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forse non tutti sanno che: il london bridge

Il London Bridge, quello di Geordie e dei cervi del parco del re, quello che cade, fu l’unico ponte di Londra per un sacchissimo di tempo, prima romano e poi medievale.
Probabilmente è il più famoso ponte sul Tamigi e se state pensando a delle torri, allora state pensando al Tower Bridge, più famoso oggi ma molto più recente.

Comunque, essendo ormai inservibile il vecchio ponte medievale, causa ridotte dimensioni e una notevole superfetazione di edifici sul ponte stesso, nel 1824 si decise di costruirne uno nuovo in luogo di quello storico, e così fu. Anche il nuovo ponte, il cosiddetto ‘Ponte di Rennie‘, si rivelò presto inadeguato, perché ebbe la malaugurata idea di cominciare a sprofondare nelle limacciosità del fiume. E fu così che negli anni Sessanta, ieri, fu inaugurato il terzo ponte, il London Bridge di oggi.
Che uno quando va a Londra e gli vien voglia di vedere il famoso London Bridge delle canzoni ci va e poi commenta: “apperò, bel cesso, me lo immaginavo meglio“.

Il ‘Ponte di Rennie’ non fu però distrutto, ma smontato, numerato accuratamente e rivenduto nel 1968 al signor americano McCulloch, il signore delle motoseghe.
Il signor McCulloch se lo portò via pezzo per pezzo e lo rimontò in Arizona, a Lake Havasu. Narra la leggenda che il signor McCulloch fosse convinto di aver comprato il Tower Bridge e che abbia scoperto l’errore solo una voltà là, ma l’interessato (ovviamente) nega e va bene americano ma pirla del tutto forse è davvero eccessivo.

Il London Bridge fa bella mostra di sè oggi in Arizona, come detto, in una bella cornice per nulla appariscente ed elegante invero:

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Qui dal vivo. Americanata? Forse, anzi probabile. Gli è che il signor McCulloch non si limitò al ponte ma ci costruì attorno tutta una cosa tipo parco tematico in stile inglese – e per stile inglese si intenda il poco coerente stile Tudor – che oggi è la seconda attrazione dell’Arizona, battuta solo dal Gran Canyon. Imperdibile il London Bridge Resort, con vista sul ponte: ecco qua.
E fu così che il ponte che viaggiò per 8774 chilometri si gode ora la sua nuova celebrità come maggiore attrazione di uno splendido parco tematico per ritardati amanti della vecchia Europa.

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Penguin Random Horn

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Nella mia consueta lettura mattutina del Financial Times (la fluttuazione del prezzo del grana boliviano condiziona pesantemente la mia giornata), scopro che con la fusione di Random House e Penguin (un urrah per la seconda, la prima a noi italiani è del tutto ignota) è nata la più grande casa editrice del mondo, un giochetto da quindicimila titoli l’anno in aperta sfida al largheggiare di Amazon. La prima porta in dote il Sudamerica, la seconda l’India e importanti pezzi di Cina.
Bon, grande brutto piccolo bello colossi mah viva copertine Penguin, i pensieri si accavallano con logica, quando mi viene in mente Jim Stanford Horn: non ho idea di chi fosse, se ne è andato pure giovane, porello, ma di certo la scelta per il suo Final Chapter è di quelle che si ricordano. Una copertinona Penguin tutta sua, le note biografiche sulla costola e un apprezzabile tocco d’ironia.
La sepoltura è all’Highgate Cemetery di Londra, lo stesso di Marx per intendersi, e rientra nel genere cimiteriale della lapide-con-libri, pittosto diffuso a tutte le latitudini (un altro esempio nello stesso cimitero) e il cui significato credo sia sostanzialmente “libri uao!”. Chissà se Jim sarebbe contento che la Penguin si sia fusa con gli americani brutti?
A ogni modo, fermo il rispetto per Jim Horn, non posso non mettermi a ridere di fronte al presidente degli amici del cimitero di Highgate, uscito dritto dritto da uno sketch dei Monty Python: The Lord Palumbo of Walbrook. Miledi tuttobbene?

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fresconerie: il 23 aprile, la morte della letteratura

I due signori qui rappresentati, ben noti di viso un po’ meno per lettura diretta, sebbene non si siano mai incontrati e abbiano frequentato ambienti e generi letterari limitrofi ma non contigui, condividono in sorte un giorno dell’anno e una buffa serie di conseguenze.

Il 23 aprile di ogni anno, vi sarà capitato, su un qualsiasi giornale dotato di paginette della cultura appare invariabilmente un trafiletto che segnala la festa dell'”International Day of the Book“, una festosa occasione promossa dall’Unesco per celebrare e promuovere la lettura nel mondo. Oddio, a dirla tutta l’Unesco promuove insieme anche l’istituto del copyright, ma lasciamo perdere.
Il giorno, ovvio, non è scelto a caso: il 23 aprile – come non mancherà di far notare l’articolista o il conduttore radiofonico in vena di amenità culturali – è il giorno della morte sia di Shakespeare che di Cervantes. Orpo, e non basta: non condividono solo il giorno ma anche l’anno, il 1616.

Il 23 aprile 1616, una bella coincidenza, parafrasando il detto di un altro giorno ecatombale si potrebbe dire “the day the literature died“, tradotto in ammazza-che-botta-p’-‘a-curtura, due giganti in un colpo solo. E l’Unesco ci fa festa, invitando tutti a pigliare in mano un libro qualsiasi (comprato, grazie).

Va bene.
Anzi no. Non va bene. Perché a voler essere pignoletti Cervantes morì il 22 e fu sepolto il 23, seppure sia quest’ultima la data che si usa per celebrarlo. Tutto qui? No, c’è più sostanza. Il 23 aprile 1616 a Madrid era un sabato, mentre a Londra, e anche a Stratford-upon-Avon, il 23 aprile 1616 era un martedì. Già.

Possibile? Sì, possibile. Il calendario gregoriano, utilizzato in Spagna, precedeva il calendario giuliano, adottato dagli inglesi, di dieci giorni: ovvero, per tradurre la questione, quando Cervantes morì Shakespeare era ancora vivo e aveva davanti ancora dieci giorni di vita. Se traducessimo il giorno della morte di Shakespeare nel calendario gregoriano, la data sarebbe il 3 maggio.
E l’Unesco scrive: “23 April is a symbolic date for world literature, since 23 April 1616 was the date of death of Cervantes, Shakespeare and Inca Garcilaso de la Vega“, una bella fresconeria, appunto. Ah, e inoltre El Inca, Garcilaso de la Vega, storico e letterato del Vicereame del Perù, probabilmente morì il 21 o il 22, chissà poi secondo quale calendario.

Il prossimo 23 aprile fateci caso, sicuro che qualcuno prima o poi lo dirà: “oggi morirono sia uno sia l’altro”, e noi abbiamo già pronta la precisazione da salottino dei puntigliosi. Il fatto è che, come genere umano, ci piacciono moltissimo le coincidenze, e ancor più raccontarle per gustarsi la sorpresa degli astanti. Anche se non hanno alcun senso.

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il tetramorfo e la città di Alba

«Il primo vivente era simile a un leone , il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l’aspetto d’uomo, il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola; i quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi».
(Apocalisse 4,7)

Più propriamente, secondo il profeta Ezechiele, angelo, bue, aquila, leone. Sono gli evangelisti, rispettivamente Matteo (angelo), Marco (leone), Luca (bue) e Giovanni (aquila), rappresentati nella tradizione con l’iconografia tetramorfica, ossia di quattro elementi, ciascuno secondo le caratteristiche del proprio vangelo. Per meglio spiegarsi, se Giovanni scrisse il vangelo più acuto dal punto di vista teologico, la tradizione lo rappresenta con l’aquila, per la vista eccezionale; viceversa, il vangelo di Matteo rappresenta Cristo dal punto di vista della propria umanità, rispetto agli altri, ed ecco il perché dell’angelo e così via. Eccoli qui, in parata:

«Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944».

Facile, è Fenoglio nell’incipit de “I ventitré giorni della città di Alba”. Ad Alba c’è una cattedrale sulla cui facciata, grazie a un poderoso restauro ottocentesco, occhieggiano i quattro evangelisti in tetramorfica forma. A una seconda occhiata, magari più attenta, si nota la disposizione dei quattro: angelo, leone, bue, aquila. Che, astraendosi e mettendo le maiuscole, diventa: Angelo, Leone, Bue, Aquila, ossia A-L-B-A.
Et vualà, il gioco è scoperto, l’artificio svelato e l’acrostico mostrato.

A questo punto, vien spontaneo suggerire il gioco medesimo alle seguenti cittadine: AALB (Svezia nordorientale), BALA (Siria neobabilonese), LABA (Grecia santorinica), AABL (isole alfabetiche), LAAB (sotto il Gran Sasso), BAAL (Landa degli Orchi). Sconsigliato, invece, alla città di BLAA (Kentucky remoto), che è comunemente riconosciuto come un brutto posto.

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corpo che porta pesante carico

In previsione millenaria, Hitler (Führer und Reichskanzler) cominciò a vagheggiare un completo rifacimento di Berlino in chiave di capitale del mondo (Welthauptstadt), così fu che chiamò il suo architetto di fiducia, Speer, e gli disse: “mi raccomando, grande” (große).
Non c’era bisogno, Speer era il teorizzatore delle rovine titaniche visibili per millenni e millenni, le cose le costruiva grandi anche da solo senza spinta. Si mise al tecnigrafo e progettò, come è noto, lo stadione (Olympiastadion), poi costruito, l’allargamento della Charlottenburger Chaussee (Charlottenburger Chaussee) con la colonna della Vittoria (Siegessäule), fatto, una nuova immensa cancelleria (große, große) e, non pago, un’altra nuova cancelleria ancor più grande (große, große, große); progettò poi il salone del popolo (Volkshalle), uno smambrone che avrebbe dovuto avere una cupola große sei volte quella di San Pietro, e un arco di trionfo che avrebbe dovuto avere un arco talmente alto da contenere comodamente l’arco di trionfo parigino (große triumphbogen). Il tutto per adeguare il tono al tono, la capitale all’impero.

Non andò così, è noto, perché i materiali e la manodopera servirono per la guerra (weltkrieg) e poi le cose andarono in vacca (huregehen) come si sa.
C’erano, in realtà, anche alcuni motivi di non secondaria importanza che ostacolavano i millenari piani del duo: il terreno paludoso di Berlino, infatti, cospirava contro la grandeur nazista (Erhabenheit) e aveva deciso di non reggere grandi pesi (schwergewicht). Hitler voleva mandare l’esercito (wehrmacht) contro il terreno paludoso, per fargli capire chi comandasse, ma Speer lo riportò a più miti consigli (gutenargumentierend).
Fu così che furono adottate le seguenti soluzioni: il terreno ribelle fu fecondato con vigoroso seme maschile ariano per conferirgli durezza e resistenza (samenzellendauerfestigkeit o spermendauerfestigkeit); Speer fu fatto sdraiare nel fango per alcuni mesi (Speerabgestellt) per convincere il particolato a non rompere le palle (ballbrechen); fu promulgata una legge che costringeva i terreni paludosi a espatriare (rausaktstronkzt); si pensò di spostare Berlino a Monaco (BerlinoobenMunchenkonstruiren); e, infine, si propose di costruire una Germania di cemento su cui far poggiare la Nuova Germania (NeueDeutschlandobenDeutschlandzement). Niente di tutto ciò ebbe successo.

Fu così che i due brillanti cervelli (brillantgehirn) decisero di fare una prova, per vedere quanto fosse bastardo il terreno: fecero costruire un cilindrone di cemento davvero pesante (großegroßegroßezylinderzement) e lo piazzarono in luogo adatto, per capire effettivamente come stessero le cose. Il cilindrone, realmente il Schwerbelastungskörper, ossia il corpo che porta pesante carico (mai un articolo i tedescoidi), nei tre anni di test avrebbe dovuto sprofondare al massimo 6,35 centimetri (6,35 zentimetern). Invece, il vigliacco sprofondò di più di 17 (17,78 zentimetern) dimostrando che era praticamente impossibile costruire su quel terreno non ariano. Hitler fu molto dispiaciuto (kazzfankulen), Speer per poco non fu mandato a far compagnia al terreno per sempre (forevatot) e tutta la faccenda fu lasciata lì, niente Welthauptstadt.

La cosa rimase lì a tal punto che il cilindrone grosso grosso è ancora lì che fa bella mostra di sé in General-Pape-Straße/Loewenhardtdamm, come da dimostrazione:

Un altro contributo importante contro la dittatura nazista. Grazie, terreno berlinese, grazie cilindrone, anche a voi dobbiamo una parte di libertà.

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cento anni di velocità e qualche cilindro in più

Nel 1894, Evelyn Henry Ellis figlio cinquantunenne del sesto Barone Howard de Walden nonché parlamentare ben inserito nel milieu della nobiltà inglese decise di comprarsi un’automobile. Poiché il fordismo e le concessionarie erano di là da venire, si recò a Parigi alla rinomata fabbrica Panhard et Levassor e acquistò il prodigioso modello appena uscito, con motore bicilindrico a V di Daimler di 1.060 cm³, visibile qui a destra nella fotografia scattata in pericoloso movimento.
Maledizione, la nobiltà inglese a bordo di un’auto franzosa con motore tedesco, che onta per l’Impero: fatto sta che macchine inglesi non ne esistevano. Fu così che Ellis acquistò l’automobile, assunse la dotazione d’obbligo di una schiera di meccanici e autisti e intraprese la via verso casa.
Che scalpore, che meraviglia, che rapidità: la prima automobile a toccare il sacro suolo albionico e a percorrere le cinquantasei miglia da Southampton a Londra, novanta chilometri, in appena cinque ore e trentadue minuti. L’era della velocità era appena iniziata, alla prodigiosa velocità di sedici chilometri all’ora e prometteva bene.
Infatti, da pochi giorni si era conclusa con grande eco la prima gara della storia riservata a mezzi a trazione non animale, la Parigi-Rouen: vinta dal trattore De Dion-Bouton all’iperbolica media di diciottovirgolacinque chilometri all’ora, il più veloce sul percorso grazie ai venti cavalli vapore sprigionati dal motore da due tonnellate, vide il trionfo della tecnica di Panhard et Levassor, che equipaggiarono quattro automobili con motore a scoppio.
Due di queste erano proprio proprio uguali al nuovo balocco di Ellis, il quale pistava rombando senza posa per la campagna inglese.
Illegalmente. Era in vigore in Inghilterra, infatti, la cosiddetta “legge della bandiera” che, con l’intento di preservare innocenti vite di passanti straziate dai nuovi mezzi di locomozione, prevedeva che tutti i mezzi a trazione non animale non potessero superare le quattro miglia all’ora. Figuriamoci, andare a quattro quando potresti andare a sedici, mai sentito. E non bastava: la stessa legge, da cui il nome, prevedeva ancora che il mezzo meccanico fosse preceduto da un uomo, a piedi o a cavallo, che sventolasse una bandiera rossa, al fine di avvisare i pedoni dell’arrivo della potenza distruttrice e farsi di lato. Ecco, ci mancavano gli sbandieratori, a rallentare le schegge del progresso.
Ellis, che era uomo di molte risorse nonché, ribadisco, proprietario di una fuoriserie paragonabile al lampo costretta a viaggiare come cavallo viaggia, non si perse d’animo e, grazie al proprio ruolo di membro del real Parlamento inglese, fece abrogare la legge della bandiera, liberando la velocità dalle briglie del conservatorismo e della noia.
Era cominciata un’era, l’era della tecnica e del motore. Un’era talmente nuova e strabiliante che, a oggi, il propellente è in sostanza il medesimo e il principio del motore a scoppio, sebbene con vari cilindri in più, è esattamente identico. Ma vuoi mettere la capienza del bagagliaio?

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metti quattro primedonne a tavola

E’ il 18 maggio 1922, sera, e ciò che avrebbe potuto essere una serata memorabile si trasformò in una catastrofe. Socialmente parlando.
I coniugi Schiff, esuberanti esteti, lui scrittore poi traduttore di Proust, lei ricca figlia di un commerciante, organizzarono una seratona a Parigi in onore di Diaghilev e dei balletti russi. Poi guardavamo con le facce assenti  / la grazia innaturale di Nijinski / E poi di lui s’innamorò perdutamente / il suo impresario e / dei balletti russi. Bella gente, compagnia affabile, insomma un ricevimentone con le carte in regola. Sbrillocchi in ogni dove e neuroni à go-go.
Ma lo scopo, vero, dei coniugi era un altro: riunire al proprio tavolo, occasione ghiotta, i quattro genii prediletti, Proust, Joyce, Picasso e Stravinskij. Eravamo quattro amici al bar. E la cosa, in effetti riuscì, divergendo però dagli intenti. Infatti l’errore è madornale: mai mescolare troppe primedonne, per ogni primadonna – si sa – servono almeno due o tre gregari dotati di turibolo ripieno di incenso, che sappiano fare le domande giuste e applaudire al momento appropriato. Calcisticamente parlando, la stessa cosa avviene in una squadra, in cui servono i portatori di palla schierati attorno al piede fino; oppure in una spedizione avventurosa del primo Ottocento, la star dev’essere una, l’esploratore inglese con il cappello del comando, gli altri portano le valigie e montano le tende, zitti.

Ecco come andò: Schiff, l’ospite, per caldeggiare la conversazione, invitò Picasso a fare un ritratto di Proust, uno di questi giorni: “Solo un disegno, basterebbe un’ora!”. Il pittore rispose picche, quello scrittore pallido e gonfio che parlava soltanto di aristocratici gli dava sui nervi. Proust fece finta di non capire che Stravinskij avrebbe voluto parlare della propria musica e gli chiese: “Le piace Beethoven?”; risposta: “Lo detesto!”. Invece di lasciar perdere, proseguì: “Ma come, e gli ultimi quartetti?”; “Le cose peggiori che abbia mai sentito”. E già due delle sei possibili relazioni erano andate in vacca.
A mezzanotte arrivò Joyce, stanco e a disagio perché era l’unico senza smoking. Esito: non aprì bocca tutta la sera, tenendo la testa tra le mani e cominciò a tracannare tutto quello che passava per la tavola. E siamo a cinque relazioni interrotte sul nascere, ma la cosa poteva ancora peggiorare.
La serata per i cinque finì poco dopo. Proust invitò Schiff e Joyce sulla propria automobile: appena salito, Joyce si accese una sigaretta, abbassando il finestrino. Tragico errore, si sa, visto che Proust era asmatico al grado massimo. Schiff intervenne, chiuse il finestrino e chiese a Joyce di spegnere. Lui lo fece ma il suo umore non migliorò. Infatti, cominciò a parlare dei propri problemi alla vista. Proust, che non attendeva altro, rispose con accurata descrizione dei propri problemi di stomaco, bruciori.
La conversazione proseguì a monosillabi (“Le piacciono i tartufi, monsieur Joyce?”. “Sì”) fino all’atto conclusivo, un bello scambio di cortesie: “Mi dispiace di non conoscere l’opera di monsieur Joyce: replica: “Non ho mai letto monsieur Proust.
Fossero stati sgherri da osteria invece che scrittori sarebbero volate bottigliate alla carotide.

Pochi mesi dopo Proust morì: al Père-Lachaise, tra la folla, c’era anche Joyce. Chissà se, nel frattempo, aveva letto la Recherche.

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american ueioflaif

Oltre a quella bufala gigantesca del cosiddetto sogno americano, un’altra meraviglia etico-ideologica esportata da quello splendido paese è senza dubbio il mito dell’uomo forte, più in specifico l’epica del rude uomo di frontiera rotto a ogni frangente. Per dirla con la loro retorica ottocentesca, “Log cabin and hard cider man” (“l’uomo della capanna di tronchi e del sidro forte”). Imperdibile, grazie.
Esempio luminoso di uomo-della-capanna-di-tronchi-e-del-sidro-forte fu il presidente americano William Henry Harrison. Il quale, nella campagna elettorale del 1840 prese sonoramente per il culo il rivale Martin Van Buren, il presidente uscente, dipingendolo come una mammoletta effemminata, colpevole peraltro di lasciarsi andare a intollerabili mollezze: egli aveva infatti fatto installare una vasca da bagno della Casa Bianca. Che evidentemente prima non c’era.
Il mito del forte pioniere, poi, è particolarmente interessante perché, come molte altre cose americane, non è necessario sia reale: infatti, Harrison non faceva affatto una vita rude, viveva anzi in una residenza sontuosa e i pionieri li aveva forse visti con il proprio monocolo da lontano, e forse aveva pure una vasca. Ma non importa, in campagna elettorale il populismo pare sia necessario. E Harrison vinse.
Il giorno dell’insediamento, il rude pioniere neo-presidente sfidò una tempesta di neve a Washington per celebrare il proprio discorso ufficiale. Lui avrebbe anche voluto coprirsi ma i suoi consiglieri gli fecero notare che, per rispettare il cliché di uomo che beve sidro forte, sarebbe stato meglio non indossare il mantello e il cappellone. Va bene, e così fu. Bello duro.
Fece il più lungo discorso, ore e ore, della storia dei presidenti americani, e la sfida alle intemperie fu un successo. Solo un po’ di tosse, dopo.
Anzi, una bella polmonite, qualche giorno dopo. Fulminante, un mese dopo. Il 4 aprile 1841, un mese esatto dopo quel discorso, l’uomo della capanna di legno stirava le gambe, come una mammoletta. Secco lui e secco il mito. Anzi no, quello resiste.
Che soddisfazione, però: morto ma titolare di due luminosi record della storia americana, il più lungo discorso di insediamento e il più corto mandato da presidente, un mese. Son soddisfazioni. E cosa conta morire, se puoi avere dei primati? Gli uomini duri se ne fregano, e vincono a ogni costo. Viva.

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la tafofobia e gli aneddoti da bar

La tafofobia, letteralmente la paura del sepolcro, fu definita come patologia alla fine dell’Ottocento, come risultato di una vasta aneddotica che descriveva casi accertati di sepoltura prematura dovuti a errata constatazione della morte.
Cagarella di essere sepolti vivi, detta aulicamente.
Naturalmente la letteratura medica sull’argomento si infiorava di racconti raccolti qua e là e di una casistica a dir poco striminzita, se non inesistente, ciò nonostante questo tipo di fobia, sostanzialmente sconosciuto prima, fece breccia nei cuori di fine Ottocento.
Gli inglesi, cui è sempre piaciuto fondare società all’uopo, costituirono la Royal Humane Society, ossia The Society for the Recovery of Persons Apparently Dead, l’anatomista danese Jacques-Bénigne Winslow prescriveva ai propri collaboratori di versare dell’urina calda nella bocca dei cadaveri per scongiurare fenomeni di morte apparente, e nel frattempo nei bar i racconti spuntavano a dozzine. Un successo intramontabile.
Edgar Allan Poe ne scrisse parecchio poiché – essendo soggetto a fenomeni di catalessia – temeva egli stesso di risvegliarsi a un certo punto all’interno di una bara: “La sepoltura apparente”, nei racconti dell’orrore, ma anche “La caduta della casa degli Usher” e “Il barile di Amontillado”, sempre suoi. E c’è chi fece fortuna producendo i cosiddetti “sarcofaghi di sicurezza”, variamente dotati di campanelli, corde o tubi per respirare, e ne vendette parecchi, senza dubbio. Oggi prescrivono i telefonini che, però, spesso non prendono.

Poiché c’è molto più Ottocento attorno a noi di quanto possiamo immaginare (e di questo bisognerebbe riparlare), i racconti di sepoltura prematura fioriscono a go-go anche oggi, ambientati in località amene sudamericane o dell’Europa dell’Est, non a caso. E’ di ieri la notizia di una signora che in Colombia si sarebbe risvegliata proprio all’ultimo, ovviamente in tre righe e senza un riferimento uno se non un ipotetico luogo. Ed è il Corriere.
Il Sundance Film Festival, acclamata fucina di novità cinematografiche, è da poco andato in visibilio per Buried, un film di novantuno minuti ambientato tutto tutto in una bara, in cui il protagonista si sveglia. Ci sarebbe anche chi ha provato quanto si riesce a respirare in una bara sigillata e ha stabilito con certezza che il massimo è un’ora d’aria. Quindi, ci sono trentuno minuti di troppo nel film, direi. Analogamente, Kill Bill volume 2 ripiglia la stessa dinamica. Naturalmente non basta, sempre di ieri è la notizia che il segretario della Fit-Cisl ligure ha richiesto – per alleviare le condizioni di lavoro degli addetti all’osservazione dei cadaveri nelle camere mortuarie dell’ospedale San Martino di Genova – che alle salme o presunte tali siano messi dei braccialetti elettronici o delle videocamere. Così non gli tocca andare a vedere ogni ora se c’è qualcuno di vivo. La morte apparente è tra noi, alla faccia della scienza scientificissima.
I racconti, poi, sono tanti. Ne basti uno per tutti: qualche anno fa in un obitorio sovietico (non russo, attenzione: sovietico) un guardiano notturno è stato condannato all’ergastolo per avere avuto atti di necrofilia su un cadavere di una giovane donna, la quale – a causa del rapporto – si è svegliata da uno stato di morte apparente e si è messa a urlare. Io dico che, però, ci vorrebbe un poco più di precisione: prima di tutto non si trattava di necrofilia, evidentemente, dato che la signora non era morta. Secondariamente, invece di ringraziare il guardiano che ha evitato fatti peggiori, lo si condanna per un reato che, di sicuro, nel codice penale non c’è. Stupro di apparente cadavere. Almeno si riconoscano gli effetti positivi dell’atto. Un anatomista danese del secolo scorso avrebbe potuto trovarla una buona pratica per individuare i vivi tra i morti, probabilmente.
Come che sia, l’Ottocento è tra di noi, ovunque. Pensateci.

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isterismo, isteria

Lungi da me insinuare alcunché, riporto solamente un’etimologia interessante e non scontata:

isterismoIl che mi serve, tra l’altro, come pretesto per rimandare a questa storia, ben raccontata da sanfello.