minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: quattro, un luogo ameno da sempre, fontane a iosa, santuari idroelettrici, impiegati smarriti

Prosciutto e melone fa male? Pisolino quotidiano? A rischio infarto. Con la testa piena di questioni estive e prementi, parto per un altro dintorno. Non che le altre non lo fossero ma stavolta è una destinazione davvero da Grand Tour: Tivoli. Non è mica un caso se dalla Danimarca alla Bolivia i posti di ricreazione, bar, parchi gioco, giostre, ristoranti, li chiamano Tivoli quando vogliono far capire che il luogo è ameno. E non è, ovviamente, nemmeno un caso se di Tivoli parlano quasi tutti gli autori antichi e molti di essi ci si fecero costruire ville e ci vennero a scavallare l’estate. Perché Tivoli sta su una delle ultime colline verso Roma, poi è tutto piatto piattento, si vede lontanissimo, ed è anche alla fine della valle dell’Aniene, che lì fa uno svoltolone, un bel salto e poi scende giù e va verso la capitale. Insomma, verde, fresco e bella vista, gli ingredienti ci son tutti, basta evitare il melone col prosciutto, nel dubbio. Ah, Tivoli è pure più antica di Roma, si dice milleddue prima di cristo, immaginate gli sfottò nei bar. Secondo Dionigi di Alicarnasso fu fondata – eh, lo so, ho riso pure io ma non fa una piega – dagli aborigeni, cioè quelli che stavan lì fin dal principio, letteralmente. Noi li riteniamo Siculi, poi la storia andò come è facile supporre.

A Tivoli ci sono molte cose da vedere, io so già cosa non vedrò, perché merita una visita a sé con molta calma e il mio ricordo è ancora vivido: la sterminata villa di Adriano, ove l’imperatore si fece riprodurre il mondo conosciuto a suo diletto. Oggi, se tutto va bene, vedrò un paio di villone, una romana e una rinascimentale, un santuario usato per l’industria, un castellone costruito su un anfiteatro, un paio di templi, una cascatona e tante piccole cascatine, un paio di grotte, un’opera idraulica colossale, qualche belvedere, ovviamente il paese con le sue cose. Direi che è sufficiente. Insomma, vale il viaggio e varrebbe anche fermarcisi un paio di giorni, alla Goethe, per capire un po’ come funziona. Provo a raccontarlo anche se, lo so, di fronte alle cose entusiasmanti mi sfugge la brevità, ce provo.

Per restare a un tema di questo periodo e di questi miei giorni, l’acqua è un problema anche se ce n’è troppa, nel senso che entra in casa e ti porta via col letto compreso. L’Aniene è da sempre soggetto a piene torrenziali, è un fiume piuttosto grosso, e quello svoltolo nel centro del paese che la maggior parte del tempo è una delizia, talvolta diventa un problema. Plinio racconta la piena del 105 che si portò via mezzo paese. Per molto tempo si è cercata una soluzione finché nel 1832 l’ingegner Nonmiricordo propose a papa Gregorio XVI di scavare um tunnel nella montagna per far defluire il grosso delle acque al di fuori del paese, lasciando il vecchio corso, ormai placido e controllato, per le esigenze dei cittadini. Così si fece, si creò la grande Cascata, la seconda dopo quella delle Marmore in Italia, e l’opera idraulica diventò essa stessa motivo di visita a Tivoli, anche nel Gran Tour. Il vecchio salto del fiume, famoso per le sue ville, i templi, le grotte delle Sibille, nel dopoguerra venne utilizzato con saggezza come discarica. Ottimo. Oggi, grazie al FAI, la zona è recuperata e visitabile, e fate ‘sta tessera, è la cosiddetta villa Gregoriana ed è una vera meraviglia, tra spelonche, resti romani, cascate, forre, templi e verzure. A un certo punto, col precipitare delle acque, ci sarebbe voluto persino un golfino, figuriamoci.

L’abbondanza di acqua è anche all’origine della scelta del cardinale Ippolito d’Este di farsi costruire una villa sontuosa proprio qui a Tivoli, forse sulle fondamenta di quella di Mecenate, che non sappiamo dove fosse. La particolarità di villa d’Este, che pure è meravigliosa e un esempio di Rinascimento insuperabile con un sacco di Zuccari, sono i giardini e soprattutto le fontane: si dice siano più di cinquecento, una da sola ha trecento cannelle, ce ne sono alcune gigantesche, altre minuscole, alcune hanno i pesci, una addirittura suona, c’è una scala tutta di marmo sul cui corrimano scorre l’acqua, insomma un trionfo di spruzzi, getti e schizzi. Il tutto in un parco ovviamente verdissimo. Il fragore degli scrosci è notevole, mi piacerebbe dormirci una volta, e il suono da solo basta a placare la sensazione di calura, come ben sapevano gli arabi. Io le giro tutte tutte e sono convinto di essere riuscito nel mio intento: mettere la testa in tutte e cinquecento.

Dopo tutta quella acqua, la realtà. Esco e il sole è azimutale e picchia con forza ma io devo vedere ancora una cosa almeno: il santuario di Ercole vincitore. Che è uno dei santuari, cioè tempione, criptoportico, aule eccetera, di epoca repubblicana più grandi della romanità. Bisogna scendere un po’ da una collina tutta brulla, un paio di volte ripenso a tutta quell’acqua così a portata di mano e mi chiedo se proseguire, poi noto poco avanti a me un uomo con zaino e sudore che sta evidentemente compiendo la mia stessa scellerata scelta, camminando di ombra in ombra. Alla prima curva attacco bottone, è Mirco (cappa?) e oltre a essere simpatico è pure archeologo, cosa meglio? Facciamo la visita insieme, che è sempre interessante. Del santuario resta pochino perché, oltre a essersi portati via i marmi come al solito, a un certo punto sul suo enorme basamento ritennero opportuno metterci prima una fabbrica di archibugi, “cose alla bresciana” le definisce il documento di fondazione e poi, vista l’acqua, una cartiera. Di quelle ottocentesche e pesanti. Quindi è una commistione di archeologia sia antica che industriale notevolissima ma dal punto di vista del santuario le cose son più complicate. Visto che già c’era l’acqua, causa cartiera, e le fondamenta, causa santuario, l’allora Enel vi installò una condotta forzata che ripigliava l’acqua in caduta da villa d’Este e delle belle turbine, che illuminarono sia Tivoli che, poi, Roma. Ancora bene ma ciao santuario. Poi la cartiera chiuse per conto suo, l’Enel mise un’enorme targa a celebrare la propria generosità nel chiudere la condotta nel 1993, che carini, e quel che rimane è questo enorme accrocchione di attività umane lungo duemila anni che viene visitato solo dai pazzi. Come pazzo sarà di certo diventato l’impiegato del museo dentro il santuario, dato che il museo, grande idea tipica di certi recuperi italiani, non è per nulla segnalato né si capisce che a un certo punto si possa entrare da qualche parte. Credo, dall’espressione, che potremmo essere le prime persone che vede da decenni, ormai fa parte dell’arredo come i pochi resti romani disposti nelle due stanze del museo. Facciamo due chiacchiere, gli consigliamo di non uscire e andiamo, in risalita. Ciao Mirco, grazie delle belle chiacchiere e delle spiegazioni sui tessuti murari, buona prosecuzione, lo saluto ed è buffo che vada a Caserta, al contrario del mio giro. Se per ventura ti dovessi leggere qui, perdona l’imprecisione del linguaggio archeologico.

Dopo tutta l’ubriacatura d’acqua di villa d’Este – il dato idraulico parla di ottocento metri cubi al secondo, moltiplicare per mille per avere i litri – è curioso che io cerchi un baretto per pigliare una bottiglietta d’acqua da mezzo litro e il ritorno a una realtà calda e piuttosto riarsa è difficile da mettere a fuoco. È uno degli aspetti tipici dell’acqua, esserci o meno, là dove c’è ce n’è molta, dove ovviamente non c’è non si scappa. Difficile si redistribuisca in modo uniforme, al di là del muro ce n’è da scoppiare, qua fuori sembra il Colorado. Il paese qui a fianco, Marcellina, non ha il fiume e di conseguenza ha da sempre un’economia e uno sviluppo del tutto diversi, meno floridi ovviamente. Di certo Orazio mica si sarebbe costruito la villa a Marcellina, con rispetto parlando. Son banalità, lo so, ma riflettere su ciò che si ha, o non, in modo piano serve anche a riconsiderare il valore di alcune cose e a non darle per scontate. L’acqua credo sia la più importante.

Eccomi qua, anche questo girolino è tutto sommato finito. Ci ho messo dentro qualche altro piccolo dintorno, Ponte Nomentano perché pur sempre di Aniene si parla, Sant’Agnese fuori le mura, luoghi che alla fine non son più nemmeno dintorni ma Roma stessa. Nonostante non avessi molti giorni disponibili, non si è trattato di un ripiego, tutt’altro, ho visto cose meravigliose e di grande qualità, persino con poco sforzo organizzativo e di movimento, e poi come si mangia in Italia, ah signora mia. Ho visto, come dicevo, pezzi di Grand Tour che i viaggiatori di un tempo sognavano una vita e potevano fare solo se ricchi e con del buon tempo, un’altra cosa fortunata della contemporaneità da non dare per scontata. Certo, ci sono anche le controindicazioni, per esempio stamane ho visitato il giardino di palazzo Colonna nel centro di Roma e l’ho trovato francamente piccoletto, una sola fontana miserina con una statuetta sghimbescia e uno spruzzino che nemmeno un rubinetto rotto. Eh già, villa d’Este mi ha rovinato i giardini di tutte le ville future e un po’ anche di quelle passate, retroattivamente, il confronto sarà quasi sempre impari. Vedi cosa succede ad andare in giro? Sto celiando, ovviamente, vedere il meglio è già di per sé una fortuna e per arrivarci bisogna vedere molto del resto, quindi tutto bene. Altrimenti non ce ne si accorge. L’idea per me, sempre di più, è fare viaggi sulla base di un progetto, anche minimo, e questo era i dintorni, diciamo, di Roma, a un’ora di distanza. È andata molto bene, non poteva che essere così, l’importante, credo, in questi casi sia fare il meglio che si può con ciò che si ha a disposizione. E quel che si ha, che si può avere se possibile, alla fine sono cuore e un po’ di entusiasmo. Il posto, la distanza o il dintorno non contano.


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: tre, i bacili, van wittel, usare la conoscenza per fare cose sagge e belle

Sempre per la questione discutibile dei dintorni, che lo diventano se raggiungibili in poco – per cui per fare un esempio su Roma, Napoli è più dintorno di Tivoli – vado a Caserta. Treno dritto per Lecce, un’ora secca. Niente male, considerando ciò che offre. La reggia, ovviamente. Che è pure, proprio proprio, sulla via Appia, son commosso. Qui la storia è complicata e implica il matrimonio di Elisabetta Farnese da Parma con il re Filippo dalla Spagna, la successione sfortunata di un certo numero di figliastri – di lui, che caso – fino ad arrivare al primogenito di lei, Carlo, che, grazie alla guerra di successione polacca, sì, polacca, acquisì tra le altre cose il regno di Napoli. Settecento, comunque. Poiché Napoli era troppo esposta al mare, e già gli inglesi avevano spadroneggiato non poco, e alle intemperie del Vesuvio, Carlo comprò dai Caetani il territorio di Caserta per farvi casa di vacanza. E così fu, grazie all’architetto di corte Vanvitelli, nella seconda parte del Settecento. Loro non lo sapevano ma erano un po’ al limite di un’epoca e la reggia sarebbe servita poco, come poco sarebbe durata la dinastia dei re napoletani e Carlo stesso. Prima Murat, poi la restaurazione, breve, e poi la caduta con l’Italia unita, cui seguì la scomparsa di buona parte delle monarchie europee. Pensavano di durare in eterno o, comunque, parecchio. L’avessero saputo, avrebbero speso i sette milioni di soldi in altro modo, immagino, invece che costruire la reggia più grande del mondo (poi abbassano la voce, quando uno dice Versailles?, e dicono per volume). Poi la storia continua che ci girano i film e ci vanno i turisti, cioè io.

Il violino, non oggi. Purtroppo.

C’è una buffa storia che ho raccontato tempo fa sulla reggia appena incamerata dai Savoia, e aveva a che fare con dei bacili a forma di chitarra di uso sconosciuto per quei buzzurri del nord. Ho il vago sospetto che, come tante altre storie, faccia parte di una propaganda filoborbonica ancora attuale, che mette l’accento su quanto il regno delle Due Sicilie fosse avanzato e fiorente rispetto a quello di Sardegna e Piemonte. La questione è ancora viva, si è visto nel centocinquantesimo dell’Italia unita, francamente però son partigianerie noiose e di poca importanza storica, buone per i convegnetti locali terreno di conquista di storici improvvisati. Di sicuro il regno era evoluto, sperimentava senz’altro commerci e progresso, la prima ferrovia italiana a doppio binario fu la Napoli-Portici, la zona era ricca fin da Ercolano e Pompei, le industrie c’erano. Come che sia, al di là delle polemiche, che ci siano i bidet è un fatto, bravi e netti.

La stazione è proprio di fronte all’enorme piazza della Reggia, il biglietto si compra online, francamente è difficile chiedere di più. Biglietto Reggia più parco, è ovvio, perché il giardinone, a forma di enorme violino, è altrettanto interessante. Lunghetto, parliamo di chilometri e centinaia di ettari, risparmiati per fortuna dalla voracità di Caserta nuova. Degli appartamenti e delle sale di rappresentanza, la cosa più impressionante è lo scalone con il vestibolo di raccordo sopra, foresta di colonne e archi colossali, ben lo sanno i registi che qui hanno ambientato scene persino di fantascienza. Io un pochetto più di oro e marmi in giro l’avrei messo, se devo essere sincero. Certo che se poi riempi ogni cosa di monogrammi, anche gli schienali imbottiti delle sedie, poi arriva Giuseppe Bonaparte che li cambia tutti e poi quando si torna tocca di nuovo scalpellare e scucire tutto. C’è pure un vasone di marmo dono del papa a ringraziamento dell’ospitalità a Gaeta, quando scappò dopo i fatti del ’49. Ah, se lo fossero tenuto, chissà come sarebbe andata. Io, lo ammetto, prediligo le sale colossali, al ventottesimo salottino vellutato con vedutisti partenopei e vasetti di porcellana di Capodimonte, ho qualche mancamento. Non male la stanza da letto di Ferdinando II il cui mobilio fu interamente bruciato nel 1859, alla sua morte per supposta malattia contagiosa. No, mi spiace, io non glielo porto il latte, nonono, poi metti che tocco il comodino per sbaglio.
Aggredisco il parco. Sono circa quattro chilometri in linea retta, di vasca in vasca, di fontana in fontana, con rampa finale alle cascate dell’acquedotto carolino. Affittano bici, bici elettriche, c’è un pullmino che fa la corsa fin su e per fortuna che col nuovo direttore, persona civile, hanno smesso di affittare i quad. Io vado a piedi, perché devo testare tutto, nonostante i settantanove gradi centigradi centosei percepiti. E poi bisogna pure tornare.

Ma è come fosse mio, come se fossi Ferdinando qualcosa che passeggia ragionando di Ragion di Stato, diffidando del real amministratore. Chissà chi è tutta ‘sta gente nel mio giardino? Mah, voleranno teste prima o poi.
Voglio vedere ancora una cosa, qui, ma non ci arrivo a piedi. Contratto con un tassista una tariffa ragionevole e andiamo verso Maddaloni, nella valle, rispettando qualche luogo comune: niente cinture, riserva sparata, mezza strada con le ruote oltre la linea continua. Però è simpatico. Voglio vedere, e lo vedo, l’acquedotto carolino, un’oretta di gita. È talmente imponente che pare romano antico, circa sessanta metri d’altezza, ma è invece vanvitelliano, perché porta l’acqua alle vasche del parco reale. Che bravo, Vanvitelli, regge, giardini, idraulica, acquedotti colossali, decisamente versatile. Tre ordini di archi, cielo azzurro, manco un marciapiede per stare, tipo camoscio di notte sull’autostrada. Ma il punto, ancora, è: costruire un artefattone del genere per portare l’acqua e pare che poi uno la spreca? Ma per nulla, prima nelle vasche e poi nell’acquedotto cittadino e per i servizi della reggia. Troppa fatica e troppo costosa, l’acqua. È ancora così, dovrebbe, altro che piscinette d’acqua potabile al Brico.

Ci sarebbero a tiro santa Maria Capua a Vetere e Capua ma troppo per un giorno solo di gita fuori porta. Mantengo il segnalino sulla mappa, natavolta. Reintegro i liquidi consumati nell’impresa del parco della reggia con un bombolotto di ricotta e uvetta che pesa quanto un sampietrino, riesco a farlo scendere con un cappuccino rovente – il trucco è sempre lo stesso: scalda il tuo corpo più dell’ambiente esterno e avrai fresco – e mi dichiaro soddisfatto. Un saluto a Vanvitelli nel suo parchetto, per inciso il suo babbo dipingeva bene e suo figlio seguì con valore le orme paterne, e via di ritorno, con il comodo treno.


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: due, vivere a un’altra velocità?, non buttate la chiave, santarrosa

Cose rimaste da fare a Orvieto: il giro della rupe, un sentiero che ne costeggia la base sul perimetro; la visita alle necropoli etrusche. Prossima volta, sempre lasciarsi indietro qualcosa, è il mio equivalente della monetina nell’acqua. Prendo la funicolare perché la voglio provare. Appena costruita, l’aumento del peso della vettura a monte veniva generato con l’acqua, ora ovviamente la trazione è elettrica ma il resto, fino al bigliettaio, è lo stesso. Me ne torno a Roma, come da piano.

Un paio di giorni dopo, riparto. Viterbo, stavolta. Il bello è che è più vicina a Roma di Orvieto, son novanta chilometri dritti sulla Cassia, è pure ancora Lazio ma ci si mette un bel po’ di più, non essendo su linee veloci. E allora entro in un mondo locale, fatto di trasporti misti, treno e autobus, stazioni nel nulla, la lentezza fisica, sociale e umana di cui ci si riempie la bocca nelle città. Provate. Tra calanchi e campi di girasoli, la massicciata dell’alta velocità – non ci si crede quanto rumore faccia il treno lanciato a duecentocinquanta all’ora, micidiale – e cucuzzoli abitati da paesini minuscoli, mi trovo a far passare un’ora nella stazione di Attigliano. Stento a capire dove sia il paese, la stazione è una stanza non-luogo annessa al vero luogo, il bar. Alla cassa, una signora paga le bollette, ci sarà un ufficio postale?, un’altra commenta il titolo di Donna moderna, Tutte in tuta. Il nuovo chic metropolitano, ennò, la tuta no, eddai, il jackpot del superenalotto è oltre duecento milioni di euro, figuriamoci, chi ha preso la chiave del bagno? Arriva er Principe a bordo di una Regata 70s, peserà duecento chili, lo salutano tutti, alla radio Lemon tree dei Fool’s garden, le mani battono sui tavoli manco fosse l’hit dell’estate. Di questa estate. Nei dintorni, questi sì, si segnalano: la sedicesima sagra del cinghiale di Graffignano; la sagra degli arrosticini a Guardea; la festa della trebbiatura di Castiglione in Teverina; la festa della birra a Bassano in Teverina; il palio della colomba di Amelia; la ventottesima edizione del festival Il sole La luna di Giove (è un paese); la festa In bocca al luppolo di Baschi; la sagra del baccalà di Bomarzo; Porchettiamo a San Terenziano. Non male, ci si copre l’estate. Il pullman arriva con venticinque minuti di ritardo ma nessuno fa una piega e per percorrere i ventitré chilometri verso Viterbo fa un giro comico, mettendoci quasi un’ora. Volete la lentezza? Sicuri? Almeno i treni per Tozeur avevano il fascino dell’esotico. Su e giù per dossini e dossetti ricoperti di ulivi e villette di finta pietra, non mi stupirei di passare per Scatorchiano e vedere Brancaleone al ciglio della strada che ostia contro la sorte.

Né etrusca, preferivano il resto della Tuscia, né romana, c’era Ferento con il suo enorme teatro a otto chilometri, Viterbo ebbe il suo momento a fine milleddue, quasi millettré, quando a causa dei disordini a Roma la sede papale fu spostata qui. Fu ampliato il palazzo vescovile e per circa trent’anni i papi risiedettero a Viterbo. Ed è qui che avvenne la più complicata elezione papale della storia della Chiesa, dal 1268 al 1271, ben 1006 giorni di soglio vacante. Tra la debolezza intrinseca della Chiesa, le ingerenze della nobiltà locale e delle monarchie europee, il ferale 1270 in cui morirono i re di Francia, Inghilterra e Navarra, i cardinali non riuscivano a convergere su un nome. I viterbesi, esasperati, rinchiusero a chiave nella sala grande del palazzo i cardinali e li misero a pane e acqua. Era nato il conclave, clausi cum clave. Non tanto per tenerli prigionieri, quanto per evitare le ingerenze esterne. Anche ciò non bastò, allora il podestà di Viterbo fece levare il tetto, esponendo il concilio dei cardinali alle intemperie. Ne morirono un paio ma la ragion di stato viene con evidenza prima. Alla fine, nominarono una commissione ristretta che trovò accordo su Gregorio X, che non solo era in terra santa ma che andava pure ordinato sacerdote. Ma era figura di rilievo e, tra le altre cose, fece diventare il conclave una regola delle elezioni papali. La sala è ancora lì, il tetto c’è ed è piuttosto emozionante sapere quel ch’è stato. Qualche papa dopo, Giovanni XXI, che aveva approssimato la numerazione, considerando buoni un Giovanni antipapa e un Giovanni scismatico – oggi lo consideriamo diciannovesimo -, si fece costruire una bella stanzona con soffitto affrescato nel palazzo per farvi camera da letto e il soffitto stesso gli crollò addosso poco dopo, rendendo necessario un altro conclave. Erano anni complicati, quelli, nello stesso 1271 del disgraziato conclave nella chiesa di San Silvestro in città venne ucciso sull’altare Enrico di Cornovaglia, mica bazzeccole, figlio del re d’Inghilterra e nipote dell’imperatore, Dante lo ricorda. Oh sull’altare, proprio davanti alla piazzetta dove io sto mangiando pacifico la mia insalata, pensa te la Storia.

Dopo, Viterbo non ebbe più picchi paragonabili – se si esclude l’essere oggi il centro nazionale dell’Aviazione – anche se qualche papa in villeggiatura lo vide comunque, specie essendo i Farnese e i Chigi di zona. La via Francigena, in ogni caso, passava e passa di qua, nel bel mezzo della città, e attraversa un quartiere medievale di grande fascino, parzialmente scampato ai copiosi bombardamenti che hanno reso il resto di Viterbo un po’ incerto, irregolare, condominiale e assediato dalle auto. Molto cinema è stato girato qui e, in generale, nella Tuscia, da Fellini a Pasolini alla gloria locale, il maresciallo Rocca. A nord, nella fortezza Albornoz, ancora tu?, poi Farnese ingentilita da Bramante e Vignola, ha sede il museo nazionale etrusco che è, dico io, formidabile per quantità e qualità dei reperti. Perché non è la solita teoria di lucerne, seimila, e qualche scritta destrorsa, ma case, stanze, vasi, scudi, elmi, collane e monete, tutta roba grande e di qualità fina, persino una biga decorata in bronzo. Ecco, per dire, se pensate di avere un tetto moderno e ben fatto, vale la pena vedere questo.

Il promotore degli scavi, parliamo degli anni Sessanta e Settanta, ed è curioso, fu Gustavo Adolfo sesto re di Svezia che non solo finanziò ma partecipò in prima persona alle campagne archeologiche. Quindi, molto dobbiamo alla Svezia della nostra conoscenza degli etruschi, chi mai l’avrebbe detto. Noi avremo scavato i vichinghi? Eccolo bello contento proprio in mezzo, appoggiato sul braccio sinistro.

Mentre ascolto Radio Subbasio leggendo le notizie locali del Messaggero, Sgarbi in città per una conferenza in qualità di sindaco della vicina Sutri, il bollino rosso del caldo, l’entusiasmo romano per Dybala giunto fino a qui, assisto al montaggio dell’impalcatura per la macchina di santa Rosa, che è uno di quei campaniloni devozionali portati a braccia per la città con in cima la statua del santo, santa in questo caso. I numeri sono notevoli: trenta metri di candelabrone, cento portatori, cinque tonnellate il peso con un pro capite ponderoso, cinque tappe sul percorso, ogni anno una costruzione diversa, benedetta la vetroresina. La data è il 3 settembre, per chi intendesse, e rilevo che non c’è una strada una in piano.

La zona è ricca di meraviglie, ogni pochi chilometri qualcosa per cui fermarsi c’è, che sia una necropoli etrusca, un lago vulcanico, una villa rinascimentale in cui hanno girato the young pope, un paesello caratteristico, un castello farnesiano, un licenzino sotto una pergola. Certo, probabilmente è meglio avere un’auto, se non si hanno sei mesi liberi. Oppure, e questa sto cominciando ad accarezzarla, un motorino, che renderebbe la cosa anche più interessante.


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: uno, treni del passato, mappozzoni di tufo, corsi principali, oleoteche

Il concetto di dintorno è da specificare, poi, promesso, provvedo. Mi chiamano per un paio di giornate di lavoro a Roma, però, dice, mi deve scusare ma non sarebbero consecutive, so che lei viene da fuori. Magari posso provare a… Oh, non scherziamo, non provi nulla, lasci tutto così che agli inframezzi ci penso io, incastrando qualche avventurella qua e là. Ma ci mancherebbe che mi comprime il lavoro e poi devo fare una tirata, peccarità. E allora, siccome Roma la mastico abbastanza avendoci vissuto, è l’ora di mettere in pratica un vecchio progettino: visitare qualche luogo a non più di un’ora di treno da una qualsiasi stazione romana. Il che, in tempi di alta velocità, vuol dire anche parecchio, in effetti. E la prima destinazione, con quel suo fascinoso montarozzo di tufo che ogni volta che lo vedo dal treno mi riprometto, è Orvieto.

Prendo un anacronistico intercity, manco pensavo esistessero più, che fa una tratta mirabolante: Roma-Trieste, fermando pure a Rovigo, Ferrara, Monselice, per dire, e in otto ore si vede un bel pezzo di Italia. Potrebbe essere un’altra idea. Orvieto sono tre quarti d’ora, destinazione valida. Il treno è proprio un intercity, l’involucro è intoccato da quando erano i treni principali, dentro un po’ riattato, con quegli scompartimenti da sei che si faceva conoscenza per forza. Ah, avessi una teglia di parmigiana, che bello sarebbe. E che bello un treno che non solo non va da un punto Roma a un punto Trieste a velocità supersonica fermando solo nei punti grossi ma un treno che va da un punto Roma a un punto Trieste facendo ventiquattro fermate in luoghi tutti ampiamente visitabili. Sul serio, ci si potrebbe costruire una signora vacanza, usando sempre la stessa linea, a multipli di ventiquattro ore.

Orvieto sta da parecchio su un panettone di tufo che è fortezza naturale su quattro lati, persino il più sprovveduto fondatore di città avrebbe puntato il dito e detto: qui. Attorno, tutta la piana, il fiume Paglia, affluente del Tevere, le colline sullo sfondo. Già fin dall’ottavo secolo, e dico avanti cristo, fu centro di scambi e commercio, la formula è ‘fiorente’, e in qualche modo lo è tuttora. Ma non è sempre andata liscia: in crisi dal quarto secolo, a causa dei dissidi tra classi sociali etrusche, nel 264 avanti cristo i nobili ben pensarono di chiamare in aiuto i romani i quali non sottomisero, non annetterono ma rasero al suolo, spostando la popolazione a Bolsena, Volsinii novi. Forse già intuirono che avrebbero avuto problemi da una tale roccaforte, chissà. Nel dubbio, si portarono via tutte le statue. Ci vollero secoli per ripopolare la zona, dalla caduta di Roma fu gota, bizantina, longobarda, poi libero comune, terreno di disputa tra guelfi e ghibellini, possesso del cardinalaccio Albornoz, che spadroneggiava da qui a Urbino e oltre, per poi diventare stabilmente possedimento della Chiesa. La città è formidabile, ci sono angoli in cui si potrebbe girare la biografia di Tommaso d’Aquino togliendo solo un paio di lampioni, altri in cui il Rinascimento esplode in gloria, luoghi stratificati per millenni, un duomo da pagina tre dei manuali di storia dell’arte, secondo solo a Siena e pochi altri, che a guardarlo tutto serve una vita, quella meraviglia del pozzo a doppia scala elicoidale di Sangallo per andarsi a prendere l’acqua cinquanta metri più sotto, resti di templi etruschi e il sepolcro di Braye di Arnolfo di Cambio, che detterà la regola per le nobili sepolture per secoli, una chiesa medievale con torre dodecagona che sta sopra una paleocristiana che sta sopra un tempio etrusco che sta sopra resti preistorici villanoviani e sì, mi dice la signora, ci hanno fatto anche il funerale di Anna Marchesini. Che brava che era, dice. Vero.

Come le città costruite su una rupe, per quanto piatta, ha una via principale che la attraversa per il lungo che ne è, ovviamente, il luogo più frequentato. Bergamo, per esempio. E se il turismo è oggi l’attività principale, va da sé che il corso è un’irresistibile sequenza di piattoni di ceramica, armature, oleoteche, delicatezze locali a base di cinghiale, persino la drogheria degli svizzeri, centrotavola di ceramica con i limoni, scudi, vini, elmi, tavoli a intarsio cosmatesco, limoncelli e liquori locali, umbrichelle, negozi di vestiti con lettere a caso, Alkimye, scarpe, olii al tartufo, gallerie d’arte, norcinate, mondi della pizza, cancelletti in ferro battuto, centrini ad uncinetto, mangiarini in ogni dove. Normale, è così ovunque tra Umbria e Toscana. Basta però, come sempre, svoltolare un angolo e tutto cambia, meravigliosi vicoli e vie coronate dal tufo giallo delle case. In A1, verso nord, tutti fermi, vi vedo. Sono tutti camion.

Le motivazioni che portano a scavare un pozzo di cinquantaquattro metri nel tufo possono essere varie e di certo importanti. Nel caso di Orvieto, papa Clemente VII, ritiratosi in città dopo il sacco di Roma, temeva un ulteriore assedio dei lanzichenecchi e garantirsi delle risorse d’acqua sicure divenne primario. Ma il mio pensiero, oggi di fronte a questo pozzo ma come di fronte agli acquedotti romani, non può che andare alla situazione attuale, alla crisi idrica che stiamo vivendo e che, presumibilmente, ci accompagnerà da qui in avanti, al fiume Paglia qui sotto che è un rivoletto e le campagne attorno gialle se non proprio attorno alle coltivazioni, alle piante che, ovunque, mostrano sete e fatica. La ricerca e la cura dell’acqua, la sua conservazione e trasmissione, fanno parte della nostra storia. Nessuno si è mai permesso di sprecarla, perché averla costava fatica, molta. Solo noi, oggi, ne consumiamo in modo abnorme, ne buttiamo ancor di più, la consideriamo una sostanza, nemmeno più un bene, qualcosa con cui far lavare l’auto e, peggio, in cui defecare. Dovremo tornare indietro, già scaviamo pozzi da cinquanta metri ma in pianura, figuriamoci, dovremo anche stavolta reimparare qualcosa che sapevamo già, dovremo spiegare con pazienza ai più lenti che serve attenzione e rispetto, che nulla è infinito e che ciascuno di noi, proprio perché tanti, conta poco in queste situazioni. Ancora.

Infine, ecco la storia dei dintorni. Appena ipotizzato Orvieto, tutti quei ficcanaso che poi ti propongono alberghi, ristoranti, attrattive, mi hanno suggerito anche il miglior dintorno della città. Eccolo:

Vabbè, bella forza, allora vale anche il reciproco. Miglior dintorno di Dalmine? Venezia. Capace anch’io.


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invecchiare malino

In realtà la pubblicità non era nemmeno male, so seventies, in effetti come prevederlo?

Per chi non pratica, traduco alla buona: «Il posto più vicino al paradiso che alcuni di noi mai raggiungeranno», una cosa così. Sì, non era male, c’era quello spirito un po’ ironico degli anni Settanta che io apprezzo, è che poi succedono le cose e a volte diventa più complicato.

sic transit gloria mundi: farsi costruire enormi piramidi

Vagolo dall’alto, un’occhiatina alle piramidi di Giza che è sempre bello. Mi stupisco sempre di quanto siano assediate dalla città e di come invece le persone postino foto in cui sembrano isolate nel deserto, Poi, stavolta, guardo meglio. C’è qualcosa di nuovo lì, in alto a destra. Che è?

Opporc, no. Ma che davero? Fammi guardar meglio.

Eh sì, un campo da golf. Un fottutissimo campo da golf. Non solo perché è a fianco di una megalopoli di gente ammassata, vedi la città dei morti del Cairo, non solo, ma l’idea stessa di creare un tappeto erboso nel deserto va contro ogni mia convinzione e comportamento. E di fianco alle piramidi, poi, che insulta tutta l’umanità tranne quei quindici o sedici che stanno giocando da dentro.
Eh, niente, sic transit gloria mundi, puoi esser ricco, simpatico e bello, soprattutto faraone, ma se è passato il giusto tempo e non comandi più, adieu. Ci sarà sempre uno che si siederà sulla tua faccia per farsi una foto. Specie in un paese governato da un dittatore. Ah, ehm, che è un po’ un faraone, sì.

sé stesso, sé stessi, séstessoséstessi, qual’è in futuro

Luca Serianni, dopo l’incidente di tre giorni fa, se n’è andato.

Che perdita. Non solo per quanto ha fatto, che per fortuna resta, o per quanto stava facendo, sempre di grande qualità vedi il recente lavoro sulla lingua di Dante, ma per i suoi interventi in favore della lingua e dell’uso, come sempre precisi e puntuali, indicativi e mai prescrittivi, soprattutto esatti e diretti nel cuore della questione.
Tutte le volte che mi abbia detto di mettere un accento su una consonante e andare nel deserto a guidare una tribù di Ubangi, io l’ho fatto. Sé stessi, sempre. Grazie, Professore. Grazie di cuore.