minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 11

Parto dalle cose piacevoli: stasera la mia amica T., che abita di fronte a me e con cui in questi giorni ci parliamo alle finestre o al telefono, per quanto ridicolo sia, ha deciso di fare la carbonara. Da persona gentile qual è, ilsignorelabenedicamengloria, ha pensato di includermi nell’iniziativa alimentare. Benvolentieri, dico io, ci troviamo subito d’accordo sulla quantità: molta. T. mi preannuncia via messaggio quando sta per buttare la pasta e mi bussa alla porta dieci minuti dopo, sparendo alla vista come il fantasma dell’opera carbonara. Io apro la porta.

Non ne ha fatta molta, ne ha fatta per un battaglione. Un battaglione di due persone che – ce lo siamo confessati poi – ha mangiato tutta la pasta, rigorosamente ciascuno nella propria casermetta, come se non ne avesse mai vista in tutta la vita. Piano, santoddio, piano. Io ho fornito il vino, una bottiglia di rosso a lei e una di bianco a me (il vino è il genere alimentare più consumato in questo periodo di quarantena, non solo da noi, faremo i conti alla fine) e vualà, serata fatta. Io poi mi ero tenuto da parte l’ultima puntata di Ray Donovan (ultima vuol dire ultima, ultima della settima stagione, poi mai mai mai più Ray Donovan) quindi posso dire: en plein. Grazie T., iniziativa molto apprezzata, hai reso speciale una serata.
Poi tocca tornare alla realtà, davvero un po’ più cruda: i casi crescono, anche se in maniera disomogenea, i morti pure, di fatto stiamo osservando il passato, ovvero chi si scopre contagiato oggi è perché, presumibilmente, ha contratto l’infezione quattordici giorni fa, prima della chiusura della regione, o giù di lì. Il calcolo è ovviamente sommario e va preso in modo elastico. Niente stupore, specie da parte dei medici, ma la situazione è davvero grama: vedere i camion dell’esercito in fila indiana che portano via le bare da Bergamo perché non ce la fanno più a cremarli fa davvero davvero davvero impressione. E tristezza. Chi l’avrebbe immaginato, due settimane fa? Ovvio. I sindaci da molte parti chiedono di inasprire le norme di comportamento per ridurre le possibilità di contagio, leggo infatti che molti non avrebbero capito – e non stento a crederlo – la gravità della situazione. Lo immagino, anche se per quanto posso vedere io quando vado a fare la spesa non c’è in giro nessuno e quei pochi sono molto disciplinati. Probabilmente non vado nei posti giusti. Sicuramente, noto una disparità, parlando con gli amici, tra città e provincia (dove un amico mi diceva tranquillamente di essere andato a cena dai suoi) e tra parti diverse della regione (nel milanese la quarantena è molto molto più blanda ed è avvertita in modo meno serio, ancora molti vanno in ufficio e frequentano persone con imperdonabile leggerezza). Non parliamo delle parti diverse del paese, un abisso, che verrà sicuramente colmato nelle prossime settimane ma a che prezzo? Tra le stesse persone della mia città vedo comportamenti disuguali, irragionevoli anche tra coloro che si comportano civilmente e seguono le regole, di solito, si informano e cercano di capire. Perché? Immagino c’entri la volontà di non rendere reale ciò che accade, immagino anche per non cedere i propri ridotti spazi di autonomia, immagino oltre a tutto per una certa poca elasticità nell’adeguarsi alle situazioni tipica dell’età avanzata. Un insieme di ragioni, immagino, che porta a prendere rischi davvero inutili. E bisogna pure discuterci aspramente, va’ a capire. Molti, invece, hanno capito subito. La maggioranza. Spero sinceramente non inaspriscano le regole di comportamento, perché l’esercito che distribuisce il cibo è davvero a due passi da qui e io, se posso, preferirei non finire in quella situazione, con tutto ciò che ne consegue.
Se quindici giorni fa mi avessero detto che sarebbe stato chiuso il Paese e che ci saremmo rintanati tutti in casa non lo avrei, mai, ritenuto possibile.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 11

  1. Complottismo all’incontrario?

    Qualche giorno fa ho letto un articolo postato da un’amica tedesca (https://www.spiegel.de/wissenschaft/mensch/coronavirus-vs-klimakrise-zweierlei-mass-aber-warum-a-b22c0a9a-5f58-4a9d-894e-7b1fcb34d9cb?sara_ecid=soci_upd_wbMbjhOSvViISjc8RPU89NcCvtlFcJ&fbclid=IwAR05eIT0-9tb990jjKFf9gXRBzjOf–8ob2xQQG_AI_uO23USVq6beCYxsI) dove si riflette su analogie e differenze tra emergenza da coronavirus da una parte, e il problema del cambiamento climatico dall’altra.
    La domanda principale è: come mai nel primo caso, sia pure in modo diverso e magari in ritardo, si è disponibili ad adottare (da parte della politica) e a subire (da parte della cittadinanza, del mondo della produzione etc.) restrizioni anche molto severe, mentre sul secondo fronte la reazione più diffusa è la negazione o l’inerzia?
    A rafforzare il quesito c’è ovviamente la considerazione per cui, tutto sommato, mentre nel caso covid il pericolo è “solo” la morte di qualche milione di persone (un costo tremendo, ma tutto sommato trascurabile se paragonato a moltissime epidemie del passato, che erano arrivate a dimezzare la popolazione), nelle previsioni legate al cambiamento climatico la sanzione potrebbe essere l’estinzione della specie.
    La risposta è che nel caso del coronavirus le conseguenze sono immediate, visibili e ci riguardano in prima persona, senza particolari distinzioni; in altre parole, rispetto agli effetti su di noi, sono attuali, innegabili e dolorose. Viceversa, nel caso del riscaldamento globale, la possibilità di negare o di discutere (“non esiste”; “è sopravvalutato nella dimensione o negli effetti”; “non ha causa antropica”; “non c’è comunque nulla di efficace da fare”) è molto più ampia; inoltre, gli effetti che ci riguardano in prima persona sono spesso meno appariscenti, più mediati (nel tempo e nello spazio), infinitamente meno stringenti nel nesso di causalità che noi possiamo percepire tra le nostre azioni (o inazioni) e le conseguenze negative che ce ne possono derivare.
    Sintesi: ci stiamo dimostrando soggetti con un raziocinio elementare, di brevissimo periodo, e la nostra scarsa capacità di astrazione non ci consente di vedere più in là del nostro naso, per cui fin tanto che non andiamo a sbattere preferiamo negare o rimuovere i problemi.
    Niente di nuovo, dunque. E non sarebbe neppure il caso di precisare che “andare a sbattere” (= superare il punto di non ritorno) col riscaldamento globale sarebbe infinitamente meno gestibile del covid, se non fosse per una suggestione, che in mancanza di meglio battezzerò “complottismo all’incontrario”.
    Tutti noi abbiamo visto nei giorni scorsi l’effetto, in termini di diminuzione dell’inquinamento, della contrazione delle varie attività private e produttive: canali puliti a Venezia, delfini nei porti di Cagliari e Trieste, foto da satellite in varie parti del Pianeta. Un effetto collaterale della pandemia, quindi, si sta rivelando una riduzione notevolissima delle emissioni di CO2.
    Il “complottismo” sta ovviamente nel ritenere questo effetto (oggettivo) uno scopo (soggettivo).
    E se questo benedetto coronavirus fosse lo strumento scelto da un qualche Consesso per imporre, tramite la risposta a un’esigenza immediata, quelle misure che altrimenti non sarebbero state accettate come rimedio per una (assai più vitale) esigenza di medio termine?

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