Per le estremità umane e motoristiche, nel 1920 la risposta è una e piena. E il tocco franscioso garantisce raffinatezza e qualità. Accorrete.
Categoria: trivigantismi
“Forse s’avess’io l’ale / Da volar su le nubi, / E noverar le stelle ad una ad una, / O come il tuono errar di giogo in giogo, / Più felice sarei, dolce mia greggia, / Più felice sarei, candida luna”, citazione necessaria e appropriata nel quarantesimo.
La luna, e qui si fa ora di scienze, si formò un gazilione di anni fa, ma neppure troppi, dall’impatto di un asteroide delle dimensioni di Marte sulla terra e poi, dai dai di forza centrifuga, centripeta e di venti cuochi, si è raggrumata nel bel tondo che conosciamo. Perché come diceva qualcuno, forse Leonardo a memoria, la natura tende al tondo, e il bisticcio è mio. Da allora, la luna si allontana in misura di qualche centimetro l’anno, finché tra qualche sfottilione di anni uscirà dall’orbita terrestre, principiando a vagolare per il cosmo, “solinga, eterna peregrina”. Ma non ci sarà bisogno di una missione lunare per legarla al nostro pianeta e riportarla all’ordine, perché prima che ciò avvenga il sole, agonizzante, si sarà inghiottito tutto quanto ci circonda e anche di più. Ingordo.
E ancora e ancora e ancora. Dippiù, munuocchin’ uorldbag men, l’uomo che tenta di fare moonwalking nel mondo sempre con la stessa borsa.
Il gesto è il messaggio, questo munuocchin’ non è un munuocchin’, gli autogrill sono con evidenza dei non luoghi, e qualcuno prima o poi farà, finalmente, della teoria sul nostro.
Per ora, in attesa, il gesto parla da sè.
monumenti (ai) caduti: colonna
Colonna, paesello dei castelli romani che diede origine alla famiglia omonima, possiede pregiata manifattura retorico-patriottica in tema di caduti di tutte le guerre in nome della Patria: spicca un fante torsonudato dai muscoloni scolpiti, antesignano dei Centocelle Nightmare, che sorregge nel palmo una colombina nell’atto di spiccare il volo.
L’anello di totano fritto che ella reca nel becco è con certezza la cena dei suoi rondinini, poverini poverini poverini.
Ah no, avaria e contrordine, non si tratta di colombina, bensì di fatina alata con camicia da notte, portante una coroncina d’alloro allo scopo di trovare, domare, ghermire e incatenare il nemico. La fatina sembra buona.
Il milite, proteso sul ciglio del dirupo, nulla ha a che vedere con il funzionamento della parabola retrostante.
Questo perché non vi siano incomprensioni di tipo tecnico.
munuocchin’ uorldbag men: Lucca
Là dove il gesto tecnico diventa metafora dell’esistenza è il munuocchin’ uorldbag men, ossia l’uomo che tenta di fare moonwalking nel mondo sempre con la stessa borsa. La cornice storica ben si adatta alla filosofia dell’atto, il sesto.
Con un occhio all’attualità e il solito esito.
Ancora sull’estetica monumentale applicata alla retorica patria: il caso di Montichiari.
Un alpino coraggioso nonché vivo tende la mano al compagno morente, risucchiato nel pavimento da un fenomeno – presumibilmente – paranormale, un poltergeist o l’assalto di una creatura delle profondità.
La mini-aquila in secondo piano suggerirebbe che la creatura mostruosa che vive sotto il pavimento sia austriaca, ma trattasi di evidente supposizione.
Bisogna aggiungere, poi e in tutta onestà, che l’alpino sano non pare troppo convinto del salvataggio, la mano è tesa sì ma distante e incerta, forse in lui è balenato il pensiero di essere risucchiato insieme allo sfortunato commilitone: meglio a lui che a me, par dire.
Ma no, certo che no, non può essere: l’alpino è coraggioso e difensore dei sacri valori dell’amicizia, quindi si scarti questa ipotesi insinuante. L’addebito vada alla mano incerta dello scultore, allora, come sempre avviene in questi casi. E viva gli alpini!
Ennesima impresa, la quinta, dell’uomo che tenta di fare moonwalking nel mondo sempre con la stessa borsa (munuocchin’ uorldbag men) e su superfici diverse: questa volta, egli offre un omaggio al poeta immortale nel suo luogo sepolcrale, unendo finalmente danza e poesia in una performans memorabile. Con il consueto esito.
cose abbandonate
Il principio è: cose umane abbandonate. Non sedie o panini, ma navi, aerei, chiese, costruzioni, città, ospedali, centrali nucleari eccetera.
Foto notevoli per un blog davvero ben curato: artificial owl.
Esiste una città dimenticata per millecinquecento anni, poggiata su una rupe in alto su un fiume, una volta centro di commercio e di scambio lungo una via importante, ricca di fontane, sorgenti e pozzi, con una larga piazza e un teatro di dimensioni imponenti. Ciò nonostante, dimenticata.
Per arrivarci, bisogna andare a Serravalle Scrivia, luogo ricordato più per le fughe di Coppi verso Sanremo che per la bellezza intrinseca, schiacciato tra la montagna e il fiume, ovviamente lo Scrivia, e come se non bastasse affettato a metà da rispettivamente: la statale dei Giovi, la ferrovia Milano-Genova e, non ultima, la A7, agghiacciante corridoio che travolge vita e persone.
In ben altra posizione, sul fiume e circondata da colline come detto, stava la città dimenticata: Libarna. Fondata nel III secolo a. C., prima ligure e poi romana, fu fiorente grazie alla via Postumia, vi si facevano le ceramiche e i mattoni, si coltivava la vite e si allevavano le bestie, si ergevano templi dedicati a Ercole e si rappresentavano le commedie e le tragedie in voga nell’anfiteatro a capofitto sul fiume.
Fu una città importante, finché non giunsero i barbari dopo sette secoli di onorata attività cittadina, e nel 452 fu abbandonata. E non esisteva ancora Forza Italia. Gli abitanti la smontarono fino alle fondamenta e riutilizzarono le pietre per costruire Serravalle Scrivia. Poi se ne dimenticarono.
Durante i lavori per la Regia Strada, ora dei Giovi, emersero reperti, fondamenta, mosaici e statue, ma c’era la strada da fare perché il Regno aveva fame di vie di comunicazione, e così furono scavati i quartieri verso il fiume, il resto giace tuttora sotto l’asfalto oppure ancora non sottratto alla terra. Il Re, che desiderava cocci per il lustro del regno, si portò tutti i reperti a Torino, per abbellire la capitale.
Nonostante ciò, la città si mostra per quello che era: ricca e grande, con l’anfiteatro lungo sessantacinque metri, un foro di dimensioni ragguardevoli, case spaziose e aperte, vie dritte e larghe, e – soprattutto – bella di una posizione sospesa tra collina e fiume.
Ancora oggi, a visitarla tenendo rigorosamente le spalle all’autostrada, alla ferrovia e alla camionale, facendo finta che non esistano, restituisce un’atmosfera irreale e quieta, affascinante spoglia di ciò che abbiamo scartato e dimenticato, nascosta dalla neve d’inverno e soleggiata e boscosa d’estate. Bellissima a vedersi e commovente nella sua solitudine.