minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno dieci. Libri, controlli alla frontiera, la Carloforma, l’hotel robò, d’ora in poi sempre insieme.

Mi preparo al salto del Reno, vado di là. Una volta, mondi profondamente diversi, forse ancora oggi per certe visioni generali, quasi del tutto identici se visti da vicino, son pochi chilometri, la cucina si assomiglia, le case pure. Non so i dialetti, le lingue no. Infatti, di là so a malapena dire di non gettare oggetti dai finestrini per cui si torna all’inglese e agli ordini un po’ tirati a caso al ristorante.
Ma son due paesi diversi, regole, abitudini diverse. In Francia, per esempio, se cammini sulla pista ciclabile ti evitano e al massimo sbuffano, in Germania sei a un pelo dalla fucilazione su pubblica piazza e ti vengono pure addosso. Anche le tariffe dello stesso treno sono diverse, per SNCF e DB. Politiche di viaggio diverse.

Sì sente che il confine, comunque, è vicino, compaiono con frequenza certi tizi (e tizie) grandi e grossi e con dei fucili automatici grossi così, che girano per le stazioni e sui treni che scavallano. Se son blu, son tedeschi, i francesi son camuffati. Non che facciano controlli o altro, si fan solo vedere. E non è un bel vedere, a parer mio.

Non fosse che è un po’ di cattivo gusto ora, sarà fatta apposta?

Faccio un ultimo giro per Strasburgo mentre mi preparo al salto, mi spiace andare via. La mia verifica personale della città è andata bene, in centro c’è anche un negozio che affitta travestimenti e vende scherzi, di più non potrei volere da una città. Faccio un giro in libreria, compro la cartina dell’Alsazia e della Lorena – lo so, ma ho anch’io la mia età e resto fermo a certi vizi – e dò un’occhiata ai libri, alla Librairie Kléber, come le altre volte. Per stare alle cose nostre, l’unica novità letteraria italiana, che non stia cioè negli scaffali della letteratura consacrata, è Elena Ferrante e la fascetta mi fa molto ridere.

Niente Italia nell’attualità politica o nelle biografie (spiace, Meloni) o nella saggistica in vista, credo di non dire nulla di inaspettato o di offensivo se dico che siamo un paese abbastanza marginale. Te credo, se poi il nostro ministro degli esteri segue la crisi afghana dalla spiaggia e qui si interrogano su come portare via le persone da là. Ma tranquilli, siamo pur sempre importanti per il cibo, urrà, come si può apprezzare da questo volumone in bella vista appena entrati. A posto, allora.

Passato il Reno, un controllore di DB affiancato da un militare armato fino ai denti controlla con attenzione i pass sanitari o i certificati e fotografa tutti i documenti, verificando anche qualcosa che non capisco. E sì che in Germania non hanno grossissimi problemi di contagi o, anzi, forse è proprio per quello che controllano con attenzione. Ovviamente c’è un problema con una donna nera con bambino, il biglietto ce l’ha, non capisco se il punto sia sanitario ma controllore e soldato paiono calmi e leali, lei non sembra spaventata ma in qualche maniera la fanno scendere. Il treno risale il fiumone e prende la linea che ho fatto tante volte, per Francoforte, Wiesbaden, Magonza, Mannheim, Heidelberg, Worms. Non sono però mai stato a Karlsruhe, lì in mezzo e, dunque, è lì che vado. Ma non è che ci vado perché manca all’album e basta, c’è una cosa che voglio vedere: la città in sé. Karlsruhe è una delle ultime città ideali costruite su un’idea e la forma della città è tutta da vedere.
Fino al 1715, la presenza umana in zona si era limitata a un paio di fornaci romane per la cottura dei mattoni e poco altro, mica per pigrizia ma perché qui si è in piena fossa renana, il che fa certamente sì che sia una delle zone più calde della Tedeschia ma anche che vi sia un’umidità d’estate che la stessa pro loco definisce ‘opprimente’. I certi chiamati Romanes non ci hanno pensato un attimo a evitare la zona, e anche l’homo heidelbergensis è andato più su. Nonostante ciò, nel 1715 Carlo III Guglielmo, margravio di Baden-Durlach, decise di costruire qui il suo palazzo e, di conseguenza, una città. Sognò un sole, raccontò, che irradiava raggi da ogni direzione e questo lo ispirò: fece costruire un palazzo con al centro una torre dalla quale si dipartono trentadue strade, a sud, e viali a nord nel bosco, per tutta la circonferenza del perimetro. Magari accludo incisione del 1721 che si capisce meglio.

Ma non si fraintenda tutta la faccenda del sole e dei raggi, non è tutto culto personale del margravio. Certo, è dal principe che certe illuminazioni provengono, ma Carlo III propugnò valori come la libertà personale, la libertà economica, l’uguaglianza davanti alla legge, la partecipazione politica che avrebbero caratterizzato epoche ancora da venire, si fece anche promotore di una costituzione avanzata che tutelava la libertà e la dignità dell’individuo. Mica poco. Certo, poi tutto qui era un po’ a sua misura, tutto si chiama Carl-qualcosa, d’accordo, c’è il Carl-lago davanti al Carl-bosco, e la Carl-piramide e appunto Karlsruhe. Mi ricorda quella vignetta di Quino in cui tutti gli abitanti della città hanno la faccia del fondatore, di cui si vede la statua.

La Carl-città vista dalla cima della Carl-torre del Carlstello.
La Carl-mappa del Carl-centro della Carl-città.

Certo, una volta visto il Carlstello e le geometrie attorno non è che ci sia poi moltissimo da vedere, in fin dei conti tre secoli fa qui era davvero tutta campagna, signora mia, ma la città non è irrilevante di suo: sede di tutti i dipartimenti della giustizia federale tedesca, è un polo tecnologico importante, la prima email tedesca partì da qui, c’è persino il KIT (Karlsruher Institut für Technologie) ed è riconosciuto il ruolo della città nella spinta all’integrazione europea. Anacronisticamente, in centro tra la Carl-stazione e il Carlstello c’è un enorme Carl-zoo, come se ne facevano tanti una volta nei parchi dei monumenti cittadini. Mah, sembra una cosa così datata, è pur vero che è pieno pieno di bambini contenti ma insomma, dalla recinzione vedo un pezzo pieno di bambi e di giraffe e non è che metta tutta questa allegria.
Mi scrive l’albergo ma di solito non leggo nulla, tanto sono comunicazioni standard. Quando ci arrivo, è tutto spento, non c’è nessuno, nessuna luce, suono il campanello e niente. Vabbè, mica sono uno che si agita, valuto alcune opzioni tra cui leggere la loro comunicazione: a causa del Covid, blablabla, check-in automatico, blablabla. Mi accorgo di avere a fianco una specie di bancomat che mi guarda, seleziono una lingua non-tedesco e non-ubanji primordiale, ella desidera prima fare una scansione del mio documento, agevolo, e poi da sola collega il documento alla prenotazione, mi magnetizza una chiave e me la consegna, con ricevuta. Beh, grazie, macchina. Entro ed è deserto. Potrei, che so, dare via le camere gratis, farmi cinquanta caffè al bar, correre per le scale urlando, invitare degli amici, Carlo, Carlo e Carlo. Ma poi non faccio niente, se no sarei sempre il solito italiano. Ma son proprio solo nell’otello.
Poi vado a cena e tutto è come lo avevo lasciato: vai all’ora che vuoi, birra che non devi dire altro, piatto del birraio, insalata allato, siediti dove ti pare, trenta secondi netti e tutto è come deve.

Non lo so, amici, perché son stato lontano così tanto, sono un pazzo, amici, non lo farò mai più, mai più.


L’indice di stavolta

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno nove. Sale d’attesa, intercity, vivere meglio, cose mie, l’emozione di un progetto reale.

Primo giorno con cielo nuvolosetto, vado a Strasburgo. D’altronde, essendo stato in Lorena era un po’ d’obbligo andare in Alsazia. Non per me, per loro, per non fare differenze, per non scontentare nessuno.
E poi è un buon passaggio per il di là, ciò che sta a est del Reno.
Ma prima, questo.

È la sala d’aspetto della stazione di Metz. Ci sono seduto ora, mentre scrivo queste due cose, in comoda poltrona. Ci sarebbero anche i tavoli, illuminati e con prese elettriche a iosa.
Sia chiaro, non è che tutte le stazioni francesi siano così, non lo sono, ma è l’approccio generale a essere radicalmente diverso: qui la stazione ti accoglie, si presume giustamente che, magari, ci dovrai passare del tempo, quindi ci sono posti per sedersi, servizi, comodità, va detto che non sempre c’è un bar o un’edicola ma quasi. Ed è un posto pulito e soprattutto aperto, chiunque vi può entrare e accomodarsi, anche senza biglietto. Un signore cui con evidenza manca la casa sta mangiando un panino tranquillo in una poltrona in fondo, come è giusto che sia. Oh, intendiamoci, un paio di tizi grandi e grossi di SNCF Sécurité che girano per la stazione ci sono ma non fanno discriminazioni per aspetto o censo, puntano chi fa casino. Se ne può discutere, certo, non è che da noi i poliziotti non ci siano.
Se, come sto facendo io, fate un veloce paragone con la stazione della vostra città o che frequentate, l’aggettivo che viene in mente è, direi, ‘impietoso’ nella maggior parte dei casi. Ora, non sarò certo io a fare l’apologia dei franzosi o, men che meno, dei tedeschi, non ci penso proprio. Invidio loro, però, un certo qual funzionamento di base, le cose elementari del vivere civile, né di destra né di sinistra, che dovrebbero essere ovvie ma che da noi non lo sono. Stazioni, appunto, mezzi pubblici, parchi, piazze, panchine, informazioni, servizi pubblici, pulizia delle strade, manutenzioni, gente che si ferma alle strisce, piste ciclabili vere, parcheggio non selvaggio, cose così, niente di difficile. Poi, magari, se in Germania sbagli una firma su una pratica ti deportano, certo, ma a servizi di base tra loro e i francesi sono un bel po’ più avanti di noi. E io, confesso, li invidio parecchio.

Strasburgo, dicevo. Un’altra cosa, prima. Anche la Francia ha puntato sull’alta velocità, per cui i TGV sono belli e comodi, il costo più o meno simile ai nostri. Il trasporto locale è demandato ai dipartimenti, diciamo alle regioni, per cui la maggior parte delle volte capitano dei regionali belli e nuovi, talvolta scadenti e decisamente da ravvivare. Ci sono poi gli intercity, loro li hanno ancora, che essendo sovradipartimentali fanno mediamente schifo. Sono i nostri vecchi intercity, intendo i vagoni, esattamente ancora quelli, con le tendine luride. Esistono però gli intercity privati: costano meno, ma parecchio, sono piuttosto belli, fanno tratte dirette e non sono presenti in tutto il paese. Cioè tutto quel segmento che da noi è sparito e, lo ricordo bene, che qualcuno ha provato a riproporre, prontamente ucciso in culla da Trenitalia. Vado a memoria, qualche anno fa un imprenditore piemontese aveva presentato un progetto per una linea intercity tra Torino e Milano, mi pare, il cui biglietto era una cosa tipo sei, sette euro, e vaneggiava addirittura di un minimarket sul vagone per i pendolari tardivi. Naturalmente Trenitalia pose tante e tali condizioni, il treno avrebbe dovuto metterci più di un’ora e mezza, fare almeno sei fermate, il biglietto costare più di quindici euro, nessuna corsa in determinati orari, che l’imprenditore abbandonò il progetto. Poi, in cabina elettorale, tutti liberisti, eh? Nel frattempo, qui fuori è così.

La mia amabile compagnia telefonica mi ha appena avvisato, dopo solo nove giorni, che sono in Francia e che posso effettuare telefonate alle stesse condizioni di casa. E mandare anche SMS. Grazie, tempestivi, proprio ora che esco.

Strasburgo è una delle città in cui vivrei subito, senza condizioni (sono qui per verificare ancora, le altre sono Monaco di Baviera e, con qualche riserva in più, Lione). Primo perché è una città magnifica, ricca di storia e moderna, vivace culturalmente, è sede per dire di ‘arte’, il canale culturale franco-tedesco, miscuglio e via di mezzo tra francesi e tedeschi ed espressione diretta dell’Unione Europea con il parlamento, tradizionale con i quartieri sui canali e con le case a graticcio e i palazzi rinascimentali, oltre a una cattedrale gotica colossale, contemporanea nelle istituzioni e nei settori produttivi. Si sta inoltre ragionando (cioè, stanno, mica noi) su una possibile amministrazione sovranazionale congiunta per la zona di Strasburgo e, di là, dell’Ortenau, il primo Eurodistrict. Se non è emozionante questo, non so. Poi perché è in una posizione comoda, al centro di parecchie linee veloci, per cui è possibile raggiungere con facilità buona parte dei luoghi d’Europa. Mica poco, tutto insieme. Dico questo per dire che ci sono già stato più volte e ogni volta ci torno volentieri, guardandomi attorno per individuare la casa in cui mi piacerebbe stare. Per cui, per il minidiario di oggi, per parlare dei canali, dell’europarlamento, di Goethe che si distrasse talmente il posto è bello, di tutto quanto, rimando a quanto ho scritto nel 2008, confermo tutto. Per chi ne avesse voglia, è qui, l’8 e il 9.

Io ne approfitterò oggi, a seconda anche di quello che accadrà poi, per raccontare alcune cose generali che non ho raccontato finora. Così, folklore e costume personale di piccolo cabotaggio. Chi non vuole, abbandoni qui, non mi offendo.

La questione della lingua.
Mi sono imposto, stavolta, di parlare francese. Che è una lingua che non possiedo nemmeno a livello superiore ma a quello delle medie, quindi male, ma che ci vorrà mai? Mica devo tenere conferenze contro la dittatura sanitaria o sul gotico radiante. E così è stato, ho recuperato le quindici frasi fondamentali, le cento parole imprescindibili e via, anche quando ci avrei messo cinque secondi a spiegarmi in inglese – e qui lo parlano tutti, pure meglio di me – niente, coriaceo, francese. A parte un giovane uomo a Reims che si è smarronato a fronte delle mie costruzioni incerte (ma secondo me era inverso per fatti suoi), è sempre andata bene. E ho imparato un centinaio di parole nuove, fino a guttes pour les yeux, quindi a questo ritmo dovrei riuscire a sostenere una conversazione decente in cinque anni. E ad avere una pronuncia che somigli meno a quella di un bonobo ubriaco di Réunion.
A margine della questione, era tempo che desideravo stare in un posto in cui non afferrassi la lingua, così da non captare nemmeno per caso le conversazioni altrui e azzerare il rumore di fondo su vaccini, green pass, leghisti e meloniani. Tra l’altro, così sembrano tutte bravissime persone.

La scrittura. Peggio delle ragazzine.
Complice l’evoluzione dei telefoni, ora è possibile con una certa comodità gestire dal telefono non solo le fotografie, il ritaglio, la diminuzione di peso, ma anche l’inserimento e la pubblicazione dei post su un blog, come accade a me. E, di conseguenza, anche la scrittura. Per la prima volta, quindi, invece di cercare una panchina a un certo punto della giornata e sedermi concentrato col portatile a scrivere tutto quanto, ho scritto man mano sul telefono, risistemando e pubblicando a sera inoltrata in camera col più comodo notebook. Ma il grosso l’ho fatto col telefono. Confesso. Come le autrici tipo quella di After, Anna Todd, bestseller scritto tutto col telefono, quadrilogia lunghissima, ecco: anch’io. Dopo averle derise, sono diventato come loro. Anzi, nemmeno, io di copie ne vendo zero. Il vantaggio per me è stato diluire il lavoro durante il giorno e poter scrivere man mano che mi venivano in mente le cose, lo svantaggio è stato certamente una qual perdita di sintesi, coerenza e omogeneità. Che dire? È comodo, altroché, e poi mi son portato due chili in meno in giro tutto il giorno, ordine del dottore. Ora digito velocissimo, come gli adolescenti.

I luoghi della scrittura.
Eh, potendo scrivere ovunque, ho scritto in treno, sotto le piante, sulle rive dei fiumi, in pullman, al bar, al museo, in stazione, in coda per un negozio, sui gradoni dei teatri romani e così via. Mai, mai, mai a letto, il mio papà avrebbe fieramente disapprovato. Ho scritto anche, lo confesso, occasionalmente durante qualche blanda crisi mistica sul fondo di qualche chiesa, ma solo se vuota. Perché, non vorrei essere irrispettoso, sono freschissime e si sta una meraviglia. Eh, lo so.

Di telefoni, frutta e calamite parlerò un’altra volta, altrimenti qui viene fuori una geremiade. Piuttosto, più importante. Mi son fatto la mia camminata di mezz’ora, un piccolo pellegrinaggio, al parlamento europeo.

Dieci anni fa si entrava liberamente, bombaroli stronzi. Comunque, dopo un piccolo controllo entro e faccio il giro dei visitatori. Ovviamente è deserto, è agosto, e io mi scuso mentalmente con tutti quelli che incontro per Tajani. Poi arrivo all’aula, quella delle plenarie, ci danno un’audioguida ma io non ascolto per davvero e penso a tutta quella merda nazista, a Praga, a Budapest, a piazza Fontana, al maggio francese, a Simone Weil ai cancelli di Auschwitz, a Ventotene, alla Resistenza, ai compagni cechi che uccisero Heydrich, alla guerra nell’ex-Jugoslavia, ai colonnelli greci, all’Algeria, alle olimpiadi di Monaco, alle BR e alla RAF, a Willy Brandt in ginocchio.

E a pensare di essere arrivati qui, lo confesso, mi sono commosso. Commosso per davvero. Sono orgoglioso di vivere in quest’epoca di unione, in cui un’idea è divenuta realtà, il mio animo è sinceramente grato alle donne e agli uomini che dopo tante tragedie e difficoltà ci hanno portato qui. All’Europa unita.

Veniteci. E portateci i figli, i nipoti, gli amici. E fanculo, inglesi.


L’indice di stavolta

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno otto. La colazione perfetta, il bel fiume, i Gabali tra gli altri, dàgli al no-vax.

Per rendere doverosamente omaggio alla Scuola di Nancy e all’art nouveau, vado a fare colazione all’Excelsior.

Arredata dall’ebanista Louis Majorelle, uno degli artisti di spicco della Scuola, tutta la sala è ancora originale in ogni dettaglio, fino ai portapepe. E tutto va di conseguenza, la colazione express è un caffè con due cioccolatini, due piccole baguettes al burro e marmellata, due uova alla coque, una caraffa d’acqua. Colazione da signori, appropriato per festeggiare ferragosto e la bellezza dell’arte nuova. Ma per aggiungere perfezione alla perfezione, entra dalle finestre un’arietta fresca, tutti parlano graziosamente a bassa voce e sopra la porta c’è un piccolo monitor con gli orari dei treni in tempo reale. Ecco, uno di quei momenti perfetti cui accennavo. Signore, se devi, prendimi ora.
Ma anche i momenti più perfetti finiscono. Vado subito in cerca di altri. Prendo la strada per Metz, in senso letterale perché stamane non ci sono treni, ferragosto, si va in pullman. L’autista per accenderlo deve fare l’alcool test, soffiando in un bocchettone collegato al cruscotto. Forse si fa anche da noi, non so, non l’avevo mai visto. Magari è strafatto di coca o di sonno ma a noi importa che non abbia bevuto le birrette.
Da Nancy seguiamo la valle della Mosella verso nord, è boscosa, densamente abitata sulle basse colline che la formano, arriva come dicevo a Treviri e ben oltre, passando prima per Metz e, ma proprio volendo volendo, il Lussemburgo, girando un po’ a sinistra. Ma io non ci torno, in Lussemburgo, no no, ci manca pure il granduca delle balle e le iene bancarie, una volta mi è bastato. Che mi scoccia pure che molti importanti uffici dell’UE siano proprio lì, per una questione di mezzo. Altro paese, come il Belgio, il Lichtenstein e poi vediamo chi, che secondo me andrebbe smembrato e considerato territorio comune europeo. Così la mia amica T. potrebbe continuare a lavorarci.
La valle, anche da questo lato dell’universo (in Germania è meno abitata, è più stretta), è davvero bella, punteggiata di paeselli sul fiume davvero pitorèschi e di una pletora di casette a congiungere uno all’altro. Poi, ogni tanto, una centralona EDF, un cementificio, una fabbricona ma con a fianco un artisan boulanger che tutto rende piacevole. E un Corviale, che li fanno anche loro.

Poi basta girare un angolo, che so, ad Arnaville, ed è un vero paradiso, da starci a camminare per le colline boscose e bere vino. Anche le due cose insieme, volendo. Toh, un acquedotto romano in mezzo alla campagna, che bravi all’ente del turismo. Ma non lo dico mica io, turista beota, che è bello qui. Lo dicono in molti, tra cui Ausonio che nel suo Mosella, poema dedicato al fiume, diceva: «Salve, amnis laudate agris, laudate colonis (…) | amnis odorifero iuga vitea consite Baccho, | consite gramineas, amnis viridissime, ripas» che suona un po’ come: «Salve, o fiume, celebrato per le tue campagne, celebrato per i tuoi contadini (…) fiume che scorre in mezzo a colline piantate di vigneti che producono vino profumato, fiume dalle verdi acque in mezzo a rive coperte di canneti», scritto tra il 370 e l’anno dopo.
Qui stavano, parlando di popolazioni galliche, i Mediomatrici. Eh lo so, erano sfuggiti a chiunque, colpevolmente. Ne abbiamo alcune monete, coniate a imitazione di quelle macedoni, e poco altro, oltre alle cronache di Cesare. Il toponimo Metz deriva da loro. Ora vorrei elencare alcune altre popolazioni del paese, poi soggiogate dai certi chiamati Romanes, perché sembra di leggere Asterix: gli Edui, famosi, i Segusiavi, gli Ambivareti, gli Aulerci Brannovici, i Blannovi, gli Arverni, gli Eleuteti, i Cadurci, i Gabali, i Vellavi, sottomessi agli Arverni, i Sequani, i Senoni, i Biturigi, i Santoni (che venivano molto ascoltati), i Ruteni, i Carnuti, i Bellovaci, i Lemovici, i Pittoni, i Turoni, i Parisi (sì, proprio loro), gli Elvezi. Ne ho ancora, vado avanti? Occhei. I Suessoni, gli Ambiani, i Petrocori, i Nervi, i Morini, i Nitiobrogi e come dimenticare gli Aulerci Cenomani, gli Atrebati, i Veliocassi, i Viromandui, gli Andi che però stavano qui, gli Aulerci Eburovici, i Raurici e i Boi, noti, i Coriosoliti, i Redoni, gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Veneti, eh sì, anche loro, i Lessovi e gli Unelli. Ahah, manca solo il liocorno. Che, poi, uno dice i Galli o i Francesi, ciao.
La cosa delle popolazioni potrebbe parere peregrina, e un po’ lo è, ma Metz è stata lungamente capitale del regno di Austrasia, cioè ovviamente il regno che dai canguri arrivava su su ai mongoli, confinante con quello di Neustria, che invece andava da Vienna a New York. D’accordo, d’accordo, non è così, ma i regni sì, eccome, bisogna andare indietro ai Merovingi e ai figli di Clodoveo e lì ci siamo. Poi c’erano Teodeberto e Teodebaldo ma io non ho mica tempo di star qui a fare distinzioni sottili. Comunque sesto secolo.

Metz è uno di quei posti dove secondo me si filosofeggia bene, perché c’è il fiume, il teatro, si mangia molto bene, non parliamo del vino, se si ha un lavoro o, meglio, una rendita è uno di quei posti in cui si può elaborare un’intera piattaforma di pensiero senza troppa difficoltà, al massimo pigliando una decina di chili. Che sia buona è un altro discorso, ma quello è il problema di sempre. La cattedralona gotica c’è, in gotico classico francese e terza nel paese per altezza delle volte ma prima per estensione delle vetrate, persino Chagall ne disegnò alcune, le mura pure, i palazzi anche, i musei non ne parliamo, anche perché in città c’è il figlio diretto del centre Pompidou, il Metz-Pompidou. Meno tubolare all’esterno, è la filiazione del museo parigino, secondo un’idea che io trovo proprio buona: le opere si muovono, escono dai magazzini, garantisce il buon nome del museo a monte, come il Louvre che è il marchio più riconoscibile al mondo apre a Dubai, gli altri si muovono.

Le costruzioni si fanno più tedesche, o forse sono quelle tedesche che si fanno più francesi, tutto si mescola, i confini in queste zone sono proprio una sciocchezza, una convenzione un po’ fasulla specie sapendo che, a parte i luminosi periodi di autonomia, queste zone non hanno mai passato più di un quarto d’ora dalla stessa parte. E fa un po’ ridere De Gaulle che proprio qui nel 1945 disse che Metz aveva da sempre scelto la Francia, visto che in realtà nei settant’anni precedenti per più di cinquanta era stata una città tedesca. Mah.
È ferragosto, non è che ci siano proprio orde di persone in giro, ci sono sessantaquattro gradi e noto che in centro è piuttosto pieno di polizia in assetto antisommossa, con giubbotti antiproiettile, lacrimogeni e scudi. Vado subito a vedere, perché non voglio certamente perdermi qualche no-vax o anti-passe sanitaire preso a manganellate, non sia mai. E poi magari vado a riflettere sulla violenza politica e il diritto al dissenso in un posticino sul fiume che ho visto prima che ha certi bianchini della zona che san di minerali che li raccomando. C’è una festa sotto le piante e pure il pétanque, che è la variante anziana delle bocce ma butta via. E se poi penso molto, sicuro che sbaglio tutti i tastini sulla tastiera, meglio chiuda qui. A domani.

La costruzione a destra è un ex ghiacciaia dell’esercito di fine Ottocento. Ora ci si conservano le birrette per le feste. Meglio, no?

L’indice di stavolta

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno sette. Tutte le guerre passano da qui, atomi in campagna, l’avventuriero polacco, l’arte nuova.

Sto aspettando il regionale per Chaumont, per andare un po’ a sud e un po’ a est, e vedo alcune destinazioni sul tabellone. Sta partendo il TGV della Champagne-Ardenne, per esempio, e alla sola parola Ardenne la risposta possibile, facendo sbattere i tacchi e toccandosi la fronte, è: offensiva delle, riferisca al maresciallo Montgomery. Perché tutta la zona, qui, è stato il perenne teatro delle frizioni e degli scontri tra Francia e Germania, è il fronte occidentale dal quale niente di nuovo di Remarque, si può via via risalire indietro nel tempo e collezionare una lunga teoria di date di scontri, battaglie e offensive, passando per la guerra dei trent’anni e giù giù fino ai Merovingi e, ancora, a Cesare. Alla fine il toponimo deriva da Arduina, la dea gallica della caccia che si muoveva a cavalcioni di un cinghiale. Allo stesso modo è sempre qui l’Argonne, altra zona di confine teatro di perenni movimenti di eserciti, come l’offensiva della Mosa-Argonne, durante la prima guerra mondiale. Noi italiani, per comodità, la chiamiamo ‘le Argonne’, così la mettiamo insieme con ‘le Ardenne’ ma è singolare. Una è una catena collinare, l’altra una zona.
A un tiro di schioppo da qui e destinazione di un altro regionale è Sedan, nota per lo stesso tipo di vicende. Fu lì che i prussiani sconfissero completamente l’esercito di Napoleone terzo, catturarono lui e centomila soldati e buona notte impero, benvenuta repubblica. E tutta l’Alsazia, Metz e Strasburgo divennero prussiane. Fino al 1919 i tedeschi festeggiavano il sedantag, il giorno in cui devastarono i francesi, per dirla con una citazione dotta sopra un’altra citazione dotta, il giorno che «venimmo, vedemmo e li inculammo». Poi, per grazia, hanno smesso, avevano poco da festeggiare.
Uno dei motivi per cui questa zona gode delle preferenze accordatele dagli eserciti è la valle della Mosa, che è un fiumone bello largo che nasce un po’ più a sud e poi, inspiegabilmente, scorre in salita verso nord tra Belgio e Paesi Bassi, fino al mare del Nord unendosi al Reno. La sua valle tra la Marne, i Vosgi e le Ardenne, è ampia e piatta, buona per fare passare gli eserciti delle guerre di una volta, quelle in cui avevi centinaia di migliaia di uomini da spostare da un punto all’altro e anche un fiume diventava un problema. Lungo il corso della Mosa c’è Verdun, quello della guerra totale, quello che non hai visto la guerra se non eri a Verdun. Vabbè, un po’ retorica bellica e molto massacro vero.
Venendo a me, vediamo se nel cambio a Chalons en Champagne riesco ad acchiappare un caffè, che questa mattina è davvero presto. E no, non lo acchiappo. Stazione troppo piccola per avere un bar o una macchinetta e fuori c’è il niente, niente niente. Cambio e prendo il treno per Luneville perché sto andando nel dipartimento della Meurthe e della Mosella, che una volta a scuola noi chiamavamo Lorena, senza mai sapere bene dove fosse. Perché tutte le volte che c’era una battaglia o una guerra, l’Alsazia e la Lorena cambiavano di proprietà. Ma chi le aveva viste mai?
Io sto invece seguendo la Mosella, che è un bellissimo fiume placido che avevo già incontrato a Treviri, nella sua valle incantevole, zona di vini delicati e di clima favorevole, e a Coblenza all’affluenza nel Reno, la città dove gli anziani spadroneggiano. Ma che bello che è qui ma che bello che è là e poi come capita spesso in Francia ecco una bella centrale nucleare nel bel mezzo dell’ameno paesaggio.

Perché loro sono così, buona parte delle centrali le hanno addossate lungo i confini, nel caso del Belgio ce ne sono un paio che sono più di là che di qua, per buon vicinato. Carini.
Siccome nella mia personale logica autoriferita a ogni privazione corrisponde una ricompensa, appena arrivo a Nancy, avendo saltato tutte le colazioni possibili, mi offro un sontuoso double espressò con una fettona alta una spanna di quelle torte al formaggio (?) che fanno loro e che pare di mangiare una spugnetta intinta nel polistirolo espanso. Mmm, merveieus, quell god’ment. Ora va meglio.

Nancy ha una sua storia particolare, non se ne ha notizia fino all’undicesimo secolo, nel senso che a nessuno era venuto in mente di vivere qui finché non se ne fece la capitale della Lorena, esattamente in centro. È nella prima metà del Settecento che fa la sua comparsa sulla scena Stanislao Leszczyński, un pingue parruccone che ebbe una vita ribalda e avventurosa che D’Artagnan, don Giovanni e Dolomieu insieme se la sognano. Prima funzionario, poi ministro del re polacco e poi, visti i chiari di luna della guerra con la Svezia, riuscì persino a farsi eleggere re di Polonia. Sempre per le alterne vicende della guerra, fu poi costretto all’esilio in Bessarabia e a guardarsi le spalle dai killer mandati da Varsavia. Attento però alle vicende del paese, riuscì nella mirabile impresa, approfittando di un altro vuoto di potere, di farsi eleggere una seconda volta re di Polonia e duca di Lituania, sciapò. Stavolta però i russi si misero di mezzo e dopo solo dieci giorni dovette scappare nottetempo da Danzica. Arrivato a Konigsberg riuscì a diventare amico del futuro Federico il grande e a inserirsi in una complessa partita politica a scacchi che coinvolgeva anche l’imperatore e poi Maria Teresa d’Austria, combinando nel frattempo il matrimonio di una figlia con, attenzione!, Luigi XV di Francia, divenendone suocero. E fu così, e veniamo a Nancy, che fu nominato duca di Lorena e di Bar in quota francese. Se questa non è bravura, non so cosa sia. E fece di Nancy e della Lorena un centro illuminista, dotandola di splendidi palazzi, giardini reali, tutto UNESCO, di una biblioteca pubblica e della società di scienze. Dei quali tutt’oggi la cittadinanza si bea.

Chissà cosa penserebbe del fatto che il suo palazzo è oggi il principale centro di vaccinazione. Essendo colto, aperto, innovatore credo che avrebbe approvato, una volta capito cosa sia un vaccino. Ah, un’ultima cosa su Leszczyński: è ritenuto l’inventore del babà al rhum. Se ritenete sia una buona invenzione, il merito è suo. O colpa, al contrario.

Tutto avviene in modo molto semplice, sono tutti sempre gentili e premurosi, magari sarà di facciata ma rispetto ai musoni di casa mia mi va benone anche la facciata, mai aria di fregatura. Con dieci euro è normale mangiare un piatto con torta lorena, lorenica, lorenaica, insalata, patatine, tutto buono, acqua e caffè. La torta è una torta salata ripiena di Ciappi, scherzo, di carne varia, buona. E poi succede quello che succede sempre nel nord Europa: la signora a fianco a me, avrà trecento anni e fa un caldo bestiazza, mangia uno stinco da un chilo bollito nello strutto con crauti e patate al forno, ha una coppa dei campioni piena di vino rosso che beve avidamente, prenderà per chiudere una tarte alle pommes, forse un grappino e magari un sigaro. È un mistero, da noi il fantasma del colesterolo anima le notti di tutti, qui e soprattutto in Germania per niente. Eppure vivono. Mah. Magari la signora ha ventiquattro anni e, allora, tutto si spiegherebbe. Solo a Roma ho visto cose analoghe. La signora ansima, e te credo.
Nancy, credo si sia capito, è ricca e graziosa, ha il suo bel fiume, le sue cose a posto, manca di cattedrale faraonica – ne ha un paio medie – ma ha ciò che gli altri non hanno, palazzi e giardini semireali. E tra le cose che gli altri non hanno, una tra le più significative è la cosiddetta ‘Scuola di Nancy’, ovvero un insieme di artisti e decoratori e industriali che si unirono in nome della nascente Art Nouveau, allo scopo di portare anche negli oggetti prodotti industrialmente le arti decorative ispirate dalla natura. Arte alla portata di tutti. La scuola si produsse poi su ogni piano della produzione industriale e della creazione artistica, compresa l’architettura, ebbe grande successo all’Esposizione universale di Parigi, per cui Nancy ha dei quartieri pieni di case liberty, bellissime. C’è anche un museo, pieno di complementi d’arredo, vetrate, vasi, ebanisteria, tutto art nouveau. E siccome a me piace, vualà.

Riga, che è famosa per le sue case liberty e ne ha una ben più alta concentrazione e di bellezza maggiore, ci arrivò comunque venticinque anni dopo, a Nancy tutto nacque nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Sempre per gli appassionati. E niente, io per oggi la finirei anche qui, citando solo in conclusione un vecchio amore giovanile che, di fatto, è sportivamente e umanamente di Nancy.


L’indice di stavolta

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno sei. Rassegna stampa, i tedeschi che ancora una volta rompono, tutti i re, servizi in città.

Altri giro, altro regalo: torno a Parigi. Per fare 126 chilometri verso nord e scavallare nella Marne devo tornare sui miei passi, ripercorrere la Senna esattamente come ieri – e il regolamento di viaggio lo proibirebbe – e poi tornare su, per oltre trecentotrenta chilometri, geometricamente insensati.
Uno dei momenti più belli della giornata è per me il mattino presto. Già in generale, ancor più in viaggio, perché tutto è ancora aperto e possibile, il tempo è molto. Generalmente, in viaggio questo bel momento accade a tiro della stazione, o su una panchina o in un parchetto vicino, in attesa di un treno. Magari ho recuperato un caffè, un espressò à emporter, magari ancor meglio anche un croissant per potermi poi più sanamente dopare, e seduto al primo sole, di solito in compagnia solo di qualche errante qua e là, mi pregusto ciò che sarà. I momenti perfetti, poi, durante il giorno saranno più di uno ma questo del mattino ha una sua propria quiete e offerta di promesse che è piuttosto speciale.

La Gare de Troyes réalisées par trivigante
La Gare Saint-Lazare réalisées par Claude Monet

Mi preparo al viaggio e compro della stampa, le Monde, Libération, Le Canard enchaîné. Sono tutti sottilini, un terzo delle pagine che ricordavo, tutti e tre insieme fanno il volume di un giornale di tempo fa. E allora qualche aggiornamento sulla situazione sanitaria, tralasciando il delirio per Messi al PSG, che è una roba solo parigina e qatariana. Dunque. Sono 38 milioni i vaccinati con doppia dose, 45 contando anche le prime, si procede al ritmo di seicentomila vaccinazioni al giorno. Ci sono 1745 persone in rianimazione a oggi, 33 nuove ieri, direi che è una tendenza simile a noi. Il 95 per cento dei ricoverati non è vaccinato. Una cosa particolare è la preoccupazione per i dipartimenti d’oltremare, Martinica e Guadalupe, dove i vaccinati sono circa il diciotto per cento e la pandemia impazza. A Parigi meditano un lockdown totale, le polemiche paiono essere parecchie per l’isolamento di quei territori rispetto alla madre patria, diciamo. In generale, si parla di quarta ondata e io, francamente, ho perso il conto. Non raramente, viene espresso un certo stupore (è fastidio, in realtà, si sente) su come la Germania, invece, stia sorprendentemente contenendo i contagi, diversamente da Spagna, Francia e Italia.

Cari franzosi, la risposta è semplice: i tedeschi sono tutti da noi, sul lago di Garda. Quindi, nessuno a casa, niente contagi. Impestando, invece, le statistiche italiane.
Comunque, ed è sorprendente per me italiano, le prime otto pagine (su venticinque!) di le Monde sono dedicate alle vicende internazionali, Israele, Sudafrica, Polonia, Germania, Stati Uniti, Pakistan, Cina, Argentina, Canada, e con articoli veri, non trafiletti (solo uno, dedicato alle elezioni bulgare ma tanto si sa come votano lì). Macron appare a pagina nove e io questa cosa la trovo sacrosanta, da noi il contrario. Sta più o meno diventando una rivista. Il Belgio sta trattando la restituzione di quasi un migliaio di beni culturali al Congo.

Reims è davvero magnifica. Aperta, luminosa, con strade ampie coronate da palazzi decò e perfettamente francesi, intendo a cubotto con le finestrone in pietra gialla, oppure più strette e affiancate da case mediev… no, quelle no. Reims detiene il poco invidiabile primato di essere stata bombardata ininterrottamente per quattro anni dai tedeschi durante la prima guerra mondiale. Sai quando i tedeschi si mettono in testa una cosa? Ecco. Per questo motivo, molte costruzioni sono degli anni Venti e Trenta, c’è un Operà decò di cui resta solo la facciata che è una vera meraviglia (la metto sotto). Molto andò distrutto, è chiaro, ma anche molto ricostruito, ampliando gli spazi e guadagnando in vivibilità. In centro molto è sistemato e dà proprio quella sensazione che si ha in Francia e Germania, di un rapporto equo tra tasse e servizi. È pieno di mezzi pubblici, anche quell’elegante tram francese senza fili ma con i soli binari, di panchine, di parchi, di luoghi dove svagarsi senza dover consumare. In alcune zone pare persino un plastico, tanto è ordinata e a postino.

Oltre alla Reims romana, di cui rimangono un bell’arco di trionfo triplo, novità, e un enorme criptoportico, oltre alla città decò e art nouveau, la vera protagonista della città, e son tre di fila per me!, è la cattedrale. Ovviamente gotica, flamboyant a tratti, e ovviamente intitolata a notredàmm. I franzosi non hanno ancora capito che possono intitolare le cattedrali a chi vogliono, non solo alla signora, ma vabbè, così è più comodo per o turisti che hanno la frase già fatta: ouèleglisdenotredàmm? Comunque non è solo una cattedrale enorme, imponente sulla città, ma è LA cattedrale dei re, e con ‘dei re’ intendo tutti i re. Chiunque vi venga in mente tra Luigi il Pio (816) e Carlo decimo (1825), passando per tutti i Luigi e per Carlo settimo accompagnato da Giovanna d’Arco, è stato sacré, incoronato, qui. Perché Clodoveo fu battezzato in questo luogo da san Remigio, quindi si vuole dare a intendere continuità. Poche eccezioni. Un po’ come il duomo di Monza da noi, a voler cercare un’analogia un po’ tirata. E alcuni di loro, i re intendo, sepolti nella non lontana cattedrale di San Remi, che poco ha da invidiare quanto a grandezza e bellezza.
Alla fine della seconda guerra, invece, i tedeschi firmarono la resa proprio qui a Reims, il 7 maggio 1945. Però i russi non c’erano e allora si rifece la cosa in modo più ufficiale il giorno dopo a Berlino, in favore di fotocamere. Ma perdio, fu qui, madonna come gli sta bene. Poi, ovvio dirlo, Reims è famosa per lo sciampàgn. Lo dico per gli ignoranti come me sul tema, si può chiamare sciampàgn solo il vino prodotto in una fascia qui vicino lunga trecento chilometri e larga cento, il resto è, che ne so?, Franciacorta. Sciampagnino. Ahah, ecco gli insulti. Comunque, qui in città ci sono le cantine di quei nomi che abbiamo sentito tutti e c’è parecchia gente che viene qui per farsi tutto il giro o quasi. Mah, sarà bestemmia ma a me piace fermo. Un bicchiere ogni tanto, neh, che mia mamma legge.

Ma figuriamoci se mi metto poi, io, a discutere se si viva meglio in un paese piuttosto che un altro, se si stia meglio qua o là, se sia preferibile uno o meno. Tolto il fatto che certo che come si mangia in Italia, il resto è da vedere. In questo momento io sono su una seggiolina, provvidenziale, all’ombra e scrivo queste righe, a fianco a me c’è un signore che sta bevendo la sua dodicesima birra in lattina lunga, ha il telefono con il volume dei tasti più alto del mondo e li sta evidentemente schiacciando a caso e, intanto, fischietta bella ciao. Beh, potrebbe andare peggio. Ah, e siamo entrambi all’ombra del conservatorio, questo qua.

Da una mia indagine men che sommaria, si trovano appartamenti in affitto abbastanza grandi, sistemati e arredati, in centrissimo, tra i quattro e i settecento euro/mese. E l’aggettivo di Reims non è reimsiano ma rémoise. Così, a qualcuno interessasse.


L’indice di stavolta

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno sei. Appendice di protesta.

Ritenendo la pratica del cashback sciocca, diseducativa, paternalistica, non avevo aderito. Scopro però oggi che per i propri correntisti Poste l’ha attivato automaticamente e lo scopro perché sono arrivati i soldi. E allora, caro Conte, oggi a Reims scorreranno fiumi di sciampàgn alla facciazza tua, con lo stile delicato di un oligarca russo già ubriaco. Salùt*.

*Non è vero. Si dovrebbe fare e non dire, lo faccio, ma questa è una protesta. Ritirato l’importo, suddiviso in cinque parti uguali e data ciascuna a una persona di Reims che sembrava averne bisogno. Perché lo dico? Non per farmene vanto, non ho alcun merito in questo, lo dico perché sono soldi pubblici male usati per una misura inutile. Sappiate, dunque, che anche grazie a voi ci sono cinque persone a Reims ragionevolmente sorprese, oggi.

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno cinque. Parigi, sempre Parigi, le cose che ora so sulla seta, Urbano IV figlio di scarpolino, il coccodrillo attaccato a caldo.

Ecco, lo sapevo. Il solito problema dei treni in Francia.
Spiego: tirata una linea retta orizzontale più o meno a metà del paese, diciamo che passi da Bourges, proprio dove sono io ora, a sud si prende un treno per la destinazione che si desidera, al massimo si fanno due o tre cambi e bon, viaggio fatto; a nord no, per fare cento chilometri tra un posto e l’altro tocca farne quattrocento per passare da Parigi. Alla faccia del centralismo. Non è tanto per dire, non c’è altro modo: tutte le linee ferroviarie sono a raggiera da Parigi e per andare, faccio per dire, da Cremona a Piacenza tocca passare per Milano. Anche le strade principali lo sono, basta guardare una mappa. Oppure, ma non sono così convinto, potrei comprare un’auto e andare velocemente dove devo, ma non sono sicuro di voler possedere una Renault o una Peugeot o una Citroën (antifranzosismo gratuito). Che faccio, rubo?
Quindi, per fare i 256 chilometri tra Bourges e Troyes che desidererei fare oggi, devo fare i 433 tra Bourges e Parigi e Parigi e Troyes, con comodo cambio di stazione a Parigi tra Austerlitz e l’Est, cinquanta minuti di tempo. Si fa, per carità, e lo farò, ma tutto ciò è davvero centralismo non democratico che mal viene accettato da un compagno italiano in visita di cortesia politica con buona disposizione d’animo.
Qui il passe è necessario anche all’aperto, devo dire che lo chiedono abbastanza, mai con la carta di identità – devono aver raggiunto un accordo anche loro – e raramente fanno finta di niente, una sola volta è bastata la mia risposta positiva. Il fatto di richiedere la certificazione anche per gli spazi all’aperto dei ristoranti, li costringe a cintare, in qualche maniera, l’area, così da fare entrare tutti da una sola porta e controllare. Ieri sera, per dire, ero in una brasserie in piazza e il gestore aveva tirato una corda tutto attorno ai tavoli, effetto curioso. Mi pare senza grandi polemiche, a parte una scritta su un muro di Lione che denunciava la dittatura sanitaria, non ho visto né sentito nulla, finora. Nei negozi e sui treni locali non lo chiedono, ovunque ci si sieda, ovviamente musei, alberghi, e tutto il resto. Che, alla fine, è anche più semplice, si tiene il passe sempre aperto sul telefono e si mostra ovunque, senza stare a far troppe distinzioni.

(Occhio, tirata). Fedele alla mia funzione di servizio e a quanto promesso ieri, ecco cosa ho imparato sui bachi da seta. Il tutto parte da una farfalla, la Bombyx mori, la bombice del gelso, che produce circa cinquecento uova e poi, indovinate?, muore, esatto. A noi come specie ci è andata di lusso, altroché. I bachicoltori raccolgono queste uova con grande cura, dato che mille pesano circa un grammo. In poche settimane, in primavera, le uova si schiudono e i bachi appena nati cominciano a fare una cosa sola: mangiare. Non hanno occhi, manco si muovono ma i bastardelli sono pretenziosi: vogliono solo foglie di gelso fresche. Ho detto fresche! La rugiada dev’essere appena evaporata e possibilmente dovrebbero essere servite ogni mezz’ora. Va da sé che in questo periodo il bachicoltore e la sua famiglia sono al completo servizio degli infanti, fanno i turni per dormire perché questi mangiano ventiquattro ore su ventiquattro, a volte lasciano la casa ai bachi per dormire nel fienile. Perché poi gli stronzolini defecano pure ma amano la pulizia, quindi serve qualcuno che. Inoltre, sono suscettibili e possono morire per un niente, scarsa igiene, un rumore forte, un odore intenso, un cambio di temperatura. Eh, coraggio.
Fatte le mute e aumentato il proprio peso e dimensioni di migliaia di volte, il baco smette di mangiare e comincia a filare: per tre giorni ininterrotti secerne fibroina sotto forma di due lunghi fili, che unisce subito con la sericina, sostanza prodotta da un’altra ghiandola e che incolla i due fili al contatto con l’aria. Man mano, il baco si avvoltola nel filo facendo un perfetto movimento a otto. Se le cose andassero poi secondo natura, dopo dodici-sedici giorni dalla crisalide uscirebbe una farfalla e il ciclo avrebbe senso. Invece, accade questo: siccome la sericina, o colla della seta, si scioglie in acqua calda, i bozzoli vengono immersi in acqua bollente o sistemati sopra vapore acqueo caldissimo, ovviamente muoiono, e il bachicoltore può a questo punto dipanare i fili di seta. Essi vengono poi immersi in una soluzione di sapone, sodio e altri ingredienti a seconda della preparazione e poi stesi ad asciugare al sole. Un solo bozzolo può contenere addirittura fino a quattromila metri di filo, pazzesco!, ma solo un quarto circa è filo resistente e integro. Comunque pur sempre un chilometro. Con il resto si fanno tappeti o prodotti meno nobili, con la seta migliore gli scialli e i vestiti. La seta è bianca, poi va ovviamente tinta ma questa è un’altra storia.
Siccome a Lione e Vienne ho letto molte volte di come la zona fosse specializzata nella produzione della seta, ho approfondito. Ma non è mica vero, come scrivono spesso, che in epoca romana fossero centri di grande produzione, i certi chiamati Romanes la seta la conoscevano perché avevano rapporti commerciali con l’Oriente ma non la sapevano mica produrre. Era un segreto cinese molto ben custodito fin dal quattromila avanti cristo e tale rimarrà fino al tredicesimo secolo, quando cominceremo a produrla anche in Europa. E allora sì che Lione diventerà un centro ricco specializzato nella produzione delle sete e il Cinquecento sarà un secolo d’oro, anche in senso letterale.

Da Parigi, con cambio veloce di stazione e occhiata ancora più veloce alla città (tutto a posto, non hanno bruciato altre cattedrali), prendo il treno per Troyes. Il quale segue diligente il corso della Senna, passo passo. Infatti, non fosse chiaro, tutte le fermate sono qualcosa-sur-Seine. Ma siccome la pendenza qui è pari a zero, il fiume tende a fare moltissimi gomiti e, ogni tanto, a saltarne uno o due. Oh, c’è gente che ha studiato una vita per capire come mai i fiumi facciano i gomiti, la cosa è seria. E non ne siamo ancora del tutto sicuri. Al centro di questa pianura, che poi è la Champagne, amministrativamente Aube, c’è Troyes, crocevia da sempre di alcune vie di comunicazione importanti, quale per esempio un ramo della via di Agrippa che da Milano conduceva al mare del Nord. Chiaro allora che da qui siano passati quasi tutti, tranne me finora. Dagli immancabili romani fino a Ezio che sconfisse Attila e gli Unni qui vicino, ai famosi Campi Catalaunici, e tutt’e due erano agli sgoccioli e non lo sapevano, a Giovanna d’Arco con re Carlo, a Napoleone uno e Napoleone tre, ai tedeschi e agli alleati. Senza dimenticare Chrétien de Troyes, che però si trovava già qui, pare, fondamentale per chi si occupa di letteratura medievale perché unì i cicli dei paladini a quello del sacro Graal, fondando una tradizione di racconti secolare. Oltre a essere molto bravo e piacevole da leggere, naturalmente. Anche Abelardo ed Eloisa fecero i birichini a Troyes, lui fondando l’oratorio del Paracleto e lei facendone la badessa.
Insomma, la città è piccoletta ma densa di storia e monumenti, il taglio esatto per questo tipo di viaggi. C’è la cattedrale goticona imponente, e sono due per me, qui con una torre campanaria sola – non era raro che finissero i soldi o la spinta vocazionale – e con all’interno la testa di Bernardo di Chiaravalle, perché Clairvaux e Citeaux, vedi scuola dell’obbligo, non sono lontane. Altrettanto interessante, e qui prosegue il breve corso sul gotico iniziato ieri a Bourges con il gotico fiammeggiante, è la chiesa di Sant’Urbano. Il figlio di un ciabattino di Troyes diventò papa Urbano IV nel 1261 ed è una bella distanza da qui, assicuro, arrivare a San Giovanni a Roma. In realtà, ciabattino lo dice lui, pare fosse uno stimato artigiano calzaturiere. Benestante. Comunque, Roma è lontana lo stesso. Lui, paraculo, regalò ai Francesi il regno delle due Sicilie (così dicono qui ma non è andata proprio così) e per questo motivo qui lo adorano e a noi sta un po’ storto. Per celebrarsi, fece costruire, appunto, la chiesa di Sant’Urbano sul luogo in cui sorgeva la sua modesta casa di figlio di ciabattino, e non sfuggirà il senso dell’intitolazione. Per finire la storia, lui morì prima che fosse finita, una badessa di qui che non ricadeva sotto la giurisdizione papale e che doveva avere dei motivi pare l’abbia fatta bruciare ancora a metà cantiere, insomma ci volle un po’ per finirla (1905, ahah). Comunque, è un magnifico esempio di gotico radiante (rayonnant), che è la fase intermedia tra il gotico classico e quello fiammeggiante (flamboyant), cioè quando gli elementi architettonici, colonne e archi, si assottigliano, facendone una struttura più leggera alla vista che pare tendere ancor più in alto. Per dare un livello alla cosa, gli appassionati del mondo del gotico vengono da ogni parte del mondo per vedere questo esempio perfetto di gotico radiante. Posso non mostrarvela? No, certo che no.

La città, come dicevo, è piccola e graziosa, ben tenuta in centro, ricca di vicoletti tra le strette case a graticcio e di chiese e bei palazzetti, è certamente meta di turismo ragguardevole. Oggi è difficile dirlo, ci sono trentacinque gradi e non ci sono giapponesi in vista (a proposito di caldo: tutti morti lì in Italia? Almeno a leggere i titoli di giornale…). Appena fuori, però, l’aspetto complessivo è un po’ più, come dire?, sgarruppato, fané, delabré, scassé.

Molti alberghi in case storiche chiusi, bar e ristoranti segno di un’epoca di gloria decisamente superiore che, al momento, fatico a capire quale possa essere stata, di certo non questa. Poi, chiacchierando con un paio di vicini di birretta (l’ha detto Tg2 salute di bere liquidi) loro mi chiariscono la cosa: a Troyes è nata la Lacoste. Ed era qui fino a qualche decennio fa, fabbrica e vendita. Accazzo, dico io nel mio francese (acàsze) alzando molto le sopracciglia. Già, poi è andata a Parigi per finire poi oggi a chissà che gruppo. Eh, ora è più chiaro.
E comunque nel 1935 il Vaticano ha restituito il corpo di papa Urbano IV a Troyes, poi sepolto con modestia nella sua chiesa sua sua, e siccome quelli non regalano mai niente qualche motivo ci sarà stato. Anche solo che ci stava sulle balle, quello, lontano di Francia che non c’entrava nulla con le nostre cose e scelto durante un conclave assurdo che non si riusciva davvero a sceglierne uno e lui, quasi, passava di lì per caso.


L’indice di stavolta

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno quattro. Il binario giusto, gli acquitrini, pensi Borgogna e già senti il gusto di un rosso pastoso.

Una fetta significativa dei viaggi zaino-in-spalla è fatta dalle attese. Nei parchi, al bar, più che altro nelle o attorno alle stazioni. C’è un mondo che gravita lì, di giorno e di notte, per via dei servizi, degli spazi accessori e di tutto ciò che un flusso continuo di persone comporta. E così, per via di una coincidenza lunga o dell’anticipo del viaggiatore, capita di passare parecchio tempo in attesa. Il jingle delle ferrovie francesi – quattro note, lo si può sentire all’inizio di Rattle that lock di David Gilmour – viene ripetuto prima di ogni annuncio e dopo un quarto d’ora assomiglia a una tortura cinese di privazione del sonno. Spero che chi l’ha composto sia iscritto alla SIAE francese.
Buona parte dell’anticipo è dovuta al fatto di non conoscere il luogo, ovvio. Bisogna prima trovare la stazione, orientarsi, capire da dove si accede ai binari e come. Capisco che detta così sembri una banalità ma non è mica vero: per esempio, stamattina, dovendo partire dalla stazione di Lyon Perrache, io mi sono appropinquato con buon anticipo a quella che è a tutti gli effetti la stazione, per scoprire poi da dentro che da lì partono metro, tram, bus e che i treni invece sono in un altro pezzo di stazione alla fine di un corridoio chilometrico. Scoperte che possono costare il viaggio. E i binari? In Francia i binari, le voies, sono indicate dalle lettere e non dai numeri. Ma non in ordine alfabetico, per cui magari ci sono A, G, X, M, mentre B, C, D, E che sono ad alta velocità sono da tutt’altra parte. F, che so, non pervenuto. Ah. Poi i binari sono segmentati e ogni segmento è indicato con… una lettera. Scritta bella grande, più grande della lettera del binario, magari uguale alla lettera di un altro binario, per cui non è raro far casino. Io. In Germania, invece, i binari sono numerati ma segmentati con lettere e loro sono usi far partire più treni dallo stesso binario, quindi devi beccare il segmento giusto all’ora giusta. Se no, sbagli treno. Io. Ecco, per dire. Noi, da questo punto di vista, a parte gli ovest ed est, siamo più comprensibili.

Comunque. Sono in attesa davanti alla statua di Ampère in quel momento della giornata, bellissimo, in cui le città francesi in agosto (solo?) sono deserte. E sono le otto e un quarto, non le cinque del mattino. Siccome tra Lione e Vienne ne ho sentite parecchie sulla produzione della seta e sul successo che ha avuto per secoli in queste zone, mi documento un minimo. Doveroso, visto che anche a casa mia, nel sottotetto, si coltivavano (? allevavano?) i bachi da seta e io non ne so quasi nulla. Di questo, domani. Difficile resistere, eh?

Lascio Lione e l’Auvergne per andare nella valle della Loira, a Bourges. Inutile dirlo, le colline prima e la pianura poi sono di grande bellezza, verdi e invitanti. Il treno, un intercity mediamente lento ma riattato e ben tenuto, viaggia tranquillo fermandosi ogni venti minuti in media, attraversando la Loira di tanto in tanto. Passiamo vicino a Vichy, insieme famigerata per il collaborazionismo e apprezzata per l’acqua e i cosmetici, ed entriamo in Borgogna costeggiando il circuito di Magny-Cours, mai troppo amato dai corridori per l’isolamento e la difficoltà nei sorpassi. Poi tocca a Nevers, famosa per le ceramiche, imparate a Mantova presso i Gonzaga, che a metà Seicento estingueranno il ramo italiano in quello, appunto, dei Gonzaga-Nevers. Ludovico Gonzaga, infatti, condottiero per conto dei francesi, grazie al matrimonio con Enrichetta di Clèves acquisì la signoria sulla città, trasformandola in ducato. Poi tutto sarebbe stato acquistato dal cardinale Mazarino, preoccupato di sistemare il nipote. Toh, due figure distinte, da noi di solito coincidevano. Nel frattempo, oggi Nevers viene assediata dai turisti religiosi per vedere la salma della veggente di Lourdes, cinquecentomila l’anno e tutto fa indotto. Indotto ben pasciuto.
La Loira, nota per gli oltre trecento castelli, è un bel fiumotto largo e placido, in questa zona poco poco profondo, decine di centimetri, che nei tempi andati faceva un po’ palude dappertutto. Ne parla anche Cesare, poiché la difesa di Vercingetorige, oltre alla tattica della terra bruciata, contava anche su di esse per, letteralmente, impantanare gli invasori. Inutilmente, si è visto. Oggi ovviamente le paludi sono state bonificate ma le pozze affiorano ancora qua e là, tra i campi di girasoli e le pecore sparse.

Eccomi a Bourges, rinomata per la cattedrale gotica (come Burgos, coincidenza toponomastica che mi ha sempre colpito), genere di cui farò il pieno nei prossimi giorni, mi sa. La città, medio-piccola, è graziosa, sono molte le case medievali a graticcio, alcune in vendita, ben tenute, una costante da qui a Strasburgo. Ci metto un po’ a rendermene conto ma sento musica. Intendo fuori dalla mia testa e non sono io. Credo. Sì, musica, diffusa. Mi accorgo che lungo i muri delle vie del commercio, centrali, sono appesi altoparlanti che diffondono musica a buon volume. E pop francese contemporaneo, pure, mica Liò. Illegale. Il centro, oltre alla cattedrale, è caratterizzata dal gotico fiammeggiante – sempre esagerati, i franzosi, si chiama dappertutto fiorito e dovreste vedere quello belga, care le mie guide – del palazzo di Jacques Cœur. Il quale faceva uno dei mestieri più redditizi e più pericolosi del passato: l’amministratore delle finanze del re, in questo caso Carlo VII. Perché è un attimo che quello pensi che gli stai fregando un baiocco, un soldino, o che qualcuno gli insinui il dubbio all’orecchio, che la disgrazia ti cade addosso a valanga, vedi Fouquet, per dire. E, infatti, a Cœur andò persino bene, salvando le penne e fuggendo su un’isola greca a fare, presumibilmente, il mendicante.
La cattedrale è enorme, monumentale, è nella sua natura gotica esserlo, la sproporzione con l’altezza degli edifici della città è impressionante, doveva essere vista da lontano e mettere in chiaro certe cose fin da subito. Oddio, anche per chi ci abitava accanto. Quando uno dei due campanili fece un po’ la faccia strana ed espresse una vaga volontà di venir giù, gli schiaffarono a fianco un contrafforte grosso come due torri di Pisa. Magari cocciuto ma efficace. Ciò che contraddistingue questa cattedrale, l’altezza spropositata è fatto comune, sono le vetrate originali dal dodicesimo secolo in poi e certi bei diavolazzi sul portale che seviziano i cattivoni che escono dalle tombe in quel giorno là.

Pure la coda, morde.

Un paio di fiumolini circondano la città, l’Auron e l’Yèvre, ed entrambi hanno la velocità di un lavandino che tracima e l’odore di una palude d’estate. Ma è normale, sono le paludi di Vercingetorige, non è che la morfologia del luogo sia cambiata. A nord della città le acque ferme sono state organizzate e ne hanno tratto orti e giardinetti di svago, suddivisi non si capisce se spontaneamente, socialmente o cosa. La zona è chiamata correttamente Marais, acquitrino (no, a Parigi è diverso), ed è curiosamente rappresentata sulla mappa di Gugol, io pensavo fosse un errore e mi trovassi in una Venezia tirata con la squadra.

L’acqua effettivamente ristagna eccome ma credo all’insalata non importi. Bene Bourges, domani mi sposto di nuovo.


Passi l’assenza del bidet ma qui è la distanza a non essere regolamentare. Potrei picchiare la testa nello sforzo o lavarmi la faccia al contempo.

Per chi volesse, stasera ci vediamo qui.

L’indice di stavolta

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno tre. Vienna non Vienna, io? faccio teatro, la vita in effetti non è niente male.

Trenta chilometri di viaggio su un locale e sono a Vienna.

Capitale per secoli dell’impero austro-ung… Ah no, niente. Quella è Vindobona e ai tempi valeva la metà di questa, Colonia Julia Viennensis. Sorta in uno di quei posti in cui chiunque punterebbe il dito per fondare una città – la migliore in questo senso resta Salisburgo -, Vienne sta placida su un gomitone del Rodano tra colline buone per il vino e piane buone per il commercio.
Ora, qualche breve nota elementare sulla fondazione di città romane (o greche), saltare se già edotti: serve senz’altro un fiume, possibilmente navigabile, per ovvii motivi, ma altrettanto essenziale è la presenza di colli o colline oltre agli spazi piani. Perché il teatro e i templi cerimoniali, quelli ad altare, si scavano direttamente sul fianco della collina risparmiando un sacco di lavoro e materiali. E le mura sono più efficaci. Mai fondare alla foce di un fiume anche se viene la tentazione, perché, lo dice Vitruvio, il porto si insabbierà. Vedi Pisa? Mica hanno ascoltato.
Sulla scorta di queste poche regole, la valle del Rodano si rivelò essere un ottimo posto per fondare città, per cui certi chiamati Romanes fondarono a raffica e a poca distanza, per oggi, Lione e Vienne, appunto, Valence (altra città omonima), Montélimar, Orange, Avignone, Nîmes, Arles eccetera. Tutte colonie, tra l’altro, nel senso che ai centurioni scampati alle vicissitudini della carriera militare, diciotto anni, veniva concesso un appezzamento di terra in un contesto non ancora sviluppato ma da organizzare, ovvero tutte queste città di cui conosciamo anno di fondazione e spesso anche il nome del fondatore. Integrando o scacciando quelli che già vi abitavano da qualche millennio, in questo caso galli allobrogi nipoti di qualche sapiens ancora più antico.
E ora qualche breve nota elementare su alcuni elementi tra i più riconoscibili delle città romane, evitare anche qui se si è Bianchi Bandinelli o Carandini: a parte le strade ad angolo retto, cardo e decumano, le mura, le porte e le vie consolari tirate col righello, di solito non manca il teatro, che è quella costruzione a emiciclo con il proscenio esattamente come i nostri di oggi, da non confondere con l’anfiteatro, quello ellittico usato per gli spettacoli gladiatorii, per capirci Colosseo. Poi c’è il circo, che è quello lungo con la spina in mezzo che serve per le corse, tipo Ben Hur al circo Massimo, solo nelle città più ricche. E infine c’è l’odeon, che è un tipo di teatro più piccolo, coperto, che serve per la musica e di solito è a fianco del teatro. Tra le città che ho detto, gli anfiteatri di Nîmes e Arles sono ancora lì da vedere, i teatri e gli odeon di Orange, Lione, Valence e Vienne pure. Infatti.
Per valutare le dimensioni di una città romana, basta guardare le dimensioni di uno qualunque di questi edifici ricreativi, se è sopravvissuto: teatro grande, città grande. Anfiteatro grande, città grandissima e ricchissima. Vienne ha un magnifico e colossale teatro. Scavato nel fianco di una collina e orientato in modo da avere il Rodano sullo sfondo del palco, è davvero magnifico. Di esempi similari, ancora utilizzati, tra quelli che ho visto e che mi vengono in mente in questo momento su una panchina ci sono Verona, Taormina, Plovdiv, Orange, Siracusa, Spoleto, Volterra, e il teatro di Vienne è oggi utilizzato per una miriade di spettacoli e concerti, tra cui spicca il festival jazz di giugno di altissimo livello, cito Brad Mehldau quest’anno.

Io entro alle nove del mattino che ancora è in ombra e, meraviglia, sono da solo. Mi siedo sulle gradinate, immagino il silenzio durante le tragedie, le risate e le urla durante le commedie, fantastico su alcune assemblee pubbliche, magari, in tempi burrascosi, mi figuro la rovina per quasi quindici secoli. Lo giro in lungo e in largo, la vista del palco è magnifica da ogni angolo, anche l’acustica deve esserlo ma non c’è nessuno che faccia un suono dal basso. Poi spunta il sole e illumina la scena, io non resisto e ci vado, mettendomi in mezzo. Che emozione è sempre salire su un palco, no? Anche senza pubblico, stare lì è entusiasmante, è un luogo sacro e magico, è il posto dove accadono delle cose, basta dire di essere in un luogo e vi si è. O di essere qualcun altro e lo si è, innumerevoli vite, il limite è la fantasia. Mi atteggio, guardo tutto il pubblico assente, faccio un paio di espressioni, temporeggio, immagino qualche colpo di tosse, qualcuno che si sistema meglio, forse una parola col vicino, sono davvero emozionato. Poi mi faccio coraggio e inizio, recito qualcosa, molto breve e sconclusionato, potrebbe essere Euripide (no, non lo è) o gli scontrini della spesa di Gassman, chissà, me lo tengo per me. Ma che emozione.

Vienne deve aver attraversato le classiche vicissitudini dei tempi europei: grande, grandissima sotto l’impero romano – aveva anche un odeon, un circo enorme lungo quattrocento metri, templi che ancora esistono, mura, enormi ville con giardini e mosaici, aree commerciali estese, il tutto comparabile senza dubbio con Lione – poi minima a seguito delle migrazioni dell’alto medioevo, in espansione poi tra XIII secolo e Rinascimento, come testimonia la grande cattedrale e i bei palazzi rinascimentali, per contrarsi nuovamente nei secoli successivi, conoscere un’altra crescita legata all’industria, fino – un grande classico – allo sviluppo poco sensato dell’urbanizzazione negli anni Settanta e Ottanta, per poi conoscere una fase di contrazione adesso, nei nostri anni. Molti negozi sono chiusi o mai riammodernati, in centro ci sono quasi solo esercenti rivolti a consumatori di fascia alta, intendo enoteche, ristoranti, bar, librerie, parafarmacie, laboratori di analisi (e anche qui la salute è diventata un genere merceologico), negozi di vestiti, mentre appena usciti dalla vecchia cerchia delle mura (qui sotto testimonianza del poco rispetto esercitato nei loro confronti) ci sono i negozi e le abitazioni scassone, i ristoranti e riparatori di telefoni cinesi, i parrucchieri arabi, i kebab, le case in cui sembra che vivano in seimila, tutte cose che a me piacciono, sia chiaro. Ma territorialmente ammassati, come da noi.

A ogni modo, mi si perdoni l’analisi sociologica da sottoscala, non volevo. Come dicevo ieri, le differenze tra le nostre città e queste città franzose, ma credo di poter dire quasi tutte le città europee occidentali, si sono affievolite, certi fenomeni ora coinvolgono tutti in misure simili. Alla fine, alle domande di che fare delle nostre città e di tutti gli immobili sfitti e vuoti piuttosto che delle aree industriali dismesse nessuno sa rispondere in modo univoco, le risposte sono locali, per forza. E come integrare con dignità e rispetto una non trascurabile immigrazione, ormai di seconda e terza generazione, è un’altra bella domanda, intendo dire senza creare quartieri per gli uni e quartieri per gli altri.
Ma io so poco di un sacco di cose, di queste niente. Dopo tanto scarpinare e tanto cosare di cervello, sono andato a mangiare e sono stato accolto così.

Se ne potrebbe anche discutere ma, dico io oggi, anche no. La piglio così, non rompo e me la faccio andare bene, eccome. Anche perché ho mangiato molto bene e sono stato trattato meglio. Grazie, viennesi.


L’indice di stavolta

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno due. Molta Lione, toh una galleria d’arte, una volta nel 2008, due donne organizzate.

Esco nemmeno tanto presto e, come spesso accade nei paesi non da noi, prima delle dieci cammino in una città morta. Trovo fortunosamente una brasserie aperta dotata di macchinetta del caffè e ordino il caffè più piccolo che sono in grado di produrre. Che è comunque un espresso quintuplo. Insieme, mi viene chiesta la certificazione sanitaria, o green pass come lo chiamiamo noi. Desolé, anticipa la ragazza al banco, io ribatto che è normale, va bene, ma intuisco anche da questo una certa resistenza al meccanismo del controllo. Infatti da oggi, il nove, in Francia è obbligatoria la certificazione, dentro, fuori, sopra, sotto. Mi è stata chiesta già ieri in albergo, al museo, e devo dire che le prime volte l’ho mostrata con un attimo di suspense, temendo non andasse. Poi tutto liscio e da oggi si esibisce anche al bar. Più tardi proverò i negozi e tutto quello che la cronaca da vicino impone.

Da sempre piacevolmente accoccolata su due colline alla confluenza di Rodano e Saona, Lione è una città che incontra i miei gusti più arditi, perché è molte cose insieme e non tutte facili. Alla città romana, la Lugdunum delle partes tres della Gallia di Cesare, si sovrappone quella rinascimentale del crocevia della produzione di sete e della libera stampa, e dico Rabelais, fino alle pagine oscurissime di Vichy e al potere economico e alla vivacità di oggi. Eh sì, perché i soldi del crédit Lyonnais sono tanti, e le industrie molte, i campionati vinti pure, le corse di TGV per Parigi più frequenti della linea di autobus – elettrico – per la periferia, la partita con Parigi sempre aperta, velò, monopattini, parchi, auditorium, spazi sociali ovunque. La stessa confluenza dei due fiumi, dieci anni fa un conglomerato di fabbriche in disuso, oggi è completamente recuperata. Certo, si potrebbe obiettare sui maxi-centri commerciali, forse anche sui diecimila metri quadri adibiti a compostaggio e riutilizzo del terreno, ma ci sono le linee del tram, il treno, un sacco di gente, il museo della confluenza e molto spazio libero. Può non piacere ma ci si muove.
Fuori dal centro tutto UNESCO e fuori dai circoloni finanziari e produttivi, la città grande e vera è un po’ il senso di tutto, dai quartieri ammodino ricchi di murales meravigliosi – Lione ne è la capitale – a quelli in cui persino le cassette postali dei condomini sono dietro una grata e la puzza di piscio è aggratis. Là dove i soldi sono tanti si allarga sempre anche la forbice, il sopra e sotto di Brecht, oggi più che altro centro e periferia, ci si salva se non si scivola oltre il mezzo. E io in fondo in fondo mica ci sono andato, servono l’auto e lo scafandro.
Perché poi la città di servizi si allarga, recupera spazi malsani, vecchia storia, ma alza anche i prezzi offrendo opportunità alle catene e a qualche giovane avventuroso che lancia un improbabile negozio di thè ricercati e biscotti fatti a mano o biciclette vintage destinati a soccombere sotto il peso dei costi fissi. E un sacco di gente si deve spostare, il caso della croix-rousse, quartierone popolare ora a diecimila euro al metro quadro, è lì da vedere. Niente di nuovo, è la gentrificazione, la galleria d’arte prende il posto del salumiere e vediamo dove arriviamo.

Alcune cose di Lione, un po’ a mente: Claudio e Caracalla, la seta, il vino, Montgolfier, Ampère, Saint-Exupery, Henri Matisse, Jean Nouvel, il meraviglioso Guignol così vicino a Pasquino, Klaus Barbie e l’Hotel Terminus, la repubblica di Vichy, i fratelli Lumière, e ovviamente Rabelais, come detto. Oh, io son mica qui a far la guida, se vi punge curiosità questi son spunti.
A Lione ci sono stato tredici anni fa, all’inizio di un altro giro ben più lungo di quello di questi giorni (qui, il ventisette, madonna come scrivevo meglio allora, ma oggi mi importa meno risultare perspicace). Ma allora, quello da cui provengo e questo, erano mondi più diversi, allora la disparità era più marcata, l’integrazione per esempio in Francia era una realtà più avanzata, il meticciato pure, oggi si nota meno la differenza, comparando realtà simili. Oggi si nota di più la parità di genere, consolidata maggiormente qui. E certo, poi la Bank of China è arrivata ovunque e ha una sede in centro che forse prima era del Crédit. In qualche modo, l’integrazione europea ha fatto passi in avanti più di quanto mi sia permesso cogliere da casa, facendo in qualche senso avanzare i paesi un pochino più arretrati e rendendo tutto più omogeneo. Non so, per dire, alcune cose che qui nel 2008 c’erano e da noi poco o niente: l’alta velocità; le piste ciclabili; i biglietti integrati dei musei; i biglietti integrati dei trasporti; le due cose insieme; i mezzi pubblici elettrici; i centri pedonali; le biciclette pubbliche; le grandi catene; le cose da asporto e i ristoranti etnici; i giardinetti per pisciare il cane; le stazioni con dentro i negozi; le casse automatiche; gli scivoli per i disabili. Bene, voglio dire, meglio, anche se ciò lascia a me oggi un po’ meno da raccontare.
Due cose del giorno. Ah, visita al museo delle belle arti ed è sempre così: se la prima sala è dedicata agli Egizi, sei foutu, è lunga. Un bell’incontro della giornata sono due donne, giovani pure, che giocano a scarabeo fuori dalla lavanderia automatica. Voglio dire, questo è affrontare le cose con piglio.

Se oggi, in giro, avessi incontrato il me di tredici anni fa gli avrei detto, certo, di fare e non fare certe cose. Amore, lavoro, soldi, carriera, contratti e incantesimi. Tanto non so se mi avrebbe ascoltato, improbabile. Però gli avrei detto una cosa importante, che non poteva sapere allora: le cose cambiano più rapidamente di quanto uno si aspetti, fino a una certa età crediamo in fondo che certe situazioni siano eterne ma non lo sono. Me del passato, goditi di più certe persone, non sarà comunque mai abbastanza.


L’indice di stavolta