fine editions

gallimardL’anglicismo sta per “edizioni di libri belle belle”, più o meno, e intendesi con questo le idee grafiche che contraddistinguono una collana di testi o una casa editrice tutta in modo trasversale ai titoli, così che i singoli volumi appaiono identificabili a prima vista e l’identità è chiara a prescindere. E non parlo solo di copertine, ma anche di fonts, di proporzioni tra bianco e stampato nella pagina, di dimensioni eccetera.
Esempi lampanti sono (erano) Einaudi, con le strepitose edizioni bianche con riquadro in alto a seconda della collana, piuttosto che la Medusa Mondadori, verde, arancione o gialla a seconda, o i Feltrinelli di una volta a immagine intera con titolo sovrapposto. Certo, a cercar bene poi si scopre, per esempio, che Einaudi l’aveva disegnata Munari, tra gli altri, Feltrinelli l’aveva interpretata Mangiarotti e i nomi importanti applicati alle rese grafiche erano tanti.
Sempre per stare in ambito esempi, Munari per Einaudi curò le collane Piccola Biblioteca (con il quadrato colorato in alto), Nuova Universale (con le strisce orizzontali rosse), Collezione di poesia (con i versi su fondo bianco in copertina), Nuovo Politecnico (con il quadrato rosso centrale), Paperbacks (con il quadrato blu centrale), Letteratura, Centopagine, e le opere in più volumi (Storia d’Italia, Enciclopedia, Letteratura italiana, Storia dell’arte italiana). Niente male.
Oppure, per citarne due per fortuna immutabili nel tempo, Sellerio e Adelphi, che fan subito arredamento, in particolare le edizioni della seconda, con quella cornicetta liberty copiata da Aubrey Beardsley e piazzata in tutte le collane dalla copertina monocolore molto molto chic.
Il caso più strepitoso a parer mio, ma è davvero facile, è la Penguin, che a partire dal logo aveva dato un’impronta irresistibile a tutte le proprie collane. Non a caso, quando l’anno scorso David Pearson, ex designer della Penguin, ha fondato una propria casa editrice (White’s books) si è portato dietro l’idea e la bravura e infatti adesso disegna libri bellissimi come prima ma altrove.
Oppure, perché i franzosi non pensino giammai di essere secondi ad alcuno, il caso luminoso di Gallimard che, dai Cinquanta ai Settanta fece alcune tra le più belle edizioni in assoluto, copiatissime in Italia. E poi crollò negli Ottanta, come quasi tutti.
Una su tutti, per fortuna, resiste al tempo e allo sfacelo sostanzialmente identica: l’edizione italiana de Il Giovane Holden, completamente bianca e nulla più.
E l’ambiguità attuale, visto che i disegnatori editoriali sono attualmente anche comunicatori, sta qui: deve una copertina di un libro aggiungere contenuto e significato al testo contenuto o deve soltanto accompagnarlo secondo la regola aurea delle copertine (“autore, titolo, casa editrice”)? E se la risposta pare ovvia, perché allora fanno tutti il contrario? Ancora una volta, direi, less is more, peccato che di questi tempi non ci creda più nessuno.

  • Set 23rd, 2009 at 19:57 | #1

    Nell’Italia di oggi val la pena di citare ISBN. Sia per il nome che per il design. Copertine tutte uguali, bianche, il codice a barre in copertina (e solo lì)… Ma ancora non ne ho comprato uno (e ci sarà un perché?)

  • Set 23rd, 2009 at 20:47 | #2

    Eh sì, il Munari einaudiano – ma parliamo di un genio – non si può non citare. Io ci aggiungerei anche l’Enzo Mari per Bollati Boringhieri. Ciaocaro, è sempre un piacere passare di qua.

  • siu
    Set 26th, 2009 at 08:49 | #3

    Va bene. Ne prendo atto. Nonostante abbia aspettato qualche giorno in speranzosa previsione di reazioni, che non sono arrivate. Nonostante mi sia detta e ripetuta che la scrittura ahi quanto bella e appropriata di Trivigante semplicemente non lo poteva contemplare, che forse era un abbaglio della mia vista zoppicante… sicchè tornavo a buttarci l’occhio, dicendomi ecco, adesso troverò un bell’ “oppure” (bello semplicemente perchè esatto, come un conto che torna), magari un “come anche”…
    Invece no. A metà della settima riga di questo post resta piantato uno sporco e brutto “piuttosto che” (in funzione non avversativa).
    Eppure, giuro, sono non solo convinta, ma anche sostenitrice del fatto che la lingua debba cambiare ed evolversi, e che questo succeda soprattutto in base all’uso. E ci mancherebbe! Ma se è un qualche criterio di “bello”, che comprenda in sè quello di “esatto”, ad improntare possibilmente la scelta delle parole che utilizziamo per esprimere le nostre idee, quell’espressione non riesce a non suonarmi come una forzatura gratuita e sciatta.
    Mi sono detta, ecco dove troverò sicuramente un puntello solido e inattaccabile alla mia opinione:
    http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/domande_e_risposte/grammatica/grammatica_065.html
    E invece probabilmente ho trovato solo l’attestazione-conferma di essere un gran cagacazzi.
    E allora prendila, caro Trivigante, per quel che è: sostanzialmente un complimento all’ottima scrittura cui ci hai abituati.
    (Ma se dovesse mai comparire un “assolutamente sì” o un “quant’altro”, sappiatevi che non rispondo di me).

  • trivigante
    Set 29th, 2009 at 11:25 | #4

    Oppure che altresì piuttosto, hai ragione su un sacco di cose. Ma la grammatica, ahinoi, più che prescrittiva ha da essere descrittiva e, quindi, porella, deve subire i contraccolpi delle bizze mie e di tanta gente come me, che a volte in effetti assolutamente sì si sveglia un po’ sciatta, come un lenzuolo stropicciato.
    Casca a fagiuolo, comunque, un consiglio di lettura che ho per le mani in questo momento: suggerisco, cara Siu (grazie per il servizio di vedetta costante e puntuale su significati e significanti), la lettura dell’ottimo De Benedetti (http://www.laterza.it/schedalibro.asp?isbn=9788842089292), in cui coglie un sacco di punti importanti.

  • siu
    Set 29th, 2009 at 14:31 | #5

    Grazie per la dritta, caro Trivigante: penso proprio che mo comprerò.

  • siu
    Ott 7th, 2009 at 07:03 | #6

    Io, prima, avrei reputato di gran lunga più probabile che mi crescesse, che ne so, un chilometrico e purulento bitorzolo sul naso causato da un germe patogeno proveniente da Marte, rispetto alla possibilità di dire o scrivere (o solo pensare) “gli ho dato”, anzichè “ho dato loro”. Prima.
    Adesso -praticamente come se l’ipotetico bitorzolo di botto raddoppiasse ulteriormente il chilometraggio- non solo mi limito a contemplare questa possibilità, nooo: ritengo pure che sia la migliore.
    O.k., o.k., vi ho sentito: “Maprimadeche??”
    Prima di aver letto il libro di De Benedetti. Tra l’altro inaspettatemente leggero e piacevole… mannaggia a lui, e a Trivigante che me l’ha suggerito!
    Scusa, caro Trivigante… A proposito, sorprese come se piovesse: non è che nel commento al tuo ultimo post ti è scappato un errore di stumpa? Avrei giurato più probabile la comparsa sul tuo naso di almeno una carrettata, di bitorzoli marziani… (o è già uscito un nuovo De Benedetti sull’uso dell’articolo indeterminativo?).

  • siu
    Ott 7th, 2009 at 07:44 | #7

    E mi pareva a me, che non poteva essere…
    Commento non di Trivigante, erroneamente, nottetempo, apparve come suo.
    E allora, con barbe e allegri campanelli, carrettate di onore restituito, e di perdurante “chapeau!” (insieme al consiglio di dare una controllatina quotidiana alle condizioni del naso, non per altro, ma non vorrei che ci andasse di mezzo l’ottimo fiuto…).

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