andrei tutti i giorni. Ci sono due biblioteche quattrocentesche perfettamente conservate in Italia, una è la Laurenziana a Firenze e una è a Cesena, la Malatestiana, la più intoccata, nemmeno il riscaldamento. La cosa speciale, oltre a tutte, della Malatestiana è che i manoscritti e qualche raro incunabolo sono incatenati ai banchi di lettura, così i malviventi non se li rubano. Quindi, è il lettore ad andare al libro e non viceversa. Giusto, alla fine è il percorso che si è già fatto andando in biblioteca, ha senso. Per dare una misura, un buon manoscritto, nemmeno troppo miniato, nel Quattrocento costava come un medio palazzotto in centro, capito le catene? Arrivo presto, è chiusa, un cartello dice che il lunedì mattina lo è. A fianco, un A4 stampato dice che in agosto è aperta tutta la settimana, dalle nove. Bene. Chiedo, per scrupolo, alle impiegate della biblioteca moderna, mi dicono che sì, è aperta, ma dalle dieci. Insieme a una coppia di viaggiatori aspettiamo che apra. Non apre. Alle dieci e un quarto, abbordo un impiegato di passaggio che mi dice che il lunedì è chiusa. Ma come? Spiego la pappardella, i cartelli, le indicazioni, niente, è chiusa, i colleghi non ci sono. Facciamo presente le contraddizioni incontrate ed ecco la risposta maledetta: mi rendo conto ma non è di mia competenza. Bravo risposta esatta. Non lo riguarda, non sa chi se ne occupi, non può parlare con nessuno. Rimpalla. Lo so cosa voti, accidenti a te. Però così son già due in due giorni, cominciano a essere degli indizi di qualcosa. Te pensa i turisti, magari francesi o tedeschi, quanto capiscono questo genere di cose. Mollo a malincuore la biblioteca, faccio un breve giro per Cesena, riuscendo così sotto la rocca a rivedere l’unica campagna elettorale disponibile al momento, ovviamente lei, Meloni. Stavolta appare da una vetrina di quei negozi affittati per quello e dentro vuoti, tristi, sedi di comitati fantasma, il manifesto si rivolge ai patrioti, con la pi maiuscola, santoddio, lei sorride in posa e fa il gesto della vittoria con le dita come fosse il selfie di una ragazzina. Nessun messaggio politico nemmeno stavolta, meglio non averne.

Di Cesena ricordo il Moretti (Marino) di ‘A Cesena. Piove. È mercoledì’, meravigliosa sintesi di assenza di significato e di scopo, mi fa sempre ridere pensando ai moti dell’universo; alcuni anni fa qui mangiai le tagliatelle al ragù più buone della mia vita. Mi muovo.

L’appennino a sud di Cesena è magnifico, aperto, largo e dolce, le colline sono di molti verdi e vorrei farle tutte a piedi, ogni tanto un calanco che mette del giallo qua e là, ogni tanto un paesino, bei posti davvero. Poi si alza un po’, il percorso si incupisce e si ingola, e appena di là si comincia a scendere ci sono le sorgenti del Tevere. La strada che sto percorrendo, la Ravenna Perugia Orte Roma, è infatti la E45 Tiberina, non a caso. La ‘E’ davanti significa che è una dorsale europea e comincia in Norvegia su su, quasi al Capo, per scendere giù giù fino in Sicilia, all’altro capo. Dev’essere degli anni Sessanta, con le auto attuali stiamo appena nelle corsie, fa un po’ scempio della valle ma in effetti velocizza. Dopo un po’ mi stufo di essere veloce ed esco, piego per Sarsina, che sta un po’ più sopra. A chi ha gli studi classici, dirà qualcosa, infatti: Plauto. Non che lui ci sia, nonostante una ridicola ‘casa di Plauto’ sì e no medievale, né la città romana, sebbene tracce di pavimentazione e la solita piazza che ricalca il foro. Sono qui più che altro per un omaggio ai suoi fanfaroni, potrei pure incontrare un sosia, anzi Sosia, che si chiede se è ancora lui, quanto mi divertono le commedie plautine. Qui ci son già stato, conservo una foto di mio padre appoggiato al muro della chiesa, eravamo qui per lo stesso motivo di oggi. Aveva una giacca a vento perché pioveva e aveva appena scoperto di aver perso un po’ di soldi a causa della Lehmann brothers, l’umore variava. Ma Plauto ci rallegrava, come tante altre cose. Prendo un caffè in piazza per scrivere un po’, le notizie alla radio citano qua e là la borsa di Amsterdam e il costo del gas come fossero concetti chiari, già mi vedo gli schemini di Corriere e Repubblica per comprendere i meccanismi di formazione del prezzo delle energie, alla mia destra, finalmente, un segnale politico comprensibile in questa campagna elettorale, era ora.

A questo punto, potrebbe pure passare Plauto che ne sarei quasi meno sorpreso. Proseguo per stradine perché voglio andare a Caprese, un borghetto cucuzzolato in cima al quale il babbo di Michelangelo faceva il podestà. Ed è infatti qui che, in una casa podestarile, nacque il figlio così dotato. Ahah, eh sì, non era fiorentino. Pensare che poi uno da qui vada a progettare la cupola di San Pietro pare veramente racconto di fantasia. Son boschi tutto attorno, pini, siamo ancora alti, ma in fondo si intuisce un lago artificiale, uno sbarramento in terra al corso del Tevere, che è ancora piccoletto, e una piana che si apre che par tirata con la bolla. Passo da Pieve Santo Stefano, nota nel paese per essere la sede dell’Archivio Diaristico Nazionale, su iniziativa di Tutino, e proseguo per la mia destinazione, Anghiari. Ovvio, voglio vedere il prete, se gli spuntano le ali e se sa fare scivolarello su ringhiere di scale rinascimentali, che bravo era Ivan Graziani. Anghiari è nota per la famosa battaglia del 1440 che si combattè nella piana sotto, tra milanesi e una lega tra papato, fiorentini e veneziani. Vinsero i secondi ma giova ricordare l’ironia di Machiavelli: “Ed in tanta rotta e in sì lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite ne d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò”. La battaglia è all’origine anche di un’altra storia, che si dilunga fino a oggi ed è per sommi capi e nel più breve tempo questa: la repubblica fiorentina commissionò a Leonardo e Michelangelo due affreschi, rispettivamente la battaglia di Anghiari e quella di Càscina, per adornare le due pareti lunghe ed enormi del salone dei Cinquecento a palazzo vecchio; Michelangelo preparò il solo cartone e si dileguò, avendo ricevuto la parete in ombra, Leonardo come suo solito dipinse con tecnica fallace, olio su intonaco invece dell’affresco, fortuna ne abbiamo una copia credo di Rubens perché il dipinto durò poco e niente; bene, fu chiamato Vasari per ricoprire la parete rovinata, il quale dipinse il suo affrescone, aggiungendo un cartiglio in alto con la scritta ‘cerca, trova’; siccome l’aveva già fatto un’altra volta, alcuni suppongono che abbia salvato la parete leonardesca con un muro ed è per questo che qualche anno fa il sindaco Renzi, tra il disappunto generale, si mise a bucherellare il Vasari alla ricerca del Leonardo perduto. Renzi, è andato, su, sempre alla ricerca di notorietà personale. Uff, l’ho raccontata tutta d’un fiato. Vasari l’ho scoperto quest’estate, decisamente sottovalutato. Le Vite, certo, ma c’è molto molto altro, la figura è del tutto rilevante. Ricapiterà più avanti.

Da queste parti, dipende dalla strada che pigli, giri a destra o sinistra ed è Romagna, Toscana, Marche o Umbria, ci si mette un momento a essere di qua o di là. Attenzione alle scelte, dunque. Anghiari è molto piacevole, tutta abbarbicata al di sopra di una piana, lo dicevo, amenissima che si perde a vista d’occhio e che pare piallata, forse in parte dal Tevere. A un certo punto c’è un centro-logistica grosso come una regione ma da qui non lo vedo e, dunque, al momento non esiste. Se a Pieve Santo Stefano erano i diari, ad Anghiari ha sede la Libera Università dell’autobiografia, anche in questa c’è lo zampino di Tutino, non son coincidenze. Ma son belle cose, i diari e le autobiografie, generi da coltivare. Io prediligo il primo, in forma rigorosamente privata, raramente parlo di me. Ma le autobiografie delle vite interessanti son da raccogliere e tramandare, eccome. Mentre contemplo Anghiari, consumo la mia merenda in piazza e osservo la statua di un non mai abbastanza celebrato Garibaldi che, sopra la scritta “O Roma o morte”, indica buffamente col dito una direzione, immagino di Roma, con gesto atletico talmente ampio da risultare comico (Oh, hai visto dellà?). Io, come mio solito, guardo il dito e non Roma, anche perché ho il sospetto che stia dall’altra parte. Ah, gli scultori.

La mia giornata sarà ancora lunga e contempla Sansepolcro e Città di Castello, con tutto ciò in ivi contenuto, Piero della Francesca sopra tutto, ma mi rendo conto che sono andato abbastanza lungo per oggi, per cui chiudo qui e rimando alla terza parte, mica è un diario quotidiano. Impressionante quante cose si facciano in un giorno, quando sono seduto alla scrivania non riesco proprio a crederci, a volte per progettare un bel viaggio bastano pochissimi giorni, a volte due o tre. Tendo a dimenticarmene. A Sansepolcro son pochi chilometri, c’è una strada che scende e dritta dritta dritta ci va senza nemmeno provare a curvare. La vedo, sarà facile.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: uno, secoli oscuri, un malfunzionamento, odonomastica irritante

Dopo le vacanze vere, servono delle vacanze più piccole per riprendersi. Io ho un impegnino a Bologna, ci attacco un girino vagabondo dei miei. Piccoli centri o luoghi meravigliosi qua e là, niente grandi città o situazioni complesse, ovviamente serve la macchina e questo a me piace sempre meno del trasporto pubblico.
È una strana bolla temporale, quella di questi giorni, la stagione estiva è finita, oggi l’A1 era una coda unica in ritorno, ma non è ancora il primo settembre, soglia psicologica della scuola, dei buoni propositi, delle diete, dei corsi di tedesco. Chi ha lavorato tutta l’estate è in pausa o sta chiudendo, pochi turisti rimasti in giro, ma ancora si respira l’aria d’estate. Fa caldo, si mangia fuori ma le calamite e i braccioli non si trovano più, ancora c’è una settimana, suppergiù, prima dell’inizio. Il che vale anche per le elezioni, non si percepisce granché, alla campagna elettorale, intendo da parte dei cittadini, ci si penserà tra qualche giorno.

Opto per Ravenna, per la notte. Se riesco ad arrivare a un’ora decente, forse ce la faccio a rivedere il complesso di san Vitale, cioè la basilica e il mausoleo di Galla Placidia, che gli sta accanto. Ripercorro i miei tre cicli scolastici, cioè quelli di tutti, in cui, dopo aver sofferto dalle guerre puniche alle catilinarie per almeno tre volte, si arrivava alla caduta dell’impero romano d’Occidente e succedeva questo: bah, poi c’era quello d’Oriente, sì, i bizantini, l’esarcato, i longobardi e in un batter di ciglia, cioè due ore di lezione, si era a Carlo Magno, Ottoni, e poi un altro saltone fino a Federico II di Svevia. Chi fossero costoro, non si sa. I bizantini, in particolare, oltre a far mosaici, stare a Ravenna, ignorare la terza dimensione, far cose proverbialmente complicate, alcuni corpus di leggi, avevano quell’aria emaciata e stanca che mi fa tanto ridere in Brancaleone, quando Volonté lo porta dalla sua famiglia. E invece son secoli ma per noi no, qualche menzione tra Giustiniano, Teodosio e poco altro, alla rinfusa.

Loro, invece, i bizantini, stanno lì e ci guardano tutti in fila, dai mosaici in alto, o nei tondi, come a Sant’Apollinare. Noi, niente. Ravenna è una magnifica città turistica, piena di tesori, e i ravennati sono abituati alla ricezione. Come mi sono ripromesso, punto il complesso di san Vitale e mi presento alla biglietteria unificata di Ravenna. Classica scena, saluto cordialmente, l’impiegata non alza nemmeno la testa, tace e continua a fare i conti sulla calcolatrice. Minuti. Aspetto perché voglio vedere fin dove arriva, io sono uno che sbotta subito ma resisto, dopo un po’ dice Dica, niente saluti. Vorrei un biglietto per san Vitale, dico, diecieuroecinquanta dice lei e bon, fine dell’amicizia. Entro nel complesso, che è tutto recintato, mostro il biglietto e vado dritto al mausoleo di Galla Placidia. Lì un’altra signora mi dice che il mio biglietto non è valido, cioè non comprende il mausoleo. Ma come? Guardo il biglietto, è valido per la basilica, il museo diocesano e un museo mai sentito. Simpatica, la bigliettaia. Mi godo la basilica, splendida, ottagonale, complessa e articolata, mi siedo contento e poi torno, son cose che non mi lascio sfuggire. Lei, di quel precisinismo che secondo me tanto male fa agli sportelli e al paese, mi dice Lei ha detto solo sanvitale. Eh, grazie, mica sapevo di dover specificare, è tutto nello stesso recinto, non poteva mica chiedermi se volessi anche il mausoleo?, chiedo. No, non rientra nelle sue mansioni, ritiene. Nessuno sforzo in più, l’avevo capito fin dall’inizio. Per come la vedo io, queste situazioni non solo solo dovute alla pigrizia, le classifico come piccoli esercizi di potere, là dove potresti essere utile ma ometti, perché lo puoi fare e decidi di farlo. Lo fai per e con chi e quando ti va. Spesso è una specie di rivalsa per i torti subiti da qualcun altro, ti rifai indirettamente. Micidiale, bastavano due parole in più. Non perdo l’occasione e faccio presente ad alta voce davanti a tutti, lei dice solo che io non l’avevo chiesto. Figurati un turista che, magari, nemmeno parla la lingua, ma non le importa. D’accordo, un episodio, niente di che.

In vista delle prossime elezioni, tendo a classificare questi comportamenti già alla luce di un meloniano liberi tutti, via libera al disinteresse, all’individualismo, al menefreghismo. Può darsi non sia così ma non posso farci niente, già li rivedo alzare la testa, mi preoccupa. Odio, gramscianamente, gli indifferenti. Per fortuna, a Ravenna c’è la festa dell’Unità. Torna l’emozione di stare insieme, dicono, ma certo. Ma il sentimento è quello di una ritrazione, di pigliare un sentiero per una lunga (?) marcia, solo che non ricordo: quand’è che si era vinto? Eh. Comunque sono elucubrazioni mie, come dicevo di segni della politica ce ne son pochi, qui, è più una questione di giornali e televisione, è ancora tutto fermo. Poi inciampo in un segno del passato, ben presente.

Ma porcocane. Gardini? Certo che era di Ravenna, ma una via? Pure il marmo col mosaico? A Parma c’è via Calisto Tanzi? Va ben pur tutto, d’accordo che Romolo Gessi poteva essere superato, ma la maxi tangente Enimont, il matrimonio furbesco con la figlia di Ferruzzi per dare inizio alla scalata, la strafottenza, il rifiuto delle regole, la truffa allo Stato, il craxismo sfrenato per chiudere con il vigliacco suicidio alla vigilia della convocazione in procura ce li si ricorda? O è solo il moro di Venezia?
All’autogrill, proprio a un metro dalla porta scorrevole, c’è un manifesto di Meloni, uno di quelli che dice Pronti, finalmente con un uso dignitoso di photoshop, difficile non sbatterci contro. Anzi, bisogna proprio evitarlo, il che è efficace e molesto insieme. Oddio, non so davvero se funzioni, cioè se porti o meno qualche voto in più, il rischio è di venire confusa col Camogli e l’offerta per la colazione. Resto però convinto che l’effetto trainamento di chi parla come se avesse vinto sia in effetti sostanzioso. Temo addirittura che finirà peggio di come si dice ora, nei sondaggi. Comunque, un losco figuro ha provveduto a disegnare due baffetti hitleriani sotto il naso della ringhiosa candidata, disinnescando a dovere il manifesto. Bravo, lotta politica con argomenti, andiamo bene.

Ravenna è piacevolissima lo so fin dal 1993 quando in un bar qualsiasi, ahinoi, lessi mangiando il cornetto che Frank Zappa era morto, cioè la nostra è una frequentazione più che trentennale, con mia grande soddisfazione. Non so della città, credo sia indifferente, come quei bizantini che mi guardano, tutti in fila, tutti impettiti fuori dal palatium e io, bestia, non so nulla di loro. Saranno poco colpiti anche dalla mia partenza, quindi a cuor leggero domani piglierò una bella direttrice verso sud che tocca un posto più bello dell’altro e mi beerò di deviazioni a sorpresa ogni volta che un cartello mi stimolerà. Bello così, per me. Posti, arrivo.


L’indice di stavolta

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istantanee da un quinquennio vissuto pericolosamente

Quattro anni e mezzo, a dire il vero, grazie all’ingenuità ancora dei cinque stelle e al totale disinteresse della destra per le sorti del paese. Silurato Draghi in favore delle elezioni, assurde a settembre, la legislatura va a chiudersi e restano pochi bei ricordi, molte macerie, una montagna di cretinate e di vergogna di tre governi in cinque anni.
In attesa, ilsignoreabbiapietà, di un treno carico di pessime cose lanciato a bomba contro molti di noi il 25 settembre, giova fare una carrellatina di diapositive di ciò che è stato politicamente dal 2018 a oggi, per sommi capi e per discese azzardate e una sola risalita. Scelta mia, come al solito insindacabile. Andiamo.

Risultati del voto divisi in tre, il botto lo fece certamente il movimento cinque stelle, quello qui sotto rappresentato da uno che ora ne è uscito ed è andato a sinistra e un altro che ha fondato una listina propria caricando tutto il peggio di no vax, terrapiattisti, complottisti e dementi vari. Cioè quel che già c’era nel movimento, la bad company.

Resterà il vano tentativo di Bersani, l’unico alla fine con cui i cinquestellini non siano andati, quelle assurde dirette di Grillo e compagnia bella ai tavoli delle trattative, sceneggiate, e tutto il cosare di cervello che Di Maio, Salvini e scherani vari insieme misero nel “contratto per il governo del cambiamento”. Che non ci voleva mica uno statista a capire già allora che roba era.

Poi, nella fretta e furia di dimostrare quanto si stesse facendo, uno dei momenti più belli: quando sconfiggemmo la povertà. Che momento. Infatti, da allora essa non esiste più, la si pensa come un concetto astratto, appartenente al passato, una cosa come le pitture rupestri. Che epoca.

Poi, dopo una sequela infinita di navi bloccate, porti fintamente chiusi, cause, torti inenarrabili verso coloro che erano in balia delle onde, un fiume di sciocchezze e volgarità, venne puntuale l’estate dello svago, della spensieratezza, del potere esercitato alla consolle, dei mojito, presumibilmente della cocaina, del sudore, del grasso e dell’imbecillità sovrana che poi portò al suicidio politico.

E venne uno dei momenti più raccapriccianti che io ricordi. Uno, il sorteggiato a capo del governo, mai visto né sentito prima del 2018, che insultò per una mezz’ora buona l’altro, il ministro dei porti e capo politico della destra, il quale non riuscì a fare di meglio che scuotere la testa tutto il tempo e baciare, in favore di telecamera, il crocifisso e rosario che teneva sul tavolo. Sembrava di guardare un documentario zavattiniano sull’Italia degli anni Cinquanta, rappresentata da una famiglia con figlio grande, grosso e ciula, dallo sguardo bovino che, inabile al lavoro che non sia nel campo, si unisce nel gesto a un paese vacuamente religioso, scaramantico, suscettibile, fino su al presidente della repubblica che fa le corna e tributa benemerenza al capo mafioso in visita. Orrendo, tutto.

L’abilità dell’uomo venuto dal nulla fu poi quella di rimanere in sella e dare il due (II) a un altro governo a proprio nome. Non sapeva, però, lo sciagurato che poco dopo sarebbe arrivata una pandemia coi controfiocchi, cosa che avrebbe saputo gestire al minimo sindacale. Ne trasse, invece, orgogliosa occasione di apparire di continuo, far pendere dalle proprie labbra un paese, ingarbugliare le cose a forza di regolamenti e decreti bizantini comunicati via social dopo la mezzanotte, senza riuscire a contrastare il potere locale dei governatori, ebbri dello stesso medesimo potere.

Nel bel mezzo del secondo inverno di pandemia, con tempismo discutibile, un’azzardata crisi di governo portò a ciò che io pronosticai due anni prima, sbagliando di due mesi, ovvero al governo della più rispettabile e convincente personalità che ci fosse nel paese. Le chiacchiere andarono a zero, le vaccinazioni cominciarono a essere fatte con regolarità, finiti i doppi comunicati di governo e regioni, fine dei supercommissari e degli hub faraonici senza scopo, arrivarono in regalo molti mesi di governo serio, lavoro, risultati e soprattutto silenzio. Come mi mancheranno.

Venne poi il momento di eleggere il nuovo capo di Stato. Quello vecchio era ormai un anno che andava in giro a salutare, ringraziare e specificare ogni volta che aveva finito, basta, a posto, voleva fare il nonno. E più lui lo diceva, più noi qui sapevamo che l’avrebbero incastrato. Prese pure casa – non comprare, gli dissi, affitta, ascolta me – e fece girare le foto, fece gli scatoloni per far capire e poi cosa successe? Ovvio.

Quel che lui, e anche noi, non sapeva è che un paio di settimane dopo la ri-nomina a capo delle forze armate sarebbe pure scoppiata una guerra dell’accidenti in Europa, oltre alle rogne che aveva potuto intuire da solo. Quello del suicidio politico, dei porti, dei cocktails colse l’occasione per farsi sbeffeggiare in giro per l’Europa per le sue posizioni filoputiniane ma, incurante come sanno fare gli oggetti, proseguì la sua vita fatta di dichiarazioni a caso e azioni ancor più casuali.

Il resto, poi, è storia recente. Come detto, l’avvocato venuto dal nulla e desideroso, evidentemente, di tornarci, cascò nel trappolone tesogli dalla destra, il governo cadde con sette mesi di anticipo, si decise per la prima volta nella storia della Repubblica di votare nella seconda metà dell’anno, scelta improvvida e con tempi strettissimi, ci fu un fuggi fuggi generale e un riassestamento complessivo delle pedine in campo, e poi via, verso una campagna elettorale come sempre vuota di qualsiasi contenuto – e sì che ce ne sarebbero, acqua, covid, guerra, finanze, lavoro, quarta stagione di Boris – ma ricca di dichiarazioni rilanciate con eco ovunque. In attesa dell’articolo, perché arriva, che ci comunicherà che il parlamento, nonostante sia stato ridotto di un terzo, costa allo Stato più di prima, aspetto il treno carico di rifiuti pericolosi che fa già sentire il suo fischio, lanciato verso di noi a settembre e per il tempo a venire.

Un pronostico? Un anno e mezzo di sciagure, due forse visto l’inedito voto a settembre, tutte le scemenze possibili e ancora non immaginabili, e poi di nuovo commissariati, ovvero una figura di garanzia sostenuta da tutte le opposizioni che metta una toppa, ancora, allo scempio dei conti pubblici e del funzionamento dello stato che il prossimo governo inevitabilmente farà.

Un album più esteso e completo di didascalie l’ha fatto il Post qui, da cui ho pescato a mio piacere.

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: quattro, un luogo ameno da sempre, fontane a iosa, santuari idroelettrici, impiegati smarriti

Prosciutto e melone fa male? Pisolino quotidiano? A rischio infarto. Con la testa piena di questioni estive e prementi, parto per un altro dintorno. Non che le altre non lo fossero ma stavolta è una destinazione davvero da Grand Tour: Tivoli. Non è mica un caso se dalla Danimarca alla Bolivia i posti di ricreazione, bar, parchi gioco, giostre, ristoranti, li chiamano Tivoli quando vogliono far capire che il luogo è ameno. E non è, ovviamente, nemmeno un caso se di Tivoli parlano quasi tutti gli autori antichi e molti di essi ci si fecero costruire ville e ci vennero a scavallare l’estate. Perché Tivoli sta su una delle ultime colline verso Roma, poi è tutto piatto piattento, si vede lontanissimo, ed è anche alla fine della valle dell’Aniene, che lì fa uno svoltolone, un bel salto e poi scende giù e va verso la capitale. Insomma, verde, fresco e bella vista, gli ingredienti ci son tutti, basta evitare il melone col prosciutto, nel dubbio. Ah, Tivoli è pure più antica di Roma, si dice milleddue prima di cristo, immaginate gli sfottò nei bar. Secondo Dionigi di Alicarnasso fu fondata – eh, lo so, ho riso pure io ma non fa una piega – dagli aborigeni, cioè quelli che stavan lì fin dal principio, letteralmente. Noi li riteniamo Siculi, poi la storia andò come è facile supporre.

A Tivoli ci sono molte cose da vedere, io so già cosa non vedrò, perché merita una visita a sé con molta calma e il mio ricordo è ancora vivido: la sterminata villa di Adriano, ove l’imperatore si fece riprodurre il mondo conosciuto a suo diletto. Oggi, se tutto va bene, vedrò un paio di villone, una romana e una rinascimentale, un santuario usato per l’industria, un castellone costruito su un anfiteatro, un paio di templi, una cascatona e tante piccole cascatine, un paio di grotte, un’opera idraulica colossale, qualche belvedere, ovviamente il paese con le sue cose. Direi che è sufficiente. Insomma, vale il viaggio e varrebbe anche fermarcisi un paio di giorni, alla Goethe, per capire un po’ come funziona. Provo a raccontarlo anche se, lo so, di fronte alle cose entusiasmanti mi sfugge la brevità, ce provo.

Per restare a un tema di questo periodo e di questi miei giorni, l’acqua è un problema anche se ce n’è troppa, nel senso che entra in casa e ti porta via col letto compreso. L’Aniene è da sempre soggetto a piene torrenziali, è un fiume piuttosto grosso, e quello svoltolo nel centro del paese che la maggior parte del tempo è una delizia, talvolta diventa un problema. Plinio racconta la piena del 105 che si portò via mezzo paese. Per molto tempo si è cercata una soluzione finché nel 1832 l’ingegner Nonmiricordo propose a papa Gregorio XVI di scavare um tunnel nella montagna per far defluire il grosso delle acque al di fuori del paese, lasciando il vecchio corso, ormai placido e controllato, per le esigenze dei cittadini. Così si fece, si creò la grande Cascata, la seconda dopo quella delle Marmore in Italia, e l’opera idraulica diventò essa stessa motivo di visita a Tivoli, anche nel Gran Tour. Il vecchio salto del fiume, famoso per le sue ville, i templi, le grotte delle Sibille, nel dopoguerra venne utilizzato con saggezza come discarica. Ottimo. Oggi, grazie al FAI, la zona è recuperata e visitabile, e fate ‘sta tessera, è la cosiddetta villa Gregoriana ed è una vera meraviglia, tra spelonche, resti romani, cascate, forre, templi e verzure. A un certo punto, col precipitare delle acque, ci sarebbe voluto persino un golfino, figuriamoci.

L’abbondanza di acqua è anche all’origine della scelta del cardinale Ippolito d’Este di farsi costruire una villa sontuosa proprio qui a Tivoli, forse sulle fondamenta di quella di Mecenate, che non sappiamo dove fosse. La particolarità di villa d’Este, che pure è meravigliosa e un esempio di Rinascimento insuperabile con un sacco di Zuccari, sono i giardini e soprattutto le fontane: si dice siano più di cinquecento, una da sola ha trecento cannelle, ce ne sono alcune gigantesche, altre minuscole, alcune hanno i pesci, una addirittura suona, c’è una scala tutta di marmo sul cui corrimano scorre l’acqua, insomma un trionfo di spruzzi, getti e schizzi. Il tutto in un parco ovviamente verdissimo. Il fragore degli scrosci è notevole, mi piacerebbe dormirci una volta, e il suono da solo basta a placare la sensazione di calura, come ben sapevano gli arabi. Io le giro tutte tutte e sono convinto di essere riuscito nel mio intento: mettere la testa in tutte e cinquecento.

Dopo tutta quella acqua, la realtà. Esco e il sole è azimutale e picchia con forza ma io devo vedere ancora una cosa almeno: il santuario di Ercole vincitore. Che è uno dei santuari, cioè tempione, criptoportico, aule eccetera, di epoca repubblicana più grandi della romanità. Bisogna scendere un po’ da una collina tutta brulla, un paio di volte ripenso a tutta quell’acqua così a portata di mano e mi chiedo se proseguire, poi noto poco avanti a me un uomo con zaino e sudore che sta evidentemente compiendo la mia stessa scellerata scelta, camminando di ombra in ombra. Alla prima curva attacco bottone, è Mirco (cappa?) e oltre a essere simpatico è pure archeologo, cosa meglio? Facciamo la visita insieme, che è sempre interessante. Del santuario resta pochino perché, oltre a essersi portati via i marmi come al solito, a un certo punto sul suo enorme basamento ritennero opportuno metterci prima una fabbrica di archibugi, “cose alla bresciana” le definisce il documento di fondazione e poi, vista l’acqua, una cartiera. Di quelle ottocentesche e pesanti. Quindi è una commistione di archeologia sia antica che industriale notevolissima ma dal punto di vista del santuario le cose son più complicate. Visto che già c’era l’acqua, causa cartiera, e le fondamenta, causa santuario, l’allora Enel vi installò una condotta forzata che ripigliava l’acqua in caduta da villa d’Este e delle belle turbine, che illuminarono sia Tivoli che, poi, Roma. Ancora bene ma ciao santuario. Poi la cartiera chiuse per conto suo, l’Enel mise un’enorme targa a celebrare la propria generosità nel chiudere la condotta nel 1993, che carini, e quel che rimane è questo enorme accrocchione di attività umane lungo duemila anni che viene visitato solo dai pazzi. Come pazzo sarà di certo diventato l’impiegato del museo dentro il santuario, dato che il museo, grande idea tipica di certi recuperi italiani, non è per nulla segnalato né si capisce che a un certo punto si possa entrare da qualche parte. Credo, dall’espressione, che potremmo essere le prime persone che vede da decenni, ormai fa parte dell’arredo come i pochi resti romani disposti nelle due stanze del museo. Facciamo due chiacchiere, gli consigliamo di non uscire e andiamo, in risalita. Ciao Mirco, grazie delle belle chiacchiere e delle spiegazioni sui tessuti murari, buona prosecuzione, lo saluto ed è buffo che vada a Caserta, al contrario del mio giro. Se per ventura ti dovessi leggere qui, perdona l’imprecisione del linguaggio archeologico.

Dopo tutta l’ubriacatura d’acqua di villa d’Este – il dato idraulico parla di ottocento metri cubi al secondo, moltiplicare per mille per avere i litri – è curioso che io cerchi un baretto per pigliare una bottiglietta d’acqua da mezzo litro e il ritorno a una realtà calda e piuttosto riarsa è difficile da mettere a fuoco. È uno degli aspetti tipici dell’acqua, esserci o meno, là dove c’è ce n’è molta, dove ovviamente non c’è non si scappa. Difficile si redistribuisca in modo uniforme, al di là del muro ce n’è da scoppiare, qua fuori sembra il Colorado. Il paese qui a fianco, Marcellina, non ha il fiume e di conseguenza ha da sempre un’economia e uno sviluppo del tutto diversi, meno floridi ovviamente. Di certo Orazio mica si sarebbe costruito la villa a Marcellina, con rispetto parlando. Son banalità, lo so, ma riflettere su ciò che si ha, o non, in modo piano serve anche a riconsiderare il valore di alcune cose e a non darle per scontate. L’acqua credo sia la più importante.

Eccomi qua, anche questo girolino è tutto sommato finito. Ci ho messo dentro qualche altro piccolo dintorno, Ponte Nomentano perché pur sempre di Aniene si parla, Sant’Agnese fuori le mura, luoghi che alla fine non son più nemmeno dintorni ma Roma stessa. Nonostante non avessi molti giorni disponibili, non si è trattato di un ripiego, tutt’altro, ho visto cose meravigliose e di grande qualità, persino con poco sforzo organizzativo e di movimento, e poi come si mangia in Italia, ah signora mia. Ho visto, come dicevo, pezzi di Grand Tour che i viaggiatori di un tempo sognavano una vita e potevano fare solo se ricchi e con del buon tempo, un’altra cosa fortunata della contemporaneità da non dare per scontata. Certo, ci sono anche le controindicazioni, per esempio stamane ho visitato il giardino di palazzo Colonna nel centro di Roma e l’ho trovato francamente piccoletto, una sola fontana miserina con una statuetta sghimbescia e uno spruzzino che nemmeno un rubinetto rotto. Eh già, villa d’Este mi ha rovinato i giardini di tutte le ville future e un po’ anche di quelle passate, retroattivamente, il confronto sarà quasi sempre impari. Vedi cosa succede ad andare in giro? Sto celiando, ovviamente, vedere il meglio è già di per sé una fortuna e per arrivarci bisogna vedere molto del resto, quindi tutto bene. Altrimenti non ce ne si accorge. L’idea per me, sempre di più, è fare viaggi sulla base di un progetto, anche minimo, e questo era i dintorni, diciamo, di Roma, a un’ora di distanza. È andata molto bene, non poteva che essere così, l’importante, credo, in questi casi sia fare il meglio che si può con ciò che si ha a disposizione. E quel che si ha, che si può avere se possibile, alla fine sono cuore e un po’ di entusiasmo. Il posto, la distanza o il dintorno non contano.


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: tre, i bacili, van wittel, usare la conoscenza per fare cose sagge e belle

Sempre per la questione discutibile dei dintorni, che lo diventano se raggiungibili in poco – per cui per fare un esempio su Roma, Napoli è più dintorno di Tivoli – vado a Caserta. Treno dritto per Lecce, un’ora secca. Niente male, considerando ciò che offre. La reggia, ovviamente. Che è pure, proprio proprio, sulla via Appia, son commosso. Qui la storia è complicata e implica il matrimonio di Elisabetta Farnese da Parma con il re Filippo dalla Spagna, la successione sfortunata di un certo numero di figliastri – di lui, che caso – fino ad arrivare al primogenito di lei, Carlo, che, grazie alla guerra di successione polacca, sì, polacca, acquisì tra le altre cose il regno di Napoli. Settecento, comunque. Poiché Napoli era troppo esposta al mare, e già gli inglesi avevano spadroneggiato non poco, e alle intemperie del Vesuvio, Carlo comprò dai Caetani il territorio di Caserta per farvi casa di vacanza. E così fu, grazie all’architetto di corte Vanvitelli, nella seconda parte del Settecento. Loro non lo sapevano ma erano un po’ al limite di un’epoca e la reggia sarebbe servita poco, come poco sarebbe durata la dinastia dei re napoletani e Carlo stesso. Prima Murat, poi la restaurazione, breve, e poi la caduta con l’Italia unita, cui seguì la scomparsa di buona parte delle monarchie europee. Pensavano di durare in eterno o, comunque, parecchio. L’avessero saputo, avrebbero speso i sette milioni di soldi in altro modo, immagino, invece che costruire la reggia più grande del mondo (poi abbassano la voce, quando uno dice Versailles?, e dicono per volume). Poi la storia continua che ci girano i film e ci vanno i turisti, cioè io.

Il violino, non oggi. Purtroppo.

C’è una buffa storia che ho raccontato tempo fa sulla reggia appena incamerata dai Savoia, e aveva a che fare con dei bacili a forma di chitarra di uso sconosciuto per quei buzzurri del nord. Ho il vago sospetto che, come tante altre storie, faccia parte di una propaganda filoborbonica ancora attuale, che mette l’accento su quanto il regno delle Due Sicilie fosse avanzato e fiorente rispetto a quello di Sardegna e Piemonte. La questione è ancora viva, si è visto nel centocinquantesimo dell’Italia unita, francamente però son partigianerie noiose e di poca importanza storica, buone per i convegnetti locali terreno di conquista di storici improvvisati. Di sicuro il regno era evoluto, sperimentava senz’altro commerci e progresso, la prima ferrovia italiana a doppio binario fu la Napoli-Portici, la zona era ricca fin da Ercolano e Pompei, le industrie c’erano. Come che sia, al di là delle polemiche, che ci siano i bidet è un fatto, bravi e netti.

La stazione è proprio di fronte all’enorme piazza della Reggia, il biglietto si compra online, francamente è difficile chiedere di più. Biglietto Reggia più parco, è ovvio, perché il giardinone, a forma di enorme violino, è altrettanto interessante. Lunghetto, parliamo di chilometri e centinaia di ettari, risparmiati per fortuna dalla voracità di Caserta nuova. Degli appartamenti e delle sale di rappresentanza, la cosa più impressionante è lo scalone con il vestibolo di raccordo sopra, foresta di colonne e archi colossali, ben lo sanno i registi che qui hanno ambientato scene persino di fantascienza. Io un pochetto più di oro e marmi in giro l’avrei messo, se devo essere sincero. Certo che se poi riempi ogni cosa di monogrammi, anche gli schienali imbottiti delle sedie, poi arriva Giuseppe Bonaparte che li cambia tutti e poi quando si torna tocca di nuovo scalpellare e scucire tutto. C’è pure un vasone di marmo dono del papa a ringraziamento dell’ospitalità a Gaeta, quando scappò dopo i fatti del ’49. Ah, se lo fossero tenuto, chissà come sarebbe andata. Io, lo ammetto, prediligo le sale colossali, al ventottesimo salottino vellutato con vedutisti partenopei e vasetti di porcellana di Capodimonte, ho qualche mancamento. Non male la stanza da letto di Ferdinando II il cui mobilio fu interamente bruciato nel 1859, alla sua morte per supposta malattia contagiosa. No, mi spiace, io non glielo porto il latte, nonono, poi metti che tocco il comodino per sbaglio.
Aggredisco il parco. Sono circa quattro chilometri in linea retta, di vasca in vasca, di fontana in fontana, con rampa finale alle cascate dell’acquedotto carolino. Affittano bici, bici elettriche, c’è un pullmino che fa la corsa fin su e per fortuna che col nuovo direttore, persona civile, hanno smesso di affittare i quad. Io vado a piedi, perché devo testare tutto, nonostante i settantanove gradi centigradi centosei percepiti. E poi bisogna pure tornare.

Ma è come fosse mio, come se fossi Ferdinando qualcosa che passeggia ragionando di Ragion di Stato, diffidando del real amministratore. Chissà chi è tutta ‘sta gente nel mio giardino? Mah, voleranno teste prima o poi.
Voglio vedere ancora una cosa, qui, ma non ci arrivo a piedi. Contratto con un tassista una tariffa ragionevole e andiamo verso Maddaloni, nella valle, rispettando qualche luogo comune: niente cinture, riserva sparata, mezza strada con le ruote oltre la linea continua. Però è simpatico. Voglio vedere, e lo vedo, l’acquedotto carolino, un’oretta di gita. È talmente imponente che pare romano antico, circa sessanta metri d’altezza, ma è invece vanvitelliano, perché porta l’acqua alle vasche del parco reale. Che bravo, Vanvitelli, regge, giardini, idraulica, acquedotti colossali, decisamente versatile. Tre ordini di archi, cielo azzurro, manco un marciapiede per stare, tipo camoscio di notte sull’autostrada. Ma il punto, ancora, è: costruire un artefattone del genere per portare l’acqua e pare che poi uno la spreca? Ma per nulla, prima nelle vasche e poi nell’acquedotto cittadino e per i servizi della reggia. Troppa fatica e troppo costosa, l’acqua. È ancora così, dovrebbe, altro che piscinette d’acqua potabile al Brico.

Ci sarebbero a tiro santa Maria Capua a Vetere e Capua ma troppo per un giorno solo di gita fuori porta. Mantengo il segnalino sulla mappa, natavolta. Reintegro i liquidi consumati nell’impresa del parco della reggia con un bombolotto di ricotta e uvetta che pesa quanto un sampietrino, riesco a farlo scendere con un cappuccino rovente – il trucco è sempre lo stesso: scalda il tuo corpo più dell’ambiente esterno e avrai fresco – e mi dichiaro soddisfatto. Un saluto a Vanvitelli nel suo parchetto, per inciso il suo babbo dipingeva bene e suo figlio seguì con valore le orme paterne, e via di ritorno, con il comodo treno.


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: due, vivere a un’altra velocità?, non buttate la chiave, santarrosa

Cose rimaste da fare a Orvieto: il giro della rupe, un sentiero che ne costeggia la base sul perimetro; la visita alle necropoli etrusche. Prossima volta, sempre lasciarsi indietro qualcosa, è il mio equivalente della monetina nell’acqua. Prendo la funicolare perché la voglio provare. Appena costruita, l’aumento del peso della vettura a monte veniva generato con l’acqua, ora ovviamente la trazione è elettrica ma il resto, fino al bigliettaio, è lo stesso. Me ne torno a Roma, come da piano.

Un paio di giorni dopo, riparto. Viterbo, stavolta. Il bello è che è più vicina a Roma di Orvieto, son novanta chilometri dritti sulla Cassia, è pure ancora Lazio ma ci si mette un bel po’ di più, non essendo su linee veloci. E allora entro in un mondo locale, fatto di trasporti misti, treno e autobus, stazioni nel nulla, la lentezza fisica, sociale e umana di cui ci si riempie la bocca nelle città. Provate. Tra calanchi e campi di girasoli, la massicciata dell’alta velocità – non ci si crede quanto rumore faccia il treno lanciato a duecentocinquanta all’ora, micidiale – e cucuzzoli abitati da paesini minuscoli, mi trovo a far passare un’ora nella stazione di Attigliano. Stento a capire dove sia il paese, la stazione è una stanza non-luogo annessa al vero luogo, il bar. Alla cassa, una signora paga le bollette, ci sarà un ufficio postale?, un’altra commenta il titolo di Donna moderna, Tutte in tuta. Il nuovo chic metropolitano, ennò, la tuta no, eddai, il jackpot del superenalotto è oltre duecento milioni di euro, figuriamoci, chi ha preso la chiave del bagno? Arriva er Principe a bordo di una Regata 70s, peserà duecento chili, lo salutano tutti, alla radio Lemon tree dei Fool’s garden, le mani battono sui tavoli manco fosse l’hit dell’estate. Di questa estate. Nei dintorni, questi sì, si segnalano: la sedicesima sagra del cinghiale di Graffignano; la sagra degli arrosticini a Guardea; la festa della trebbiatura di Castiglione in Teverina; la festa della birra a Bassano in Teverina; il palio della colomba di Amelia; la ventottesima edizione del festival Il sole La luna di Giove (è un paese); la festa In bocca al luppolo di Baschi; la sagra del baccalà di Bomarzo; Porchettiamo a San Terenziano. Non male, ci si copre l’estate. Il pullman arriva con venticinque minuti di ritardo ma nessuno fa una piega e per percorrere i ventitré chilometri verso Viterbo fa un giro comico, mettendoci quasi un’ora. Volete la lentezza? Sicuri? Almeno i treni per Tozeur avevano il fascino dell’esotico. Su e giù per dossini e dossetti ricoperti di ulivi e villette di finta pietra, non mi stupirei di passare per Scatorchiano e vedere Brancaleone al ciglio della strada che ostia contro la sorte.

Né etrusca, preferivano il resto della Tuscia, né romana, c’era Ferento con il suo enorme teatro a otto chilometri, Viterbo ebbe il suo momento a fine milleddue, quasi millettré, quando a causa dei disordini a Roma la sede papale fu spostata qui. Fu ampliato il palazzo vescovile e per circa trent’anni i papi risiedettero a Viterbo. Ed è qui che avvenne la più complicata elezione papale della storia della Chiesa, dal 1268 al 1271, ben 1006 giorni di soglio vacante. Tra la debolezza intrinseca della Chiesa, le ingerenze della nobiltà locale e delle monarchie europee, il ferale 1270 in cui morirono i re di Francia, Inghilterra e Navarra, i cardinali non riuscivano a convergere su un nome. I viterbesi, esasperati, rinchiusero a chiave nella sala grande del palazzo i cardinali e li misero a pane e acqua. Era nato il conclave, clausi cum clave. Non tanto per tenerli prigionieri, quanto per evitare le ingerenze esterne. Anche ciò non bastò, allora il podestà di Viterbo fece levare il tetto, esponendo il concilio dei cardinali alle intemperie. Ne morirono un paio ma la ragion di stato viene con evidenza prima. Alla fine, nominarono una commissione ristretta che trovò accordo su Gregorio X, che non solo era in terra santa ma che andava pure ordinato sacerdote. Ma era figura di rilievo e, tra le altre cose, fece diventare il conclave una regola delle elezioni papali. La sala è ancora lì, il tetto c’è ed è piuttosto emozionante sapere quel ch’è stato. Qualche papa dopo, Giovanni XXI, che aveva approssimato la numerazione, considerando buoni un Giovanni antipapa e un Giovanni scismatico – oggi lo consideriamo diciannovesimo -, si fece costruire una bella stanzona con soffitto affrescato nel palazzo per farvi camera da letto e il soffitto stesso gli crollò addosso poco dopo, rendendo necessario un altro conclave. Erano anni complicati, quelli, nello stesso 1271 del disgraziato conclave nella chiesa di San Silvestro in città venne ucciso sull’altare Enrico di Cornovaglia, mica bazzeccole, figlio del re d’Inghilterra e nipote dell’imperatore, Dante lo ricorda. Oh sull’altare, proprio davanti alla piazzetta dove io sto mangiando pacifico la mia insalata, pensa te la Storia.

Dopo, Viterbo non ebbe più picchi paragonabili – se si esclude l’essere oggi il centro nazionale dell’Aviazione – anche se qualche papa in villeggiatura lo vide comunque, specie essendo i Farnese e i Chigi di zona. La via Francigena, in ogni caso, passava e passa di qua, nel bel mezzo della città, e attraversa un quartiere medievale di grande fascino, parzialmente scampato ai copiosi bombardamenti che hanno reso il resto di Viterbo un po’ incerto, irregolare, condominiale e assediato dalle auto. Molto cinema è stato girato qui e, in generale, nella Tuscia, da Fellini a Pasolini alla gloria locale, il maresciallo Rocca. A nord, nella fortezza Albornoz, ancora tu?, poi Farnese ingentilita da Bramante e Vignola, ha sede il museo nazionale etrusco che è, dico io, formidabile per quantità e qualità dei reperti. Perché non è la solita teoria di lucerne, seimila, e qualche scritta destrorsa, ma case, stanze, vasi, scudi, elmi, collane e monete, tutta roba grande e di qualità fina, persino una biga decorata in bronzo. Ecco, per dire, se pensate di avere un tetto moderno e ben fatto, vale la pena vedere questo.

Il promotore degli scavi, parliamo degli anni Sessanta e Settanta, ed è curioso, fu Gustavo Adolfo sesto re di Svezia che non solo finanziò ma partecipò in prima persona alle campagne archeologiche. Quindi, molto dobbiamo alla Svezia della nostra conoscenza degli etruschi, chi mai l’avrebbe detto. Noi avremo scavato i vichinghi? Eccolo bello contento proprio in mezzo, appoggiato sul braccio sinistro.

Mentre ascolto Radio Subbasio leggendo le notizie locali del Messaggero, Sgarbi in città per una conferenza in qualità di sindaco della vicina Sutri, il bollino rosso del caldo, l’entusiasmo romano per Dybala giunto fino a qui, assisto al montaggio dell’impalcatura per la macchina di santa Rosa, che è uno di quei campaniloni devozionali portati a braccia per la città con in cima la statua del santo, santa in questo caso. I numeri sono notevoli: trenta metri di candelabrone, cento portatori, cinque tonnellate il peso con un pro capite ponderoso, cinque tappe sul percorso, ogni anno una costruzione diversa, benedetta la vetroresina. La data è il 3 settembre, per chi intendesse, e rilevo che non c’è una strada una in piano.

La zona è ricca di meraviglie, ogni pochi chilometri qualcosa per cui fermarsi c’è, che sia una necropoli etrusca, un lago vulcanico, una villa rinascimentale in cui hanno girato the young pope, un paesello caratteristico, un castello farnesiano, un licenzino sotto una pergola. Certo, probabilmente è meglio avere un’auto, se non si hanno sei mesi liberi. Oppure, e questa sto cominciando ad accarezzarla, un motorino, che renderebbe la cosa anche più interessante.


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