laccanzone del giorno: Cat Stevens, ‘The first cut is the deepest’

Se dovessi scegliere chi essere nei Settanta, forse vorrei essere Cat Stevens.
Bello come il sole, con una voce che quando cantava «Where do the children play?» volavano le mutande, autore di una valanga di canzoni strepitose, da «If you want to sing out, sing out» a «Wild world» a «Miles from nowhere» a «Sitting» a «Lady d’Arbanville» e dischi come «Tea for the Tillerman» e «Mona Bone Jakon» che ho a dir poco consumato, come tanti.

«The first cut is the deepest» è una delle sue prime canzoni, scritta per altri e poi ricantata e risuonata mille volte, che è come tutte le canzoni di Stevens: quando entra nella testa, poi non ne esce più. Per fortuna. Perché the first Cat is the deepest.

«la guerra implacabile dell’invidia»

Sulla facciata di una bella casa vicino a via Merulana a Roma, zona di pasticciacci, si ricorda che lì visse un gran pittore, di quelli bravi, il Domenichino.

Guardando meglio, la targa – tardiva assai, essendo il Domenichino di almeno un paio di secoli prima – allude a una vita complicata, in contrasto con la sua grandezza artistica.

«Domenico Zampieri bolognese / detto il Domenichino / gloria della pittura / in questa sua casa riparava / dalla guerra implacabile dell’invidia»

E fu così davvero: mite e pensoso, Domenichino tanto fu davvero grande dal punto di vista del talento e delle capacità artistiche, quanto fu schivo, lento e in perenne disagio nella sua vita quotidiana. E se uno è lì che pensa e non è molto veloce, è facile passare per pigro e ritardatello. Povero Domenichino, non gli restava che chiudersi in casa per star tranquillo.

olocausto? dimostralo

Nel 1996 la storica Deborah Lipstadt, durante una conferenza sull’olocausto, fu interrotta da David Irving, saggista inglese, che la accusò di propagandare falsità: secondo Irving, infatti, non vi erano prove che la soluzione finale fosse stata ordinata da Hitler e, anzi, si spinse anche più in là, sostenendo che non vi fossero prove che i campi di concentramento avessero effettivamente dei forni crematori destinati allo smaltimento dei cadaveri. Un negazionista. Alle rimostranze di Lipstadt, che lo definì «un negazionista», Irving rispose querelando lei e la sua casa editrice, la Penguin.

Secondo il diritto anglosassone, toccò a Lipstadt e Penguin dimostrare la propria ragione e, di conseguenza, dimostrare in un’aula di tribunale l’effettiva consistenza e avvenimento dell’olocausto. Nessuno ci aveva mai pensato prima: dover dimostrare un fatto così eclatante, gigantesco e mostruoso di fronte a una corte e, soprattutto, con gli strumenti di avvocati e giudici, si rivelò una faccenda davvero molto complessa e dai risvolti incredibili.

Gli avvocati difensori di Lipstadt, per fare un esempio, decisero di non farla parlare e, ancora più stupefacente, di non far parlare nemmeno i sopravvissuti: una causa in tribunale si gestisce, infatti, su altri piani e con altre regole. Per una storica, la cosa divenne rapidamente incomprensibile. Ma si fidò e vinse: il che vuol dire – non banalmente – che dal 2000 l’olocausto è anche una certezza giudiziaria, che non può essere negata. Irving fu riconosciuto colpevole non solo di calunnia ma, più tardi, di negazionismo e di aderenza a formazioni di estrema destra, oltre ad aver «per le sue ragioni ideologiche continuativamente e deliberatamente manipolato e alterato l’evidenza storica».

Dalla vicenda, Lipstadt ne trasse un libro importante, «History on Trial: My Day in Court with a Holocaust Denier» (in italiano, «La verità negata. La mia battaglia in tribunale contro chi ha negato l’Olocausto», 2016, Mondadori) e, a sua volta, da esso fu tratto un film, «Denial», «La verità negata», ben scritto e girato con ottimi attori (un bel pezzo del cast di Sherlock).
Credo sia un buon modo per ricordare, oggi, e per capirne un pezzetto di più: dover dimostrare l’effettiva esistenza dell’olocausto in un tribunale si è rivelato un compito difficile e arduo, una ragione in più per mantenere viva la memoria su ciò che è stato.

tracking my time

Una delle cose più noiose di alcuni lavori (tra i quali il mio), e proprio per quello una delle cose che si trascurano di più, è monitorare le proprie attività, registrandone il tempo per ciascuna. Perché poi bisogna capire come le commesse siano coperte, se si produce a sufficienza, se il tempo è ben impiegato e blablabla. Aziendalismi.
Chi ha questa incombenza sa di che parlo e, probabilmente, già usa toggl. Da usarsi insieme o meno, non importa, ma molto molto interessante per questo tipo di necessità è ZEIº.

Uno sformotto piramidale che si appoggia sul tavolo, in posizione a seconda dell’attività che si sta svolgendo. E lui registra. Le facce/attività sono ovviamente personalizzabili (includono gli adesivi ma ci si può anche scrivere e/o disegnare) e il gioco è fatto. Provato, testato, dà soddisfazione.
Poi ci si stuferà lo stesso ma al momento funziona.