la riservatezza dell’uretra

Sala di attesa in un ambulatorio privato di Milano, il palazzo umbertino è a dir poco sontuoso, in nobile via, le pareti color arancio-pastello rifatte di fresco, musica pop in filodiffusione, sei persone in attesa. Sul tavolino delle letture alcuni numeri di “Jack” che, per capirsi, è una rivista che si occupa di tecnologia: infatti in copertina la topolona ignuda è quasi sempre coperta o da un telefonino o da una penna usb.
La sala di attesa prelude allo studio di un eminente urologo, dottor professor primario eccellenza santità, che ha un tabellino di marcia da diciotto euri al minuto. A prescindere dagli appassionati delle visite rettali, categoria a sé che di solito trova modi più economici per soddisfare i propri desideri, le persone che attendono una visita dall’urologo – solitamente – presentano una qualche patologia di tipo uro-genitale, quale che sia. Come coloro che attendono dal meccanico, generalmente, lo fanno perché hanno la macchina rotta.
La signorina all’entrata che si occupa degli appuntamenti e del ricevimento è invece un uomo, presuppongo perché più consono a trattare questioni urologiche, ovvero in questo caso prettamente maschili. Il lato estetico ne risente, va da sé, ma ne guadagna la tranquillità dei pazienti timidi, immagino. L’uomo in questione, dopo aver espletato le pratiche di ricevimento, consegna a ogni paziente un cartoncino plastificato con un numero, dicendo: “lei da ora è il paziente numero…” e segue il numero. La chiamata, di conseguenza, avviene per numero e non per nome.
“E’ per la praivasi”, ci spiegano, e in effetti l’articolo 83 del DL 196/03, ovvero il “Codice in materia di protezione dei dati personali”, recita che il personale sanitario deve mettere in atto “soluzioni volte a rispettare, in relazione a prestazioni sanitarie o ad adempimenti amministrativi preceduti da un periodo di attesa all’interno di strutture, un ordine di precedenza e di chiamata degli interessati prescindendo dalla loro individuazione nominativa”. Numeri, appunto. Ma potrebbero essere maschere da Paperino e Pippo (“lei da ora è Paperoga“), soprannomi scelti da ogni singolo paziente (“venga il sub-comandante Mario”), nomi mutuati da altri contesti (“tocca a mister Black”), nicknames inventati al momento (“signor Turbominchia?”), simboletti come all’asilo (“è il turno della mongolfiera”) e così via. Il tutto perché bisogna proteggere la riservatezza del paziente. Bene.
Ma in una sala d’aspetto di un ambulatorio, come dal macellaio o alla fermata dell’autobus, le persone sono lì per un motivo piuttosto evidente, per cui cosa si mira a proteggere? L’associazione tra faccia e nome, evidentemente, e tra nome e patologia. Ma, a meno che il medico non entri in sala gridando: “Venga, signor XY, che risolviamo subito quel suo problema del criceto incastrato nel sedere”, i dettagli singoli non vengono rivelati, con buona pace della riservatezza. Inoltre, e questo va detto, i cognomi sono molto belli perché identificano una famiglia generica di appartenenza, parentale e non, senza nulla dire sul singolo individuo, ne consegue che sono utilizzati anche e proprio per necessità di questo tipo. Magari qualcuno li inventa lì per lì, quando serve, come l’onnipresente signor Smith in albergo con l’amante focosa, ma sempre di cognome si tratta.
E se anche fosse? E se i signori in attesa sapessero che io, signor XY, mi chiamo proprio così e sono lì per una questione uro-genitale? Cosa c’è di nuovo? Qual è la differenza? Cosa si è scoperto di drammatico che potrebbe compromettere la mia stessa tranquillità personale? Cosa si è scoperto che non si sapesse già? Le risposte sono scontate, ovvio, ma non lo sono le premesse: ciò che era nato per tutelare la sfera privata dell’individuo è diventato poi, di interpretazione estensiva in interpretazione estensiva, un enorme contenitore a scudo dei dati personali. Il problema nasce quando anche il nome è considerato un dato personale quando invece è per antonomasia il dato pubblico per eccellenza: ciò che doveva tutelare dall’utilizzo improprio (o illecito) dei dati personali ha portato invece all’occultamento dei dati stessi. Personalmente, io ritengo più personale la mia faccia che il mio nome-e-cognome, mi preoccupa di più dove possa finire la mia faccia piuttosto che il mio nome (peraltro comune a tantissimi), ma sono ben contento di essere riconoscibile in ambiti pubblici e, anzi, dato che vivo in un contesto di persone, sono lieto che, magari, qualcuno all’occasione tenga traccia di un mio passaggio. Perché sono e resto convinto di vivere in un mondo di persone, e non in un mondo di stronzi dediti al taccheggio.
E qui concludo la sbrodolata di psicologia da pianerottolo con l’aneddoto conclusivo: al termine della visita, la signorina-uomo apostrofa quasi regolarmente ogni paziente: “Signor XY, mi ha riconsegnato il numero?”.

  • quez
    Ott 14th, 2009 at 22:44 | #1

    aahhh, se la tua è una sbrodolata dovresti vedere la mia se mi lascio andare sull’argomento… ma mi trattengo.
    Io comunque ne so qualcosa, e mi vengono i brividi a trovarmi dall’altra parte con certi burocrati a dettare le leggi… altro capitolo interessante da esplorare sarebbe quello del “consenso informato”… e tutto poi si ricongiunge al grande tema della “certificazione di qualità” delle “”AZIENDE(!?)SANITARIE” mi fermo qua e vado a vomitare…bleah…

  • siu
    Ott 15th, 2009 at 07:34 | #2

    Post di tutto rispetto, caro Trivigante, che meriterebbe chiose ed approfondimenti di analogo spessore.
    Ma io ieri ero così abbattuta da svariate tegole piovute in testa ad amiche (sì, al plurale), che confesso di averne “usufruito” essenzialmente per i risvolti ironici… insomma, mi ci sono fatta una sana e terapeutica risata, praticamente come usare la saliera del Cellini per grattarsi in testa, o il manoscritto della Divina Commedia a mo’ di gradino per arrivare a quel barattolo su in alto.
    (Esagerata? Io?? Un po’ sì, dài: per farmi perdonare…).

  • Ott 15th, 2009 at 20:58 | #3

    Trivigante sei in gran forma (a parte i disturbi uro-genitali, s’intende).

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