minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: tre, salva il più bello e distruggi gli altri, questioni contemporanee?, imbottito

Ero ad Anghiari, sono a Sansepolcro. Ancora fuori dalle mura mi accoglie l’orrendo coso, che da un manifesto solitario celebra l’appuntamento di Pontida cercando di assumere un’espressione compresa, battendosi il pugno sul cuore. Niente da fare, pare sempre il cugino scemo cui tutti dicono di fare domanda per il reddito di cittadinanza e di smettere di mangiare bomboloni al compiuter. E io sarei qui per la bellezza, la bellezza di Piero della Francesca e l’ingegno di Luca Pacioli, meglio che entri in fretta.

Nessuna sorpresa, in fondo parecchie cittadine toscane, umbre e marchigiane sono amministrate da sindaci leghisti, tra cui appunto Sansepolcro, lista civica più lega. Il manifesto del ciula non è quindi campagna elettorale ma normale informazione delle attività culturali leghiste. Una in tutta Italia e nemmeno un granché. Nessun altro segno della campagna elettorale, come non ci fosse. Chiaro che sono qui per vedere la Resurrezione di Piero della Francesca, quell’affresco con Gesù che risorge dal sepolcro con quei due occhioni fissi e sotto di lui i soldati addormentati, tra cui uno con il volto del pittore. Aldous Huxley lo definì “il più bel dipinto del mondo”, ovviamente argomentando un po’ di più di quanto io riporti qui, se ne potrebbe discutere. Comunque, quando il generale Clarke, parole sue, pianificò il bombardamento di Sansepolcro nell’avanzata alleata, si ricordò delle parole di Huxley e decise di evitare. Ora, due considerazioni che mi vengono così: uno, che bello avere un generale in comando che ha studiato la storia dell’arte o comunque ne ricorda alcune valutazioni critiche al punto da modificare il piano di guerra per salvare un affresco; due, saranno stati poco contenti i proprietari del secondo più bel dipinto del mondo che, invece, si saranno visti piovere in capo le bombe, perché non all’altezza. E il terzo, quarto e così via. Peraltro, a pensar male, se avessero bombardato il primo sarebbero pure saliti in classifica, risparmiandosi magari le prossime bombe.

Mi sposto a un tiro di schioppo e sono a Città di castello. Qui si viene, e lo feci anch’io trent’anni fa, per vedere Burri, che donò la sua propria collezione alla città (di castello). Ma allora dovevo vedere e imparare tutto, oggi Burri mi interessa molto meno, anzi niente, quindi salto a cuor sereno. Io sono qui perché è una graziosa cittadina e poi vorrei vedere alcune cose di Raffaello, Signorelli e Vasari. Per esempio, la chiesa di san Francesco che contiene lo sposalizio della Vergine di Raffaello, l’adorazione dei pastori di Signorelli, la cappella Vitelli progettata da Vasari e la sua incoronazione della Vergine. Beh, Raffaello fu rubato dai soldati napoleonici e ora è a Brera, Signorelli finì sul mercato antiquario e ora alla National gallery di Londra, gli è rimasto Vasari, che bella la cappella ma la pala insomma. Ai tifernati – sì, si chiamano così i cittadini di Città di castello – le balle ancor gli girano: “lo sposalizio della Madonna (…) possiede ora Milano / invidiata ricchezza del suo ricchissimo Brera” c’è scritto su una grossa lapide sul muro esterno. Dentro, riproduzioni. Dei cinque quadri che Raffaello dipinse in città, ne è rimasto solo uno, molto rovinato e molto giovanile, inevitabile esser seccati.

La città (di castello) è comunque un paesone, senza offesa, la sera c’è la tombolona con l’istrionico Ottaviani, si canterà il paguro Bernardo e il divertimento è assicurato, se nun me voi scippà ‘r culo (citazione dovuta dalla più grande attrice di sempre, concittadina). Nella sede del PD in piazza non c’è nulla, nemmeno un manifesto, non sembra nemmeno essere coinvolto nella competizione elettorale. In città idem, nessun manifesto o striscione. Un sacco di scritte no vax, piuttosto, decine e decine, ma dopo un po’ mi rendo conto che la mano è sempre la stessa, servirebbe un calmante più che un vaccino. Per chiudere con Città di castello, vado a visitare palazzo Vitelli, anche qui la mano è di Vasari, con una facciatona istoriata bianco su grigio come i toscani ben sanno fare. I Vitelli fecero fortuna come condottieri al soldo di chi convenisse, cosa che si guadagna bene ma è pericoloso, specie se a un certo punto ci si mette al servizio di un gran filibustiere come Cesare Borgia, il duca di Valentino figlio di papa, e poi si ha la bella idea di ordire una congiura contro di lui. Finisce che si viene invitati a un banchetto e, alla fine, si viene strangolati. Machiavelli nel 1503 scrisse il trattato “Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini”, vualà. Riina poi copiò la cosa, trovandola interessante.

Mi sposto a Umbertide, graziosa cittadina fortificata sull’alto corso del Tevere cui venne in mente a un certo punto di ingraziarsi il re cambiando nome, che idee, e poi proseguo per le gole di Frasassi, che sono spettacolari per quanto sono ripide. Non vado alle grotte, già provvide una gita scolastica molto tempo fa, ma mi inerpico per una breve salita per vedere il tempio di Leone XII di Valadier. In una grottona in mezzo a una parete verticale si costruì un tempietto in onore del papa locale di rara grazia e proporzione (il tempietto, non il papa), in travertino opaco che fa proprio una gran figura. D’altronde, era Valadier, il suo villino sul Pincio a Roma è un’altra meraviglia, lo acquisterei volentieri. Perché Leone XII fu un bravo papa, dicono sulla lapide sul tempio, aprì vie, costruì case in paese – il resto dell’attività papale non pare interessi – ed “avrebbe più largheggiato se più avesse vissuto”.

In realtà visse abbastanza perché Pasquino scrivesse: “Qui della Genga giace, per sua e nostra pace”, e Genga è il paese natio, proprio qui dietro, ma non è la cosa interessante. La cosa interessante, almeno per noi ora, è questa: nel 1820 nello stato papale imperversò un’epidemia di vaiolo e il gonfaloniere Monaldo Leopardi, sì quello, nel 1822 istituì l’obbligo di vaccinazione. Eh sì. Ma attenzione: anche il fatto che la vaccinazione fosse gratuita. A fronte, però, del malcontento della popolazione contadina per l’obbligo vaccinale, che ritenevano pericoloso, il papa Leone XII cancellò la norma nel 1824: «Rimane obbligo a Medici e Chirurgi condotti di eseguirla gratuitamente [la vaccinazione antivaiolosa], a quanti vogliano prevalersene, essendo questa la cura ed il preservativo di una malattia alla quale, come a tutte le altre, essi hanno l’obbligo di riparare», dalla circolare legatizia. Forte, eh? Anche stavolta non abbiamo inventato un bel nulla. Né il rimedio né le idee sciocche. È deprimente e consolante allo stesso tempo, sono confuso.

Io però sono al fresco della grotta e mi sono portato un panino che ho chiesto di imbottire a una gentile salumaia. Non c’è ristorante o trattoria o cucina gourmet che tenga per me di fronte a un panino mangiato all’aperto, in montagna o davanti a un bel vedere, imbattibile. Il prosciutto diventa ancor più buono. Anche la frutta, devo dire, i mandarini sulla neve sono strepitosi. Quindi, io ho il mio panino con crudo e formaggio del posto, si sta bene, il posto è bello, la storia su cui riflettere l’ho raccontata, intendo quella dei vaccini obbligatori e no, direi che sono a posto anche se manca ancora mezza giornata o quasi. A domani, dunque, ripartendo da Fabriano. Sì, quella degli album da disegno.


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