Il 12 marzo del 1938 Hitler annunciò l’annessione dell’Austria al Reich.
Naturalmente, poiché godeva dell’appoggio da parte della Chiesa cattolica (da ricordare il vescovo Innitzer che concluse una sua dichiarazione scritta con “Heil Hitler”) e di larghissima parte politica, compresi i socialdemocratici, si concesse il lusso di indire un referendum un mese dopo, a cose ormai fatte. Fu così che il 10 aprile 1938 fu giorno di votazione per austriaci e tedeschi, a sancire una cosa ormai fatta.
Inutile dire che la propaganda fu massiccia e le contromisure imponenti: l’8% del corpo elettorale fu escluso dal voto (ebrei, oppositori, persone di cosiddetto sangue misto eccetera), la corrispondenza veniva affrancata con bolli inneggianti al “sì”, le radio furono sequestrate, le minacce implicite ed esplicite furono chiare a tutti. Inutile dire quale fu il risultato.
Anzi no: secondo i dati ufficiali il “sì” vinse con il 99,73% dei voti in Austria e con il 99,08% in Germania; l’affluenza fu del 99,71% in Austria e del 99,60% in Germania.
Facile, e l’Austria non esisteva più.
Ma il caso paradigmatico della votazione fu, senza dubbio, la scheda. Infatti, il quesito – formulato in forma confidenziale con il tu – postulava due domande in una: “Sei d’accordo con la riunificazione dell’Austria con il Reich tedesco avvenuta il 13 marzo 1938 e voti per la lista del nostro Führer Adolf Hitler?”. Già di per sé basterebbe, e invece no: il nome di Hitler fu scritto enorme e, questo bisognerebbe farlo studiare a scienze politiche, il tondo del “sì” era molto più grande di quello del “no” e centrato nella pagina, così da suggerire chiaramente il voto corretto.
Gli elettori, sebbene chiamati a convalidare il passato, compresero bene. D’altronde, come contraddire una scheda così?
