minidiario scritto un po’ così di un breve giro a ovest: due, arte contemporanea in residenza, una visita più posata, dal balcone, una visita doverosa

Le residenze, dicevo. Venaria è già andata, chiusa per riprese di un qualche film, opto per Rivoli. Non è difficile. Su un’altura predominante, è il classico castellotto medievale che poi si chiama Juvarra e glielo si fa abbellire con genio. Se ne dice poco di Juvarra ma bisognerebbe di più, perché di grande valore, una docente con i ragazzi spiega prima di entrare e lo chiama Giuvarra. Poi però finiscono i soldi o gli interessi convergono da qualche altra parte e non si intonaca più, resta la manica lunga, un edificio lungo centoquaranta metri di corridoio, e il colonnato che prelude a un articolato spazio di ingresso resta incompiuto. Ma è la gioia dei fotografi, specie con le luci giuste la mattina presto. L’operazione intelligente sul castello di Rivoli è stata quella di farne un museo di arte contemporanea di alto livello, con una permanente di opere concepite on site sull’esempio di villa Panza, per esempio. Poi ci sono le temporanee, adesso è in programma Olafur Eliasson, un artista che crea caleidoscopi tremolanti al buio e io la manica lunga la devo misurare a passi e farmi impressionare da fuori.

Il tempo di un’arancia in contemplazione del panorama, fumoso sul fondo come detto, e ripercorro la tangenziale per andare a Stupinigi. È una palazzina di caccia, infatti basta tirare una riga rettilinea da piazza Castello, cioè la riga c’è, e si arriva qui per quello che una volta era il parco. Ma palazzina barocca e indovina? Giuvarra. Perché va bene la caccia ma anche i salottini, un gran salone da ballo e la ricreazione per signori e dame. Basta guardare palazzo reale, i Savoia acconsentirono ai divanetti, ai tavolini, alle biblioteche e alle sale da tè cinesi perché servivano ed era la moda, ma nulla importava loro. Ciò su cui andavano forte era la guerra, le armi, la caccia e così è: Stupinigi è splendida. Anni fa ci venni con gli amici, Guardate che mancano dieci minuti alla chiusura e che problema c’è? La visitammo in otto, compreso il ritorno. Ne ho ancora un video ininterrotto, poi giocammo a tirarci il vortex nel prato. Oggi no, me la guardo con calma, so anche parecchie cose in più, ora. La palazzina è un prodigio di armonia ed eleganza, non è enorme ma lo sembra, la sala centrale è sontuosa per tutti i livelli che si sovrappongono. Fortuna che quelle bestie dei Savoia avevano Giuvarra, se no arrivederci. E Guarini per la cupola del duomo, altroché.

Così se a qualcuno serve c’è il numero.

Ed è sempre Giuvarra che mi riporta a Superga, dopo che cento scavatori lavorarono un anno per sbancare la collina di quasi cento metri, lui fece la basilica. E bisognava farla bella perché si vede da ogni punto di Torino o quasi e lui, bravo, la fece. Stretta e alta, forse non irresistibile a guardarla ma è perfetta per il contesto e si vede slanciata da lontano e per questo i torinesi la amano. Si vede dappertutto perché, ovvio, è in alto. Ma non così tanto in alto dove dovrebbe volare un’aereo, eppure una notte nebbiosa di molti anni fa fu proprio lì che si schiantò l’aereo del Grande Torino, gli invincibili. Quanti altri scudetti avrebbero vinto se? Molti. C’è da dire che sul luogo del disastro molti sono gli omaggi anche delle altre squadre e questo è bene. Quel Torino che in una partita diede dieci titolari su undici alla nazionale, irripetibile. A Superga si trova anche la cappella delle sepolture dei Savoia, già che son qui la vedrei ma è chiusa. Niente, mi stan già immensamente sulle balle quei due sepolti al Pantheon a Roma, ne farò a meno. Il piazzale è pieno di ciclisti attempati con biciclette con robuste batterie e attrezzature parecchio costose, a parte la spesa capisco che quando non si riesca più a fare una cosa si cerchi un altro modo. Io penso sia giusto fare altre cose, in armonia con il proprio stato ma è un pensiero che mi tengo solo per me e ciascuno libero. Comunque girano a bande, bisognerebbe appostarsi con un furgone a una curva e fare un bottino da decine di migliaia di euro.

Scendo giù e vado al monumentale, che voglio far visita. Passo davanti a Pellico, ad Adelaide Aglietta, a tutti quelli che si inventarono la Fiat e poi uscirono lasciandola agli Agnelli, a innumerevoli senatori e ministri dei governi Cavour, a Galileo Ferraris, che molto apprezzo, e proseguo fino al primo campo israelitico, che fa impressione a dirlo, per trovare la sepoltura del deportato 174517 ad Auschwitz, tenne sempre l’infame tatuaggio e immagino volle il numero anche sulla lapide. È un piccolo pellegrinaggio, il mio, insignificante di per sé ma significativo per me, sono stato anche fuori da casa sua, in corso Umberto, fuori da quel portone che nasconde la scala del volo, sono andato in via Biancamano, all’Einaudi, insomma ho un po’ inseguito alcuni suoi posti, cercando di immaginarlo pensieroso mentre percorre la strada da casa alla casa editrice, come ho inseguito i suoi scritti, dai più tragici ai più comici. Sì, ce ne sono parecchi comici ma questo la scuola italiana lo ignora volutamente. Mi ripeto per questo, insisto, lo considero senz’altro il più grande scrittore italiano del Novecento. E Calvino, altro pretendente al titolo, sarebbe stato d’accordo.


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