primavera non bussa, lei entra sicura (ancora ancora ancora)

Alle 15:33, due minuti fa, l’equisticchio di primavera si è manifestato nella sua ineluttabilità e ci ha proiettato in primavera, la stagione che piace davvero a tutti.

Ma non a tutti va il mio augurio, solo ai buoni e ai brutti, i belli se li bacino tutti e gli altri si arrangino. E chi non sa come funzionino le stagioni, se lo studi. Che io non ho mica tempo di star qui a spiegare le processioni azimutali dei corpi celesti sospesi nella inmateria cosmica.

l’invasione, giorno ventuno: cosa dobbiamo fare, noi

Il Consiglio d’Europa ha deciso – non fidatevi dell’ANSA – di espellere la Russia dai propri membri.

Sebbene girino parecchie versioni, probabilmente dovuti a traduzioni errate, non è stata la Russia ad andarsene quanto il contrario. Poco fa la bandiera è stata ammainata, come si vede qui sotto (la foto del tweet sopra è evidentemente d’archivio).

Se l’invito è a non confondere il Consiglio d’Europa con altri organi dell’UE, ed è una buona occasione per capire cosa invece sia, è comunque un passo indietro per tutti, come era inevitabile. Difficile fare passi avanti con i carri armati. Dai negoziati in corso oggi trapelano alcune bozze di accordo, che prevederebbero il cessate il fuoco e il ritiro, la neutralità ucraina, il divieto di basi straniere su suolo ucraino, un non meglio chiaro status legale per i russi in territorio ucraino (Russia ceases fire and withdraws; Ukrainian “neutrality” without Nato; Kyiv keeps its army but can’t host foreign bases; Russian gets legal status in Ukraine). Pare comunque che non vi siano progressi positivi. Qualche commentatore ha letto la notizia dell’altro ieri – la Russia avrebbe chiesto ai cinesi armi e soldi, detta male – come un tentativo dell’intelligence americana di far venire allo scoperto la Cina, finora silente e priva di una posizione chiara. Tutto da verificare. E bisogna fidarsi poco di quanto dichiarato in tempi di guerra. E a me fa impressione anche solo dirlo.

L’altra sera, con un nutrito gruppo di amici, si parlava della guerra. È necessario farlo, perché chiunque di noi, consciamente o meno, misura la propria angoscia sulle reazioni delle persone di cui si fida, mentre ci si scambiano informazioni. Funziona così, serve. Abbiamo messo a fuoco come sia necessario distinguere le diverse tipologie di lettura che di questa guerra si possono fare. Dal punto di vista ideologico, per esempio, è chiaro che il trasporto avuto finora per situazioni come in Cile nel ’73, in Argentina poco dopo, in Palestina, ha poco a che fare con la situazione attuale, dato che – a meno che non si sia stipendiati da Mosca – né con la Russia né, ideologicamente, con l’Ucraina. Nonostante l’evidente sopruso. Dal punto di vista umanitario, invece, compassionevole, tutte le guerre dovrebbero essere uguali e le reazioni di chi non è coinvolto anche. Ma sappiamo che non è così. La distanza, per esempio, conta molto. E se le immagini che da anni arrivano dalla Siria raccontano di un mondo diverso, con luoghi, case, abiti, volti non familiari, quelle dell’Ucraina invece sono più vicine, è un mondo che si ritrova a Vienna, a Budapest, in Bulgaria, nella ex Jugoslavia, la cultura non è distante, le case sono simili, le facce anche, e per questo la sentiamo come una guerra in Europa, oltre alla posizione geografica. Ma non vale per tutti, alcuni di noi si sentono vicini, altri no, ma non per questo meno consapevoli, almeno al nostro tavolo.
Mi colpisce, invece, moltissimo – e mi dà molto molto fastidio, lo dico – la reazione di parecchie altre persone, anzi l’assenza di reazione: poiché l’invasione non ha effetti diretti sulle loro vite, nessuna ripercussione al momento, l’argomento non esiste. Non viene proprio toccato, l’alzata di spalle è inevitabile e il cambio di discorso immediato, e si parla di serie tv, di vacanze, oddio, del tempo. Lo vedo tutti i giorni in ufficio, mi snerva e mi ferisce, perché su molte altre questioni non ce la faremo, se le persone non si sentono coinvolte. E sì che, il clima per esempio, le ripercussioni ci sono eccome, come in questa guerra. Ma qualcuno ci penserà, atteggiamento simile negli scorsi due anni. Ossignore.

Un amico sapiente di cose ignote, mi racconta di Mariupol e di come se ne fosse occupato a un certo punto della sua vita. Perché quello «era uno dei centri sul Mar d’Azov abitati dai pochissimi ma antichissimi parlanti di dialetti neogreci di origine anatolica», io già fatico a seguire ma lo so, immagino i millenni, i movimenti delle persone, le lingue, le culture nate e poi trasformate, mi sono messo come altri a leggere una storia dell’Ucraina e della Russia, lo volevo già fare, tanto vale. Questo è facile, al massimo capita di sentire rammarico, il difficile è incontrare ucraini qui in Italia che difendono a spada tratta Putin e l’intervento russo, e lì è difficile, davvero difficile. Anche perché, a parte l’evidente ingiustizia, è poi complicato parlare di una situazione che intravediamo a malapena da due settimane, infarcita di notizie scollegate di divulgatori video. Per carità, non c’è altro modo, in tempi brevi, ma i millenni riassunti in poche frasi li reggo poco.
Una persona cui voglio molto bene mi ha invitato a proseguire con la vita, a non tralasciarla, a non lasciarla scorrere via, sebbene la testa sia rivolta ad altro e alle situazioni dolorose che ci circondano. Ha ragione, così farò, anche se ora non mi viene niente da scrivere, non ho la leggerezza necessaria per farlo in questo momento. Ma devo. Una cosa non deve escludere l’altra. E lei anche, l’ho invitata a fare la stessa cosa, di rimando. Era un ottimo consiglio, talmente buono che allora vale per tutti i sensibili pensanti. Focalizzati, concentrati sulle cose importanti, pronti, ma senza tralasciare ciò che abbiamo e di cui dobbiamo prenderci cura, ciò che siamo e ciò che abbiamo da dare e da prendere.

la legge della domanda e del… ma?

«Il libro si propone come una storia completa dell’Ucraina, le cui vicende nel corso dei secoli restano poco conosciute in Italia o quantomeno, se note, lo sono precipuamente attraverso il “filtro” delle esperienze storiche dei vicini. Una particolare cura nell’analisi cronologica, toponomastica e geografica consente al lettore di addentrarsi nell’affascinante e purtroppo sovente trascurata storia dell’Europa orientale…»

Comincia così l’introduzione alla Storia dell’Ucraina. Dai tempi più antichi ad oggi di Massimo Vassallo, libro che pur essendo di storia è di grande attualità ed è forse l’unico testo disponibile di storia ucraina in italiano, almeno tra i più completi. Va da sé che il tentativo di capirci qualcosa spinga me come tanti altri a cercarlo, ragion per cui in biblioteca è ampiamente in prestito, e prenotandosi ci sono quarantasei persone prima, idem in formato elettronico, coda di trentacinque. Acquisto? Vediamo.
In formato cartaceo, il risultato è questo:

Peraltro non è nemmeno disponibile. D’accordo, ebook sia:

Ullallà, ventisei euro per il formato elettronico, il conte direbbe: megojoni. Certo, molta la domanda e si alzano i prezzi dell’offerta, si capisce. Ma i tempi son cambiati ed esistono beni immateriali, la cui offerta è illimitata, mica avranno i magazzini di ebook. Credo. O li devono portare con dei cargo battenti bandiera liberiana, mi chiedo. E allora? Ancora: è un libro del 2020, Vassallo è uno studioso relativamente giovane, non si tratta di edizione rara né stampata col torchio a mano, probabilmente fino a un mese fa ne avevano i magazzini pieni. Sfoglio il catalogo di Mimesis, che conosco poco, e mi rendo effettivamente conto che i prezzi sono abbastanza alti, o no, più correttamente: sono in linea con il costo dello studio di Vassallo che, in effetti, è un malloppazzo di più di seicento pagine. Per fare un esempio, la biografia di Luca Sarzi Amadè su Il duca di Sabbioneta, agile volumetto di quattrocento pagine, costa ventiquattro euro. Pubblicare testi di spessore costa, sia dal punto di vista cartaceo che, ed è quello che interessa, da quello dei contenuti e dell’affidabilità di chi scrive.
E quindi niente, mi ero preparato un post polemico contro il rialzo dei prezzi in ragione della crisi ucraina ed ero pronto a scagliarmi contro l’ennesima ingiustizia e invece no, era proprio così anche prima, e tutto torna. Bravi, piuttosto, in Mimesis a intuire la necessità di una storia dell’Ucraina e a pubblicarla. Immagino, quindi, la stiano ristampando a spron battuto. Resta quindi il fatto che per averne una copia, elettronica al momento, tocca sborsare una non trascurabile somma, come è giusto.
Fortuna che io ce l’ho e posso sapere tutto, ora, della cultura di Trypillja.

l’invasione, giorno sedici: quanto dura la mia compassione?

Facile dire facciamo fuori Putin. E poi? Perché gli errori madornali sono già stati fatti, per restare in tempi recenti, con Saddam e Gheddafi, appuntarsi la medaglietta di liberatori per poi consegnare i rispettivi paesi al caos, generare l’ISIS, le guerre tra bande, lo sfruttamento dell’immigrazione e la detenzione illegale e tutto ciò che ne consegue. Bisogna sapere con precisione da che padella ma soprattutto in che brace si vuole cadere. E questo vale anche per questa invasione, nel senso che la frattura all’interno del popolo ucraino – qualche iddio pietoso mi perdoni per le generalizzazioni – è ormai del tutto consumata da decenni di dipendenza prima e di guerra dal 2014 ora, e sarà difficile ricomporre la distanza tra filorussi e filoucraini senza che sfoci essa stessa in una guerra civile. Come mi faceva notare un amico, con il quale peraltro concordavamo sul fatto che si dice NATO ma si intende UE, se non politicamente almeno per tipologia di vita e sviluppo, lo spostamento a occidente dell’Ucraina – libertà economiche e civili, politiche, di dissenso, tenore di vita e così via – mette in crisi l’esistenza stessa della Russia, ne mina alle fondamenta la natura stessa. Almeno della Russia putiniana, se questa non è una lettura che risente di schemi di analisi vetusti.
Comincio a temere che sarà lunga.

Rothko, ma non penso indicasse l’Ucraina. O sì?

Alcuni giorni fa, questa cosa non voglio lasciarla cadere, il Corriere è uscito in edicola allegando una bandiera ucraina al giornale, riutilizzando lo slogan usato ai tempi per Charlie Hebdo: «Siamo tutti ucraini». Per carità, ben intenzionati e sinceri democratici tutti, ma no, perdio no: non ero Hebdo allora e non sono ucraino ora. Non è nemmeno la terza via di Montanari di qualche giorno fa, è proprio il rifiuto di un modo vigliacchetto di sintetizzare la disapprovazione per un sopruso, se fossimo davvero ucraini – almeno non filorussi – allora saremmo intervenuti militarmente, altroché. E invece no, non lo siamo affatto, basta per favore con queste semplificazioni idiote. Almeno il primo quotidiano del paese, eddai.
Devo ritrattare una cosa detta ieri, errata: la pronuncia Ucràina – lo dice la Crusca, quindi mi allineo senza dubbio – non è russa, bensì semplicemente più arcaica di Ucraìna. Non c’è, quindi, prevaricazione culturale. L’invito, dunque, è a utilizzare ciò che si preferisce, senza sfumature di qualità. E allora io torno al mio più confortevole Ucràina, che si confà anche meglio al mio arcaismo di facciata.

Queste considerazioni mi fanno comprendere che sto lentamente tornando alla vita normale, nel senso che l’angoscia e la preoccupazione restano, l’impegno per essere utile per gli ucraini pure, ma dopo due settimane cominciano a riaffacciarsi le abitudini e le attività consuete, che si inframezzano alle notizie di guerra. È un processo normale, lo so, lo facciamo tutti per una semplice questione di sopravvivenza al di fuori – fossimo parte coinvolta sarebbe tutt’altro, è ovvio – e lo spavento e l’ansia dei primi giorni pian piano si attenuano. È del tutto vero che ci abituiamo a tutto, serve solo il tempo giusto. È anche una strategia, perché qui le cose hanno tutta l’aria di proseguire a lungo, lo sospettavamo fin dall’inizio. È successo anche con la pandemia. Non avevo più ascoltato musica, non avevo più letto i miei libri, non ero più andato a camminare in montagna, non ero più uscito a cena. Ora pian piano mi accorgo che sto ricominciando. Non mi pare di correre il rischio di dimenticare, è sempre la parte centrale della mia giornata, ne parlo comunque con amici e conoscenti, la tensione non diminuisce oltre un certo livello, però le cose effettivamente cambiano. Si fanno anche più sfumate, nel senso che l’appoggio incondizionato che provavo due settimane fa ora è più circoscritto, è rivolto alle vittime, non a tutti gli ucraini indistintamente. Forse è un errore, forse è sbagliato, lo è di certo nei confronti di chi invece questa situazione la subisce da settimane con intensità crescente, è vero. Inutile però far finta che la distanza non conti, perché conta, eccome. E il trasporto, la compassione, la simpatia – tutti in senso etimologico – tanto sono intensi al momento quanto poi tendono a scemare nel tempo, perché semplicemente i battiti cardiaci non si normalizzerebbero, la vita sarebbe stravolta. Dico questo, lo ripeto, perché ne siamo al di fuori. O, meglio, ne siamo dentro ma in maniera diversa. Come è emerso da alcune conversazioni in questi giorni, siamo in guerra anche noi, inutile far finta che non sia così. Ma in una guerra diversa, sanzioniamo creando danni e ne subiamo di conseguenza, per ora costi energetici, forse la pasta, non tanto ma è così. Non ci bombardano, grazie a dio, ma siamo comunque in conflitto, in quello che molti analisti chiamano da parecchio tempo «la guerra contemporanea». E riconoscerlo è già un passo avanti, secondo me.

l’invasione, giorno quindici: cosa possiamo fare da qui, compreso mettere gli accenti nei posti giusti

L’invasione prosegue. I colloqui, stavolta in Turchia, paiono non aver dato risultati apprezzabili, a tirar missili prima o poi si prendono centrali nucleari, settimana scorsa, od ospedali, l’altro ieri. Ma evitare i civili non pare affatto una preoccupazione russa, anzi. Se dagli Stati Uniti, Harris, fanno sapere di aver consegnato dei missili patriots alla Polonia, e la cosa non rassicura per nulla, da Mosca invece riportano che Putin ha avuto telefonate con Macron, l’unico a tenere un filo costante, e Scholz. Riesco a malapena a figurarmi quale possa essere il tenore di questo tipo di telefonate, ho anzi il sospetto che non mi piacerebbe sentirle. La Svezia, nel frattempo, che storicamente è uno dei paesi più intimoriti dalle recrudescenze russe, annunciano che investiranno il due per cento del PIL nazionale in riarmo, “as soon as practically possible”. Di contro, il governo russo fa sapere che non parteciperà più alle sedute del consiglio d’Europa. La seduta di oggi di Putin e del comitato centrale sarà dedicata alle strategie per ridurre l’impatto delle sanzioni, dicono, il che posso immaginare includa anche l’ipotesi di nazionalizzare le proprietà delle aziende straniere che hanno interrotto i rapporti commerciali con il paese. Vengono mandate in onda immagini di moscoviti all’assalto dei negozi che chiuderanno a breve, dalle mutande da Victoria’s secret ai panini da McDonald’s. Ovvii i paragoni infausti e gli articoli che parlano di ritorno all’URSS.

Notizie sparse, insomma, il clima non è buono e non tira aria di grandi aperture o distensioni. Qui ci si organizza per quel che si può, spedire beni in Ucraina, si continua, accogliere i profughi in arrivo. La pressione sui paesi limitrofi è ovviamente molto alta, oltre il milione nella sola Polonia, dove abito io le prefetture stanno raccogliendo le adesioni di hotel e residence, facendosì carico delle spese per una quota pro capite di circa ventisei euro al giorno. Tra le cose che possono, in qualche misura, contribuire, un amico mi propone di aiutarlo a ripubblicare un libro di pensieri poetici di donne ucraine. Volentieri, alla fine delle finite molti di noi, io di sicuro, hanno bisogno di agire, di fare qualcosa che sia utile. Per impostare il lavoro, oggi ho installato la lingua ucraina sul pc e, per un momento, tutto il computer era in cirillico. Sono dovuto andare a memoria delle posizioni del pulsanti per rimettere la solita lingua, perché ancora l’ucraino lo mastico poco. Però è stato buffo, è stato un attimo di partecipazione più profonda.

Tu cosa fai per l’Ucraina? Eh, io ho messo la lingua nel computer e da alcuni giorni lo uso così. Resistenza! Vabbè. Almeno ho imparato che sarebbe meglio dire Ucraìna e non Ucràina come io ho sempre detto, sebbene entrambe le pronunce siano tollerate. In particolare, perché la mia, Ucràina, è la pronuncia russa e, di conseguenza, anche in questo cerchiamo di essere corretti. Peraltro, nella stessa ricerca ho anche imparato che si pronuncia narvàlo e non nàrvalo, ho sempre sbagliato anche quella. Bene. Andiamo avanti così.

laccanzone del giorno: The Shins ‘Simple song’

Degli Shins ho ampiamente detto negli anni, qui e altrove, ma vale sempre la pena dirne qualcosa. Avendo già inserito una canzone degli allora Flake music nelleccanzoni del giorno, sottolineando la curiosa inversione, c’è spazio allora per gli Shins, gruppo bislacco come tutte le cose che escono da Portland, a metà tra nerd fastidiosi e spiritosi musicisti consapevoli, difficile distinguere. Di certo, le canzoni sono eccellenti, i dischi pure – Oh, Inverted World e Chutes Too Narrow da soli basterebbero per una carriera – e anche i video, non tutti, hanno tocchi di genio.
Ecco, una gran canzone con un video sensibile e spassoso insieme, è quella dichiarazione di intenti che è Simple song. Senza raccontarla troppo, il padre deceduto lascia ai tre figli la casa, ma devono scoprire come. E i suoi scherzi, mai apprezzati, proseguono anche dopo la morte. Scherzi? C’è sentimento, molto, nella canzone e negli Shins, sbagliato fermarsi alla lettura superficiale.

La melodia trascina e quando cantano I know that things can really get rough when you go it alone / Don’t go thinking you gotta be tough, to play like a stone / Could be there’s nothing else in our lives so critical / As this little hole arrivando al ritornello allora davvero la faccenda si fa seria, più di quanto il video suggerisca. Al get rough io immancabilmente mi metto a cantare a squarciagola nel mio inglese inventato. Perché oltre ai miei limiti, i testi degli Shins son mica facili da memorizzare e da comprendere. Portland, è proprio quella roba lì. Sembran scemi, loro dicono weird parlando dei portlandiani – ne hanno fatto anche delle serie – ma poi è tutt’altro. Let’s be honest. Oh, per esserlo, mica tutto degli Shins.

Trostfar, gentilmente, raccoglie tutte leccanzoni in una pleilista comoda comoda su spozzifai, per chi desidera. Grazie.

l’invasione, giorno dodici: richieste vere o false

Da quanto trapela dai negoziati, le richieste della Russia per cessare l’invasione sarebbero l’introduzione di un articolo nella Costituzione che impedisca l’entrata dell’Ucraina in qualsivoglia blocco dalla NATO all’UE, il riconoscimento della Crimea come russa, il riconoscimento di Donetsk e Luhansk come stati indipendenti, il fatto che Zelenskyy rimanga come presidente pro forma ma che Yuriy Boyko sia il primo ministro. Zelenskyy ha risposto no.

Io, a questo punto, avrei valutato molto seriamente. Inoltre, se queste effettivamente sono le richieste, parrebbero volere il riconoscimento ucraino della situazione precedente all’invasione, presidente a parte. Per cui, posso immaginare che, sotto la pressione delle bombe, il fronte che sostiene Zelenskyy si possa fare meno compatto e che una parte dell’opinione pubblica ucraina e del governo e dei settori produttivi possa cominciare a fare pressione sul presidente per un accordo. Peraltro, sarebbe più corretto e comprensibile considerare questa invasione come un passaggio, drammatico, di una guerra che va avanti da otto anni e della quale il mondo non ha avuto alcuna percezione o quasi, e non un’escalation improvvisa dovuta ai ghiribizzi di un pazzo o all’immarcescibile imperialismo russo. Di certo, il rifiuto di quanto richiesto ha già spezzato il fronte ucraino e, fosse anche solo quello l’intento dei russi, la mossa avrà senza dubbio delle ripercussioni interne. E la valutazione della Cina, che è storicamente e culturalmente restia a parlare, che indica la Russia come il proprio partner strategico principale non può essere di certo ignorata né presa con leggerezza.
Tra l’altro, basta guardare questa fotografia spaventosa delle evacuazioni di Irpen per essere meno saldi nel proposito di resistere, secondo me.

Da noi, mentre un’ampia parte della popolazione si è attivata per inviare aiuti in Ucraina e per assistere i rifugiati in arrivo, un’altra, più piccola, si dedica alle ricerche in rete per i costi di costruzione dei bunker casalinghi e all’acquisto sconsiderato delle pastiglie di iodio, per sentito dire in caso di contaminazione nucleare. I giornali, certo, la tv, sicuramente, ma molti suggestionabili e molti egoisti. E questo non lo scopriamo ora, dopo i due anni appena passati.

Nel frattempo, una vicenda personale che deriva però da una situazione generale, pandemia e Ucraina comprese: mi è arrivata la bolletta della luce del bimestre dicembre-gennaio. A parità di consumo rispetto all’anno scorso, la tariffa è esattamente raddoppiata, grossomodo 34 centesimi a kW/h. E questo accade dopo che il governo ha investito una quantità enorme di denaro per compensare l’aumento del costo dell’energia, noto da mesi alla borsa energetica di Amsterdam. Per il gas, gli aumenti dovrebbero cominciare, pare, da aprile, il che è una buona notizia in termini di riscaldamento. Non per me, che ho induzione e pompe di calore e quindi pago tutto fin da ora, bel salasso ma vabbè, il particolare conta poco. Conta il generale e di certo questa cosa da un lato creerà difficoltà a un sacco di persone e, dall’altro, acuirà la spinta irragionata verso il nucleare. Scommettiamo? Ma considerando che il pagare di più l’energia al momento è la cosa peggiore che ci capita, visto quel che succede in giro, va benissimo e, anzi: ringraziare per tanta fortuna.

l’invasione, giorno dieci: le onde corte

È deprimente. Le sanzoni non servono o servono a poco se non in determinate condizioni (qui uno studio approfondito di Ispi), i corridoi umanitari e la fuga dei civili nemmeno, vedi Siria o Groznyj, immagino vi sia un livello di diplomazia non visibile all’opinione pubblica e ai commentatori da bar come me, ma insomma: quali strumenti effettivamente abbiamo per far fronte a iniziative belliche come questa? Pochini, nessuno di per sé determinante, almeno al di fuori di una reazione armata. Così sembrerebbe.
Le notizie che ci arrivano sono influenzate in modo significativo dalla propaganda ucraina, intendo dalla comunicazione del governo e del popolo ucraino, organizzate o meno, per cui si susseguono le notizie di mezzi russi impantanati, di tempi più lunghi di quanto da Mosca avessero prospettato, di defezioni, di vittorie della resistenza popolare. Non dubito che in Russia sia l’esatto contrario, magari molti nemmeno sanno dell’invasione, chissà. Bisogna come sempre stare nel mezzo e ragionare sui fatti, ossia che da anni si prepara questa operazione, sia dal punto di vista militare che da quello finanziario, per cui non sarà certo in dieci giorni – questa si chiama speranza – che l’armata russa si arresterà, e che gli inconvenienti incontrati sulla propria strada non possano essere certo tali da frenarne l’avanzamento o, per lo meno, da essere inaspettati.

Il timore di molti è che con l’uscita dei civili attraverso corridoi umanitari, per esempio a Mariupol in queste ore, questo poi lasci mano libera all’intervento militare più aggressivo, inteso a radere al suolo ogni tipo di resistenza o contrasto. Peraltro, i bombardamenti russi non stanno diminuendo nemmeno durante questa tregua concordata, riporta il sindaco della città, per cui la cosa è ancor più difficile e l’evacuazione è stata sospesa in questi minuti. La zona è strategica per il congiungimento delle zone già russe sulla costa. Per quel che vedo da qui, due sere fa sono partiti molti caccia dalla base NATO, con regolarità, uno ogni dieci minuti, tutti con la stessa manovra, curvona ampia e direzione est.

Nel nostro piccoletto, partiti i primi carichi di medicinali e generi necessari. Lodevole sforzo di molti, cerco di appoggiare più che posso, adesso pensiamo al prossimo. Perché fare i primi sulla scorta dell’entusiasmo è facile, è durare che è difficile.
Basta qualche servizio alla tv in cui si parla dei generi alimentari che importiamo dall’Ucraina, il grano – ovvio, era il granaio d’Europa, si studiava a scuola – e l’olio di semi, ed ecco che al supermercato un quarto d’ora fa ho visto almeno cinque persone con carrelli strapieni di bottiglioni di olio e pacchi di pasta. Posso immaginare che una parte di questi ne faccia un calcolo meramente economico, li immagino ristoratori e friggitori, ma posso azzardare che vi sia anche un bel po’ di gente inquieta, in giro. E ansiosa.
Non che non ce ne sia motivo, ma direi che il primo non è l’olio di semi: dopo aver preso Chernobyl dopo giorni di assedio, dopo aver giocato al tiro a segno con la centrale atomica di Zaporizhzhia, adesso i russi sono a venti chilometri da Yuzhnoukrainsk, a sud, la seconda centrale nucleare più grande del paese.
In piena logica di guerra, a Mosca sono stati oscurati tutti i media indipendenti, non molti invero, e poi BBC, CNN, Bloomberg, Facebook, Twitter. La BBC è tornata a trasmettere anche sulle onde corte, una cosa che non si vedeva più da alcuni anni, il metodo più economico e rapido per arrivare comunque in Russia senza bisogno di infrastrutture nel paese. Mai dare nulla per scontato o acquisito.

l’invasione, giorno nove: ci mancava la centrale nucleare

Parlarne è l’unico modo per capire, confrontarsi l’unico per scambiarsi informazioni e dare un peso complessivo alla situazione. Con il rischio di fare geopolitica da salotto, sicuro, ovvero mettere sullo scacchiere complessivo forze, poteri, interessi, storia, volontà e giostrarli come se i meccanismi fossero lì da vedere. Non è così, se abbiamo il buongusto di non avventurarci in discussioni anatomiche o mediche – quasi, gli ultimi due anni hanno anche dimostrato il contrario – per manifesta ignoranza, tanto meno bisognerebbe avventurarsi per terreni così impervii come, appunto, la situazione globale, i cui fattori determinanti sono incalcolabili. Ma parlarne, come dicevo, è l’unico modo per affrontare un pericolo distante ma non tanto, non così da non avere conseguenze dirette. È anche il modo per misurare questo pericolo: non avendone esperienza diretta, visibile o tangibile, tendiamo a misurare il grado di rischio in base alla reazione delle persone di cui ci fidiamo, se sono spaventate ci preoccuperemo, se sono tranquille tireremo un respiro temporaneo di sollievo. Era accaduto anche all’inizio della pandemia, tra i nostri sistemi di valutazione, in assenza di componenti oggettive, la reazione del contesto è importante. Per questo, non tanto parlarne in assoluto quanto ha senso parlarne con le persone cui assegnamo un valore di giudizio e di comprensione dei fatti e degli eventi. E al momento, siamo tutti preoccupati.

In questo senso, ovvero per aggiungere elementi alla comprensione dello scenario, segnalo due articoli che vale la pena leggere, uno di Barbara Spinelli per il Fatto e uno di Tomaso Montanari per Micromega. Non c’è necessariamente da essere d’accordo, anzi, ma sono importanti le considerazioni, aggiungono elementi all’insieme. Spinelli racconta il percorso che dalla caduta dell’URSS ha portato la NATO a espandersi a est, e anche la UE, contraddicendo accordi presi in precedenza e andando a interferire con l’area di influenza di un paese che, è vero, abbiamo progressivamente considerato sempre meno rilevante. Il discorso è interessante e va preso per quello che è, una sintesi di trent’anni di evoluzione storico-politica dopo la fine della contrapposizione dei due blocchi, e vanno evitate quelle tentazioni che, soprattutto a sinistra, spingono a equilibrare con saccenza torti e ragioni da una parte e dall’altra per far morire il discorso e avere la sensazione di aver fatto la propria parte, seduti in salotto.

Più complesso il discorso di Montanari, che ragiona su una possibile terza via tra il sostegno all’oppressa Ucraina e all’aggressore Russia, in ottica pacifista. Il discorso è articolato e vale la pena leggerlo e pensarci, Montanari alla fine è uno dei pochi intellettuali odierni che prendono posizione e pongono alcune questioni sotto una luce diversa (grazie C.).

La Russia attualmente ha occupato 70.300 chilometri quadrati di territorio ucraino, circa l’undici per cento del totale, pari alla superficie dell’Irlanda. Con i territori occupati nel 2014, circa 45.200 chilometri quadrati, la percentuale supera il venti per cento, in totale. Cominciamo a capire, e le dichiarazioni di Putin in questo senso sono chiarissime, che siamo solo all’inizio e che una soluzione rapida, anche paradossale come quella che l’Ucraina si arrendesse immediatamente, è al momento fuori discussione. La Russia, oltre alla questione ucraina, ha da rivendicare al pianeta un peso, una forza e un’area di influenza cui non intende rinunciare, anzi. Oltre a obbiettivi che ancora non sono chiari e non lo saranno di certo a me. Occorre dunque pensare in tempi più lunghi, sia per il supporto materiale agli ucraini in Ucraina e fuori, sia per la propria sopravvivenza emotiva, necessario pensare anche a sé.

Grazie a un’amica, stiamo utilizzando un canale aperto rapidamente da un’associazione ucraina per inviare medicinali e farmaci. Ieri sera è partito un TIR pieno, ne siamo contenti, man mano vedremo di cosa ci sia bisogno e quali saranno le richieste. Una precisa è già arrivata ed è di soldi per acquistare giubbotti antiproiettile. Sono onesto, la risposta è stata no. Le ragioni sono svariate: sia perché la preferenza è di non inviare danaro ma beni, sia perché a questo tipo di dotazioni dovrebbe, eventualmente, pensare qualcun altro, vedi il discutibile voto del parlamento italiano dell’altro giorno, cioè riteniamo serva un ragionamento complessivo al riguardo e valutazioni che non siamo in grado di fare. Ci occuperemo di cibo, vestiti, medicinali. Curioso il contrasto. Fuori con un amico a camminare e a ragionare del futuro, Ucraina ovviamente compresa, passiamo più volte attorno al TIR che viene caricato, osserviamo le operazioni. Di fianco, ormai è buio e siamo in una zona industriale, auto di grossa cilindrata truccate, smarmittate e illuminate con luci blu sul fondo, giocano a fare sgommate e accelerazioni gradasse. Non è una novità, da parecchio accade, lo sanno tutti: sono gli ucraini. E danno pure parecchio fastidio a chi, qui, ci abita. Ci sono vie dove non si può passare perché ti guardano male, non salutano, sembrano aggressivi, a volte esibiscono simboli fascisti. Eh sì, sono gli stessi, cioè sono ucraini tanto quanto, alcuni bravi e alcuni rompicoglioni, come ovunque. Ma dare una faccia a un’idea è sempre operazione interessante, caricare un camion di aiuti per persone che qui a fianco ti danno fastidio e con cui convivi a fatica è un processo non banale.
A proposito di tempi lunghi, stanno già arrivando molti profughi, con numeri che faranno impallidire qualsiasi numero legato all’immigrazione in tempi recenti, si parla di almeno centomila nella mia regione in tempi relativamente brevi. E serviranno case, vestiti, cibo, soldi, bisogna organizzarsi, per quanto mi riguarda stiamo verificando i canali affidabili aperti e strutturati, vedremo. Quelli intanto fan sempre le garette con le auto.