A metà tra un film di Little Tony e Terminator, nessuno canta ma ci si dà dentro con l’azione: Endhiran. Roba forte.
(grazie a J.avarnanda per la segnalazione).
A metà tra un film di Little Tony e Terminator, nessuno canta ma ci si dà dentro con l’azione: Endhiran. Roba forte.
(grazie a J.avarnanda per la segnalazione).
Importante riunione al Museo Diocesano. Oggetto: ringiovanire il prodotto per conquistare fasce di consumatori indifferenti al targeting. Più appeal, meno technicalism, i giovani sono globalized, ci vuole un prodotto più fast and fresh.
Briffiamoci.
Proposte scartate dal committente: 1) serie di figurine dei santi ricoperte di popper, da tenere sotto la lingua; 2) serie di adesivi per lunotto posteriore per minicar; 3) serie di albi + film della Marvel sui superpoteri dei santi; 4) fumetto stile Dragon Ball con protagonista San Lorenzo e la sua graticola; 5) cartoon soft-core con le avventure di Santa Barbara e gli esplosivi, Santa Lucia e la vista a raggi x, Santa Cecilia e il suo organo.
Proposta accettata: la versione manga. Ma non è che poi mi diventano shintoisti? Ma no, ‘sti giovani non sanno un belino, vai tranquillo.
Troppo anni novanta, dai.
A parte il virgolettato, che è d’obbligo resti identico, mi pareva in effetti di avere una strana sensazione di dejà lu:
Il che poi finisce paro paro sul Sole 24 Ore, sulla Gazzetta del Sud, sull’Unione Sarda e così via. Niente di nuovo sotto il sole dell’informazione, basta che poi la smettano di guardare con spocchia chi tiene un blog e, talvolta, copia e incolla. Piuttosto, speriamo che le ragazzuole avide non si fermino, ché a qualcuno ieri sera gli saranno andate di traverso le pennette tricolore.
A margine della giornata politica di ieri, memorabile il momento in cui Bondi, nel dibattito sulla sfiducia, ha ripetuto due volte: “Ma voi vi rendete conto” – rivolto all’aula e a tutti noi – “di quali cose meravigliose si potrebbero fare con il nostro patrimonio culturale?”. Noi no, ma tu, Bondi, dovresti.
Evoluzione, mignoli, anelli mancanti, luoghi comuni sfatati, paleontologia, piccanti accoppiamenti tra neanderthal e sapiens, migrazioni, occupazioni e lotte, scimmioni e uominiorsomaiale, insomma tutta la bellezza della storia dell’evoluzione raccontata meravigliosamente da Telmo Pievani, brillante filosofo della scienza e biologo evolutivo. Se avete un’oretta e desiderate imparare qualcosa sulla storia dell’evoluzione senza sforzo alcuno, ecco la conferenza di Pievani:
Io raccomando calorosamente. Se, poi, ne desiderate ancora, qui il seguito, fatto di domande e risposte.
“Quando discutiamo di evoluzione, lo facciamo da molti punti di vista. Se ti dico diversità, tu capisci qual è il motore dell’evoluzione, il messaggio imperituro che ci rimane. Però in fondo l’aspetto che più ci disorienta e che non abbiamo ancora metabolizzato è l’idea di contingenza storica: dalla ricerca scientifica si scopre che il fatto che noi siamo qui non era necessario. Non era previsto, ma soprattutto in molte occasioni la storia poteva andare diversamente. A molti fa paura, invece per me contingenza è una parola liberatoria: se non era necessario che noi fossimo qui, allora forse il fatto di esserci dipende un po’ più da noi. È un messaggio di libertà e responsabilità molto bello” (da Intervista a Telmo Pievani).
Cathy Hutton e Alice Tonge hanno avuto una buona idea per i pendolari ferrotrasportati: adesivi da appiccicarsi addosso con la scritta “Wake me up at…” e là dove sono i puntini la propria destinazione. Niente male, sul serio.
Certo, Shepherd’s Bush non è Treviglio ma tant’è, sarebbe bello vedere tanti adesivi quanti sono i pendolari e qualche persona pia che si prende la briga, dolcemente, di svegliare gli arrivanti.
Le due creative, poi, hanno avuto un’altra idea: sovracopertine intelligenti da applicare alla propria rivista o libro, così da sembrare immersi in chissà quale lettura impegnativa. Bella idea, dico sul serio. E il Corriere va in visibilio. Giusto. Ma dico anche: ehi, l’idea è mia. Ed è bella, infatti.
Più di due anni fa proponevo l’“Operazione sottocoperta”, ossia: comodissime sovracopertine per libri già pronte, da stampare, ritagliare e applicare sul libro in lettura. In biblioteca, sul comodino, sul sedile del treno. Per scandalizzare i bacchettoni, suscitare interesse negli sconosciuti, far venire i pensieri ai vostri genitori e congiunti, rendere inquieti gli ospiti.
Certo, io lo facevo per dare scandalo e suscitare la rissa, mentre qui l’idea è di apparire più intelligentoni, è vero, ma rivendico la sostanza e pretendo, dico pretendo, che il Corriere vada in visibilio anche per me e per le mie belle copertine di allora, che riporto qui sotto:
Visibilia, o Corriere, e voi, perfidi albionici, non costringete il mio cervello a fuggire da questo paese per venirsi a riprendere le proprie idee.
Sproloqui: il numero dei processi cui è stato o è sottoposto quella maledizione in forma umana che è l’attuale presidente del consiglio, e le relative sentenze. Lui spara cifre variabili ma tutte assurde, Bonaiuti pure (centonove, pochi giorni fa) e i parenti e i relativi uguale.
E’ il caso di fare un breve riepilogo, ad usum memoriae (mi si perdonino le inevitabili imprecisioni di dicitura, non sono leguleio, si badi alla sostanza).
Assoluzioni con formula piena:
assoluzioni con formula dubitativa:
assoluzioni grazie al fatto che il governo Berlusconi ha riformato e depenalizzato il falso in bilancio:
prescrizioni per “attenuanti generiche” ma con riconosciuta colpevolezza:
estinzioni del reato e cancellazione della condanna grazie ad amnistia:
processi in corso:
Il totale, dunque, fa sedici. E le assoluzioni con formula piena, una.
Un po’ pochino per uno che dichiara: “In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni” (10 ottobre 2009).
Non se ne può davvero più. Imploro chiunque e chicchessia: basta. Pietà.
Dramorama: una famigliola di porcelli da presepe si dirige un po’ sottomessa verso il proprio destino, a capo chino ma volentieri, se ciò è per Ruggeri; Ruggeri da par suo, in formato storico bidimensionale e bicolore, aspetta con tutta la compagine la venuta della materia prima, che considera amici e sodali prima che carne. Il tutto è sormontato dalla Grande Mortadella dell’Avvenire, che sorge grandiosa alle spalle della scena artigianale e getta speranza sul futuro alla luce di ciò che è stato. Inarrivabile.
(locandina fotografata su una vetrina di una salsamenteria romana, ma mi sa che Ruggeri è mantovano).
Da alcuni giorni, cercando di raccapezzarmi nella vicenda FIAT, una domanda mi gira per la testa.
Ma non la devo fare io, la dovrebbe fare lo Stato (il governo, meglio). E la domanda è: “Caro Marchionne, sopravvoliamo pure sul fatto che fate macchine dimmerda, ma una cosa devi dirci: che ce ne facciamo di tutte ‘ste macchine?”.
Stamattina, per fortuna, scopro che la domanda non è peregrina:
Il cardinale Mezzofanti, Giuseppe Gasparo per gli amici bolognesi, fu linguista d’eccezione nel secolo decimonono, al punto che si rammaricava di saper soltanto leggere il sanscrito, il malese, il tibetano, l’islandese, il lappone, il ruteno, il frisone, il lettone, il cornico, il quechua, il bambara (che, per i pochi che non lo sapessero, deriva dal mandingo orientale) e di non saperli parlare. Se lo avesse saputo fare, il suo bagaglio di lingue parlate correntemente sarebbe passato da trentotto a quarantanove. Senza contare i dialetti. Sciapò.
Ma non è questo che costituisce il record. Il Mezzofanti scrisse un sonetto poeticamente valido fino a un certo punto ma che, linguisticamente, costituisce un valico insormontabile per i posteri: il sonetto monosillabico. Eccolo, con le rime tutte a posto:
A
me
la
fe’
dà,
se
da
te
l’ho,
be’
fò
i
mie’
dì!
Difficile fare meglio, resterebbero le singole lettere con risultato discutibile. Una traduzione approssimativa potrebbe essere: “Dammi la fede, se da te l’avrò, farò belli i miei giorni”. Teologicamente e stilisticamente ineccepibile.
Se la torre di Babele fosse stata costruita due secoli fa, noi avremmo potuto mandare il solo Mezzofanti, facendo pure bella figura.
All’angolo sinistro, con i pantaloncini rosso-sovietico e i guantoni dell’Uomo Tigre, trivigante, peso piuma. All’angolo destro, con i pantaloncini di velluto damascato e i guantoni di scroto di balena, la santa romana Chiesa una-e-indivisibile, peso ultramassimo (uooooah, esulta il pubblico).
Nella ripresa di oggi: l’obolo di San Pietro.
«Si chiama Obolo di San Pietro l’aiuto economico che i fedeli offrono al Santo Padre, come segno di adesione alla sollecitudine del successore di Pietro per le molteplici necessità della Chiesa universale e per le opere di carità in favore dei più bisognosi», dicono loro qui. L’obolo, che risale all’ottavo secolo, è un’offerta libera che i fedeli fanno direttamente al papa, su conto corrente apposito (75070003) o via carta di credito, e che la chiesa redistribuisce a sostegno delle opere della missione della chiesa stessa e delle opere di carità.
Per averne un’idea, il gettito 2007 è stato pari a 79.837.843 dollari, nel 2008 pari a 75.785.574 dollari. Quasi un uppercut fatale per me.
B16 nella sua prima enciclica, Deus caritas est (25 dicembre 2005), disse: “La Chiesa non può mai essere dispensata dall’esercizio della carità come attività organizzata dei credenti e, d’altra parte, non ci sarà mai una situazione in cui non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l’uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell’amore”, parlando ovviamente anche dell’obolo.
Sto perdendo, come sempre, ma ho il colpo pronto: attendo, attendo, eccolo.
Una parte cospicua dei proventi derivanti dall’obolo di San Pietro viene devoluta in beneficenza: ossia, soldi provenienti da donazioni vengono devoluti ai bisognosi. Pare giusto. Una delle forme della beneficenza vaticana è il cosiddetto “Prestito della speranza”, vale a dire che le parrocchie segnalano all’ufficio competente delle famiglie bisognose alle quali viene assegnato il Prestito, che equivale a cinquecento euri al mese. Attenzione alle parole, però: si chiama “prestito” e tale è. Non si tratta di un regalo, affatto, ma di un prestito che va restituito – e qui arriva il mio gancio destro – con l’interesse del 4,5%. Ovvero, per i duri di comprendonio, soldi ricevuti in donazione vengono prestati a interesse a porelli. 270 euri ogni seimila ricevuti in prestito, la cosa a me pare disgustosa. A dir poco.
Se, per dire, io entrassi nella prima filiale della prima società finanziaria che incontro, e chiedessi seimila euri in prestito per un anno, il risultato sarebbe questo:
Ventisei euro in più di quanto richiede la santa madre Chiesa. Complimenti vivissimi.
Mai come in questo caso la parola carità, “l’amore disinteressato verso dio e il prossimo”, è utilizzata a vanvera: senza interesse, appunto. Viva la carità del bancario, dunque, e questa brutta bestia che ho di fronte, nonostante i miei poderosi pugni al limite della cintura, non mostra alcun segno di cedimento.
La prossima ripresa, magari, la mordo all’orecchio.