il piazzista, l’hotel Excelsior e quella voce al telefono

Licio Gelli, trafficone fascista maledetto, se sulla carta di identità come professione aveva messo venditore di materassi per Eminflex, negli anni belli  – primi Settanta – aveva un ufficio all’ultimo piano dell’hotel Excelsior di Roma, via Veneto.
Un tantinello cafone ma d’effetto. Perché serviva a ricevere generali d’armata, ministri, palazzinari milanesi, conduttori televisivi, insomma la crème direttiva di questo straziato paese, per convincerli ad affiliarsi al nascente ed esclusivo club che aveva in mente.
Si sieda, un po’ di discorsi generali, qualche allusione a un piano di rinascita, evidenti vantaggi dalla rete di relazioni che si sarebbe venuta a costituire, favori e controfavori, il tutto in nome di una comunanza di intenti e di volontà: il potere. Gelli la contava su e il candidato di solito aderiva, facendo la tesserina del club e attendendo le convocazioni per le frequenti riunioni con gli altri soci.
Dovendogli, però, vendere il prodotto, cioè l’affiliazione, spesso Gelli doveva illustrare gli innegabili vantaggi dell’aderire a un sodalizio così particolare, cercando di dimostrare la validità delle proprie parole. Qualora il candidato esprimesse perplessità, allora arrivava il momento della telefonata: Gelli componeva un numero, scambiava due parole amichevoli con la persona all’altro capo del telefono e poi gli passava il candidato seduto di fronte, senza dire nulla. Preso il telefono, la voce di là era riconoscibilissima e sicura garanzia di successo e di validità dell’offerta gelliana: era un attimo e le perplessità svanivano.
Perché dall’altro capo della cornetta c’era lui, anzi Lui: Andreotti. Cosa di meglio?

Infatti. Ma. Perché uno si chiede: ma possibile che Andreotti fosse così poco sveglio da spiegare al telefono a uno sconosciuto, in sostanza, i vantaggi dell’adesione a un’associazione sostanzialmente sovversiva? E poi: possibile che Gelli chiamasse Andreotti magari anche più volte al giorno per fare sempre la stessa scenetta? Avrà mica avuto anche da fare, Andreotti, di tanto in tanto? Già.
E infatti il trucco, un trucco da piazzista, c’era. E, anzi, il trucco aveva un nome e un cognome: Alighiero Noschese. Imitatore molto abile e spigliato, era nella fase discendente della sua fortuna in RAI, probabilmente aveva anche bisogno di lavorare: vualà, eccolo all’opera. Ihih. La cosa, come è noto, funzionò. Più per Gelli che per Noschese, porello.

La storia è di pubblico dominio, ormai, e se non è vera di sicuro ha tutti i crismi della verosimiglianza, per cui a me piace considerarla vera. Dettagli in più in Giuseppe Sansonna, Hollywood sul Tevere. Storie scellerate, Roma, Minimum Fax, 2016.

farò quello che devo fare. Canterò (un anno dopo)

Il 17 novembre, a un anno meno un giorno dalla sua scomparsa, la Daptone pubblicherà l’ultimo disco di Sharon Jones & the Dap-Kings, Soul of a woman.

Si tratta di un disco concluso a giugno 2016, registrato tra una serata e l’altra del tour, ed è un pezzo della discografia ufficiale di Sharon Jones & the Dap-Kings a tutti gli effetti: quando pensavo che non ci sarebbe stato più niente, ecco un regalo davvero inaspettato.
Niente potrà compensare il dispiacere per la perdita, niente mi toglierà quel sentimento triste che mi piglia ogni volta che ci penso, un altro disco potrà però portare altre idee, altre sensazioni, altri pensieri. Anche altri muovilculo, magari, dipende dal tipo di disco che sarà.
Il primo singolo estratto, lo riporto qui sotto, è «Matter of time» ed è completamente, totalmente, Sharon Jones, per fortuna. Con tutta la grazia di cui era capace, anche nei momenti, tragici, mi commuovo a vederla ridere e ballare, e mi dico che devo – ancora una volta – imparare. Son regali, regali veri.

Certo, bisogna superare la tristezza quando a 1:34 o a 2:20 si vede Sharon con Charles Bradley, scomparso pure lui di recente, ma in fondo è bello così: vederli sorridenti e felici di fare quello che amavano fare.
E dunque su: festa per il nuovo disco, già pre-comprato, e giù il cappello, ancora una volta, per la sublime Sharon Jones: l’unica che avrebbe potuto sedersi sulle nostre facce come e quando avesse voluto. Viva!

in morte del più grande battutista di sempre

Il 7 ottobre ho appreso, con grandissimo dispiacere, della morte di Cosimo Mele.

Mele, al tempo in cui era parlamentare dell’Udc, fu beccato con un paio di prostitute e una bella montagnetta di cocaina in un albergo nel centro di Roma. Era il 2007.
All’uscita dall’albergo tra un paio di poliziotti regalò alcune perle di umorismo tuttora insuperate nella mia memoria, e se la meno bella è: «Forse che i parlamentari dell’Udc non fanno l’amore?» figuratevi il resto. Qui scrissi di Mele e delle sue fantastiche battute. Resterà sempre nei miei migliori ricordi.

non c’è nessuno in città (nobadi’s in taun)

Dopo la morte di Tom Petty, il 7 ottobre i Florida Gators – squadra di football americano di Gainesville, città natale di Petty – gli hanno reso omaggio prima della partita, sparando a tutto volume la sua I won’t back down. Novantamila tifosi che cantano tutti insieme una gran canzone mi danno brividi di soddisfazione.

eeeeeeeeeeeeibebi derisnoisiueiaaaaut. Notevole.
Guardando il video (che è da molto in alto ma ne esistono da più vicino) si vede quello che si vede sempre negli stadi americani: uomini, donne, adolescenti, bambini, nonni in carriola, insomma la ben nota capacità americana di creare l’evento. E la cantatona di Petty con il testo su maxischermo è esattamente quella cosa lì.
E allora ho fatto due conti: i Florida Gators sono una squadra universitaria e giocano nella Southeastern Conference, quindi la serie locale dei college della Football Bowl Subdivision (FBS). L’NFL – la serie maggiore – è piuttosto lontana. Ora: lo stadio in cui giocano – il Ben Hill Griffin Stadium – ha, si vede nel video qui sopra, 88.548 posti. Se non avete ancora detto cazzo! ecco un termine di paragone: San Siro a Milano ha 80.018 posti ed è il più grande stadio italiano, credo.
Il punto non è chi ce l’ha più grosso, il punto è che Gainesville ha, dato del 2016, 131.591 abitanti: il che vuol dire che, lasciati a casa i cani, gli ergastolani e le zie morte, tutti gli altri vanno allo stadio il sabato o la domenica a fare festa. L’evento, appunto. E si divertono mica poco, i bastardelli.
Se fossimo a Milano e le cose andassero alla stessa maniera, assumendo come buona la cifra di 1.368.590 abitanti (2016 anche qui), lo stadio della città dovrebbe avere 919.692,48 posti. Un milione, quasi, megojoni.
E il bello è che sarebbe pure pieno.