Giovedì scorso mi sono unito a partigiani, parenti di combattenti, radical chic, democratici sinceri e di facciata, cinefili, innamorati di Gian Maria Volonté, chiacchieroni, comunisti, giovani presenzialisti e vecchi dediti alle lettere al direttore, appassionati vari, per vedere “I sette fratelli Cervi“ di Gianni Puccini (e non Giacomo Puccini, bestia d’un Mereghetti), film del 1968. Sommo Volonté nel ruolo di Aldo Cervi, oltre a un cast importante.
Il film, sembra una banalità dirlo ma non lo è, fu sottoposto a censura preventiva e tale rimase – ossia tagliato – fino a oggi, ristampato e restaurato grazie all’Istituto Alcide Cervi. Il film, per fortuna, è disponibile qui.
Gli è che i Cervi, in particolare Aldo, erano cattolici ma nei primi anni Quaranta, mentre maturavano l’idea della resistenza armata e aumentava la loro insofferenza verso le collusioni della Chiesa con il Fascismo, si avvicinarono a posizioni comuniste, pur restando autonomi dall’organizzazione politica. La cosa, ovviamente, non piacque ai censori che provvidero a tagliuzzare pesantemente la pellicola.
La stessa sorte la subì “I miei sette figli” di Alcide Cervi, resoconto pubblicato nel 1955 che raccoglie le memorie del vecchio padre dei sette fratelli. La seconda edizione, del 1971, fu barbaramente tranciata dai Catoncini dell’epoca, che non potevano sopportare le cose come stavano. Solo nel 2010, e di nuovo per fortuna, è uscita la versione integrale da Einaudi. Quarant’anni ci sono voluti e uno vorrebbe non crederci.
Come che sia, alla proiezione era presente il figlio di Aldo Cervi, Adelmo. Il 27 dicembre 1943 aveva quattro mesi, per cui non ricorda di certo il padre e gli zii, oltre che gli avvenimenti di quei mesi. Ricorda però benissimo cosa accadde dopo. I sette fratelli furono prontamente insigniti della medaglia d’argento al valor militare («La fede ardente che li ha uniti in vita ed in morte ed il sacrificio affrontato con eroica, suprema fierezza, fanno di essi il simbolo imperituro di quanto possano l’amore di Patria e lo spirito di sacrificio») e i simboli imperituri furono chiusi definitivamente negli armadi: una famiglia devastata nella quale erano sopravvissuti i vecchi genitori, quattro vedove e undici nipoti bambini venne lasciata a sé stessa. Un solo cugino, adulto, si trasferì da loro per lavorare i campi, unico sostentamento, nessuno dei ragazzini maschi potè frequentare la scuola perché necessari a casa, la loro abitazione nel 1944 fu bruciata dai fascisti, la Contessa Sailcavolo Viendalmare qualche anno dopo vendette la casa e i terreni che i Cervi avevano in affitto per non avere a che fare con loro. E fu la fame, perché le medaglie, come si sa, non fanno passare l’appetito, nemmeno se sono di cioccolata, e i simboli (o i loro figli) a volte hanno il vizio di mangiare.
La Liberazione, dunque, non venne per tutti. Tributare onori, creare ed esaltare i simboli, gloriarsene, dedicare le strade e poi girarsi dall’altra parte è senza dubbio comportamento degno dei fascisti. Delle cose e delle persone bisogna occuparsene.