(maggio 2010, campo Verano).
Mese: Maggio 2010
Scrivere sui muri è arte sopraffina e dovrebbero farlo solamente coloro che sanno ciò che scrivono. Ma se lo scopo è il benessere singolo e collettivo, allora ben venga.
Suggerimenti dalle scritte sui muri ne vengon parecchi: in questo caso, non avendo alcun ritorno per l’autore, trattasi di suggerimento sincero e in buona fede. Chi vuol accogliere, accolga.
(grazie a Mr. J., in quel di Forlì).
trentasei anni fa
Trentasei anni sono passati ma c’è ancora un processo in corso. Non devono restare soli.
A Palestrina (Roma) undici civili, tra cui cinque fratelli, vengono fucilati dai tedeschi.
Scrivere sui muri è arte sopraffina e dovrebbero farlo solamente coloro che sanno ciò che scrivono. Anche attaccare adesivi.
Se la dichiarazione è idiota, la replica è sufficiente per smontare qualsiasi assunto.
Nel 1995 la Fiat, casa automobilistica celebre per i rottami che ha messo in circolazione e per gli aiuti di Stato incamerati senza batter ciglio, mise sul mercato una doppietta di bidoni: la Bravo e la Brava. In pratica, la Tipo limata qua e là, anche se, a ben guardare, sotto ogni Fiat giace nascosta l’indistruttibile 128. A dirla meglio, “una coppia bisessuata di automobili nata da un unico ceppo ermafrodito, attraverso un processo che, se fosse stato scoperto precedentemente, avrebbe permesso alla casa-madre che l’ha concepita una ben maggiore proliferazione di modelli: per esempio, Punto e Punta, Uno e Una, Topolino e Minnie” (Guido Viale, Tutti in taxi, 1996).
Presentate in un tripudio di lambertodini e pippibaudi festanti, le due auto furono il parto di menti manageriali debilitate dalle ricerche di mercato e da un certo qual giovanilismo che così stride nei sessantenni a cavallo delle tendenze: ossia, i padri morali e forse biologici del mostriciattolo Lapo. Quelle menti manageriali concepirono per la Bravo “fianchi muscolosi e aggressività nelle forme” e per la Brava “linee morbide e ampiezza degli spazi”: parole a caso, come la realtà insiste a dimostrare (bella foto a destra). Chiaro, poi, il parallelo sotteso con le caratteristiche del genere maschile e femminile della razza umana o, almeno, con l’idea sessista che brancola al di qua dei finestroni del Lingotto.
Ma il meglio viene ora. Gli stessi managers progettarono la gamma dei colori, “tutti esclusivi, di forte e piacevole impatto, in linea con la personalità di ciascuna” (ricordo che si parla di auto, parallelepipedi di latta con dentro della plastica senza personalità, allacciate le cinture e tenetevi forte): per la Bravo il rosso smalto, il bianco, il rosso Antonelli, il blu forest, il black ink metallizzato, il grigio graphite, il rosso fiamma metallizzato, il verde Susa metallizzato, il blu veneziano metallizzato, il blu Regent metallizzato, l’avorio Juvarra metallizzato, il grigio promis metallizzato, l’erica metallizzato; per la Brava, oltre al nero, il bianco e il rosso smalto, il grigio Sassi metallizzato, il rosso boreale metallizzato, il verde reflex metallizzato, l’azzurro zenith metallizzato, il blu heraldic metallizzato, il giallo Superga metallizzato, il grigio Degas metallizzato.
Menti allo sbando per colori immaginari: non dico Goethe o Newton, ma sfido chiunque a identificare uno qualsiasi dei colori qui sopra, Pantone alla mano. Chi scopre cosa sia il rosso boreale metallizzato o il giallo Superga metallizzato vince un cappello con dentro i corvi.
In quel tripudio di neuroni gongolanti, Gianni Vattimo, torinese e dunque persona qualificata, non perse l’occasione di dire la sua (marchettona o rinciulimento? Resta sempre il dubbio) e proferì le seguenti parole su La Stampa (sempre lì si sta): “Siamo troppo ottimisti se pensiamo che ritrovando l’importanza della superficie, dei colori (…) il mondo della produzione faccia un piccolo passo verso la riscoperta dell’anima?”.
Nonostante Vattimo non perda mai occasione di dimostrarsi l’alfiere del pensiero debole, qui non è questione di ottimismo – e già ce ne vorrebbe molto – né, tantomeno, di anima, bensì di dismissione e rottamazione dei cervelli senza nemmeno gli incentivi, di scatole craniche stagnanti arruolate alla causa del boh. Che dire? Niente, resto annichilito di fronte a tanto nulla color maròn Manzoni opaco smetallizzato.
balle al fronte
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio;
l’esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera!
Peccato che fummo noi ad attaccare.
(Giovanni Martinelli canta La Canzone del Piave nel 1918)
[audio:http://www.trivigante.it/public/tregenda/wp-content/uploads/2010/05/Giovanni_Martinelli_-_La_Leggenda_del_Piave.mp3|titles=Giovanni_Martinelli_-_La_Leggenda_del_Piave]
Il sommo e mai troppo ricordato J. Rodolfo Wilcock, presenza imperitura nell’olimpo dei maestri venerati da trivigante, in un libretto-raccolta pubblicato l’anno scorso, “Il reato di scrivere”, spiega che senza dubbio i vertici della poesia – ossia di un prodotto che non si produce più – furono certo con Dante. E lui fu il punto più alto “di qualcosa che si chiamò poesia, in un ciclo ormai chiuso”. E non si illudano i poeti posteri di avere anche solo vagamente sfiorato i confini di un ciclo esaurito già nel Settecento: ora è impossibile, per qualsiasi uomo che si nomini poeta, aggiungere qualcosa.
Ecco cosa dice Wilcock:
“Non perché non lo sappiano fare, bensì per la mancanza sia di movente che di scopo nel farlo; è ovvio che un fabbricante di sedie, consapevole che il mondo è pieno di sedie eterne, e che altre sedie non servono, comincerebbe a fabbricarle, per risparmiare, dapprima senza zampe, poi senza schienale, poi prenderebbe un sasso e lo dichiarerebbe sedia, poi un ramo secco, o una bottiglia, e infine lascerebbe perdere il problema sedie, non ci penserebbe più. E’ anche possibile che finisca col sentire un certo fastidio di fronte a una sedia vera”.
Ma, prosegue, “il resto della gente seguiterebbe a servirsi delle sedie pre-esistenti”. Meglio di così, non saprei come.
(Wilcock si trasferì in Italia dall’Argentina nel 1957 e scrisse in italiano tutti i suoi libri successivi. Scrisse su molti giornali e celebri sono le sue recensioni di spettacoli che non aveva visto e di libri che non aveva letto. Chiese la cittadinanza nel 1975 e gli fu concessa nel 1979, un anno dopo la morte. Nemmeno quando vengono da noi li sappiamo riconoscere).
oh no, un’altra volta
Il 19 maggio è successo ancora. L’adolescente che c’è in me va nutrito, è un fatto.
Per non tediare gli agnostici, i videi li ho messi qui. Basti raccontare che prima, a supporto, dopo due onesti gruppi di hard rock, hanno suonato degli impresentabili tizi chiamati “Le vibrazioni” e il pubblico, tutto, in risposta gridava: “morte”. Uno spasso.
Al Passo del Turchino (Genova e Alessandria) cinquantanove civili fucilati dai nazisti, tra cui alcuni renitenti alla leva che si erano nascosti nel convento della Benedicta.