minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno tre. Vienna non Vienna, io? faccio teatro, la vita in effetti non è niente male.

Trenta chilometri di viaggio su un locale e sono a Vienna.

Capitale per secoli dell’impero austro-ung… Ah no, niente. Quella è Vindobona e ai tempi valeva la metà di questa, Colonia Julia Viennensis. Sorta in uno di quei posti in cui chiunque punterebbe il dito per fondare una città – la migliore in questo senso resta Salisburgo -, Vienne sta placida su un gomitone del Rodano tra colline buone per il vino e piane buone per il commercio.
Ora, qualche breve nota elementare sulla fondazione di città romane (o greche), saltare se già edotti: serve senz’altro un fiume, possibilmente navigabile, per ovvii motivi, ma altrettanto essenziale è la presenza di colli o colline oltre agli spazi piani. Perché il teatro e i templi cerimoniali, quelli ad altare, si scavano direttamente sul fianco della collina risparmiando un sacco di lavoro e materiali. E le mura sono più efficaci. Mai fondare alla foce di un fiume anche se viene la tentazione, perché, lo dice Vitruvio, il porto si insabbierà. Vedi Pisa? Mica hanno ascoltato.
Sulla scorta di queste poche regole, la valle del Rodano si rivelò essere un ottimo posto per fondare città, per cui certi chiamati Romanes fondarono a raffica e a poca distanza, per oggi, Lione e Vienne, appunto, Valence (altra città omonima), Montélimar, Orange, Avignone, Nîmes, Arles eccetera. Tutte colonie, tra l’altro, nel senso che ai centurioni scampati alle vicissitudini della carriera militare, diciotto anni, veniva concesso un appezzamento di terra in un contesto non ancora sviluppato ma da organizzare, ovvero tutte queste città di cui conosciamo anno di fondazione e spesso anche il nome del fondatore. Integrando o scacciando quelli che già vi abitavano da qualche millennio, in questo caso galli allobrogi nipoti di qualche sapiens ancora più antico.
E ora qualche breve nota elementare su alcuni elementi tra i più riconoscibili delle città romane, evitare anche qui se si è Bianchi Bandinelli o Carandini: a parte le strade ad angolo retto, cardo e decumano, le mura, le porte e le vie consolari tirate col righello, di solito non manca il teatro, che è quella costruzione a emiciclo con il proscenio esattamente come i nostri di oggi, da non confondere con l’anfiteatro, quello ellittico usato per gli spettacoli gladiatorii, per capirci Colosseo. Poi c’è il circo, che è quello lungo con la spina in mezzo che serve per le corse, tipo Ben Hur al circo Massimo, solo nelle città più ricche. E infine c’è l’odeon, che è un tipo di teatro più piccolo, coperto, che serve per la musica e di solito è a fianco del teatro. Tra le città che ho detto, gli anfiteatri di Nîmes e Arles sono ancora lì da vedere, i teatri e gli odeon di Orange, Lione, Valence e Vienne pure. Infatti.
Per valutare le dimensioni di una città romana, basta guardare le dimensioni di uno qualunque di questi edifici ricreativi, se è sopravvissuto: teatro grande, città grande. Anfiteatro grande, città grandissima e ricchissima. Vienne ha un magnifico e colossale teatro. Scavato nel fianco di una collina e orientato in modo da avere il Rodano sullo sfondo del palco, è davvero magnifico. Di esempi similari, ancora utilizzati, tra quelli che ho visto e che mi vengono in mente in questo momento su una panchina ci sono Verona, Taormina, Plovdiv, Orange, Siracusa, Spoleto, Volterra, e il teatro di Vienne è oggi utilizzato per una miriade di spettacoli e concerti, tra cui spicca il festival jazz di giugno di altissimo livello, cito Brad Mehldau quest’anno.

Io entro alle nove del mattino che ancora è in ombra e, meraviglia, sono da solo. Mi siedo sulle gradinate, immagino il silenzio durante le tragedie, le risate e le urla durante le commedie, fantastico su alcune assemblee pubbliche, magari, in tempi burrascosi, mi figuro la rovina per quasi quindici secoli. Lo giro in lungo e in largo, la vista del palco è magnifica da ogni angolo, anche l’acustica deve esserlo ma non c’è nessuno che faccia un suono dal basso. Poi spunta il sole e illumina la scena, io non resisto e ci vado, mettendomi in mezzo. Che emozione è sempre salire su un palco, no? Anche senza pubblico, stare lì è entusiasmante, è un luogo sacro e magico, è il posto dove accadono delle cose, basta dire di essere in un luogo e vi si è. O di essere qualcun altro e lo si è, innumerevoli vite, il limite è la fantasia. Mi atteggio, guardo tutto il pubblico assente, faccio un paio di espressioni, temporeggio, immagino qualche colpo di tosse, qualcuno che si sistema meglio, forse una parola col vicino, sono davvero emozionato. Poi mi faccio coraggio e inizio, recito qualcosa, molto breve e sconclusionato, potrebbe essere Euripide (no, non lo è) o gli scontrini della spesa di Gassman, chissà, me lo tengo per me. Ma che emozione.

Vienne deve aver attraversato le classiche vicissitudini dei tempi europei: grande, grandissima sotto l’impero romano – aveva anche un odeon, un circo enorme lungo quattrocento metri, templi che ancora esistono, mura, enormi ville con giardini e mosaici, aree commerciali estese, il tutto comparabile senza dubbio con Lione – poi minima a seguito delle migrazioni dell’alto medioevo, in espansione poi tra XIII secolo e Rinascimento, come testimonia la grande cattedrale e i bei palazzi rinascimentali, per contrarsi nuovamente nei secoli successivi, conoscere un’altra crescita legata all’industria, fino – un grande classico – allo sviluppo poco sensato dell’urbanizzazione negli anni Settanta e Ottanta, per poi conoscere una fase di contrazione adesso, nei nostri anni. Molti negozi sono chiusi o mai riammodernati, in centro ci sono quasi solo esercenti rivolti a consumatori di fascia alta, intendo enoteche, ristoranti, bar, librerie, parafarmacie, laboratori di analisi (e anche qui la salute è diventata un genere merceologico), negozi di vestiti, mentre appena usciti dalla vecchia cerchia delle mura (qui sotto testimonianza del poco rispetto esercitato nei loro confronti) ci sono i negozi e le abitazioni scassone, i ristoranti e riparatori di telefoni cinesi, i parrucchieri arabi, i kebab, le case in cui sembra che vivano in seimila, tutte cose che a me piacciono, sia chiaro. Ma territorialmente ammassati, come da noi.

A ogni modo, mi si perdoni l’analisi sociologica da sottoscala, non volevo. Come dicevo ieri, le differenze tra le nostre città e queste città franzose, ma credo di poter dire quasi tutte le città europee occidentali, si sono affievolite, certi fenomeni ora coinvolgono tutti in misure simili. Alla fine, alle domande di che fare delle nostre città e di tutti gli immobili sfitti e vuoti piuttosto che delle aree industriali dismesse nessuno sa rispondere in modo univoco, le risposte sono locali, per forza. E come integrare con dignità e rispetto una non trascurabile immigrazione, ormai di seconda e terza generazione, è un’altra bella domanda, intendo dire senza creare quartieri per gli uni e quartieri per gli altri.
Ma io so poco di un sacco di cose, di queste niente. Dopo tanto scarpinare e tanto cosare di cervello, sono andato a mangiare e sono stato accolto così.

Se ne potrebbe anche discutere ma, dico io oggi, anche no. La piglio così, non rompo e me la faccio andare bene, eccome. Anche perché ho mangiato molto bene e sono stato trattato meglio. Grazie, viennesi.


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