cinquant’anni fa a genova, reggio emilia e un fascista al governo

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[audio:http://www.trivigante.it/public/tregenda/wp-content/uploads/2010/07/Fausto-Amodei-Per-i-morti-di-Reggio-Emilia.mp3|titles=Fausto Amodei – Per i morti di Reggio Emilia]

Il 30 giugno 1960 la Camera del Lavoro di Genova convocò una manifestazione in risposta alla decisione dell’MSI di organizzare il proprio congresso nella città ligure, città decorata con medaglia d’oro della Resistenza. Non era certo la prima manifestazione di protesta contro il congresso fascista, e non sarebbe stata l’ultima. Già nei giorni precedenti a Genova si registrarono scontri tra forze antifasciste e polizia, il 25 e il 28, e la polizia caricò duramente su indicazione precisa del Presidente del Consiglio. Il Governo, infatti, era un monocolore democristiano che aveva ottenuto la fiducia grazie ai voti determinanti dei missini. Va da sé che intendesse stroncare ogni forma di opposizione agli alleati.
Lo stesso Pertini, presente a Genova il 28, disse a proposito delle manifestazioni di protesta: «La polizia sta cercando i sobillatori di queste manifestazioni, non abbiamo nessuna difficoltà ad indicarglieli. Sono i fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, i torturati della casa dello studente».
Il 30 la manifestazione si svolse con tranquillità, nonostante la presenza massiccia di forze dell’ordine, finché in piazza De Ferrari, a corteo disciolto, cominciarono gli scontri con la polizia: sassi, spranghe da una parte, idranti, lacrimogeni e camionette dall’altra. Dopo alcune ore di scontri accesi, temendo che alla polizia giungesse l’ordine di sparare, i rappresentanti dell’ANPI mediarono tra le parti e ottennero la cessazione degli scontri a fronte della promessa che la polizia non avrebbe effettuato arresti. I feriti furono centinaia.

Nei giorni successivi le proteste si allargarono a macchia d’olio e, a differenza di Genova, il Presidente del Consiglio diede ordine di aprire il fuoco, in situazioni di emergenza. Disse: «Ogni tentativo di minaccia alle istituzioni (l’ho già detto, ma mi pare che nel nostro Paese vi sia molta gente con l’ovatta nelle orecchie), e quindi di pericolo per la libertà, sarà decisamente contenuto e, ove sia necessario, senza esitazioni, e per il bene della collettività decisamente represso». Si contarono undici morti e centinaia di feriti, complessivamente, nelle due settimane successive. Il cinque luglio a Licata la polizia sparò sulla folla e uccise un manifestante, ferendone ventiquattro. Il 6 luglio a Roma, a Porta San Paolo, luogo nel quale ebbe inizio la Resistenza, gli scontri furono violentissimi e la polizia a cavallo caricò i manifestanti. A Porta San Paolo morì un agente e i feriti furono moltissimi. Il giorno dopo, a Reggio Emilia fu organizzato un corteo di protesta e lo sciopero cittadino. Ventimila manifestanti sfilarono per la città e un gruppo di persone, tra cui trecento operai delle Officine Meccaniche, si fermarono davanti al monumento ai caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 la polizia e i carabinieri caricarono senza alcuna ragione apparente, costringendo i presenti alla fuga e a cercare riparo dietro barricate erette all’improvviso. Dopo una strenua resistenza dei manifestanti, la polizia aprì il fuoco. Morirono in cinque, quattro operai e un pastore, e tre di loro erano stati partigiani. I loro nomi, se avete ascoltato la canzone all’inizio, dovreste a questo punto averli sentiti.
I morti di Reggio Emilia.
Nei giorni successivi, il congresso dell’MSI a Genova fu sospeso per ragioni di opportunità, il partito tolse il sostegno al Governo, votando contro la legge di bilancio, ed esso cadde. Nei processi che seguirono, quasi tutti gli imputati per i fatti di Genova, quarantatre manifestanti, vennero condannati a pene fino a quattro anni e cinque mesi. Al contrario, a Reggio Emilia il vice-questore Cafari Panico, responsabile dell’attacco, fu assolto con formula piena, poiché non fu ritenuto responsabile dell’ordine di usare violenza verso i manifestanti.

Questa in breve la storia di quei giorni, cinquant’anni fa. Ma chi era il Presidente del Consiglio che diede l’ordine di sparare? Fernando Tambroni. Il cui cognome per esteso, sarcasmo del nomen omen, era Tambroni Armaroli. Prima segretario locale del Partito Popolare, poi iscritto al PNF e centurione della milizia antiaerea di Ancona, intuita l’aria nel 1943 si defilò e si iscrisse alla DC, nascondendosi fino alla Liberazione. Saltò fuori al momento giusto e, insulto, fu eletto prima all’Assemblea Costituente e poi in parlamento per tre volte consecutive. Fu varie volte ministro, tra cui all’Interno tra il 1955 e il 1959, anni nei quali guidò con piglio fascista l’ordine nelle piazze italiane. Fu incaricato da Gronchi per ben due volte come Presidente del Consiglio ed entrambe resse un governo monocolore con, appunto, l’appoggio dei missini.

Dulcis in fundo, per meglio ricordare a causa di chi caddero i compagni cinquant’anni fa, ecco una nota dell’ufficio stampa di Tambroni del 1960: «L’onorevole Tambroni appartiene a quella borghesia maschia e virile che si affaccia sui problemi sociali e politici senza infingimenti, ma soprattutto senza paura. È un lavoratore efficiente e metodico in un mondo di pigri, un solutore di problemi legislativi, un difensore strenuo e implacabile di quella invalicabile linea che distingue la nostra etica politica dal marxismo della estrema sinistra».
Borghesia maschia e virile, dunque, che fa sparare sui manifestanti indifesi. Tanti non dimenticano: qui un esempio. Grazie a loro.

  • siu
    Lug 6th, 2010 at 07:17 | #1

    Sezione: il dovere di non dimenticare; sezione: dignità e allerta civile; sezione: la memoria parte viva dell’attualità; sezione: la fatica di documentare, giorno per giorno, il passato per non riviverlo come futuro… In queste e molte altre sezioni, carissimo Trivigante, l’Oscar è già tuo.

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