E’ il 18 maggio 1922, sera, e ciò che avrebbe potuto essere una serata memorabile si trasformò in una catastrofe. Socialmente parlando.
I coniugi Schiff, esuberanti esteti, lui scrittore poi traduttore di Proust, lei ricca figlia di un commerciante, organizzarono una seratona a Parigi in onore di Diaghilev e dei balletti russi. Poi guardavamo con le facce assenti / la grazia innaturale di Nijinski / E poi di lui s’innamorò perdutamente / il suo impresario e / dei balletti russi. Bella gente, compagnia affabile, insomma un ricevimentone con le carte in regola. Sbrillocchi in ogni dove e neuroni à go-go.
Ma lo scopo, vero, dei coniugi era un altro: riunire al proprio tavolo, occasione ghiotta, i quattro genii prediletti, Proust, Joyce, Picasso e Stravinskij. Eravamo quattro amici al bar. E la cosa, in effetti riuscì, divergendo però dagli intenti. Infatti l’errore è madornale: mai mescolare troppe primedonne, per ogni primadonna – si sa – servono almeno due o tre gregari dotati di turibolo ripieno di incenso, che sappiano fare le domande giuste e applaudire al momento appropriato. Calcisticamente parlando, la stessa cosa avviene in una squadra, in cui servono i portatori di palla schierati attorno al piede fino; oppure in una spedizione avventurosa del primo Ottocento, la star dev’essere una, l’esploratore inglese con il cappello del comando, gli altri portano le valigie e montano le tende, zitti.
Ecco come andò: Schiff, l’ospite, per caldeggiare la conversazione, invitò Picasso a fare un ritratto di Proust, uno di questi giorni: “Solo un disegno, basterebbe un’ora!”. Il pittore rispose picche, quello scrittore pallido e gonfio che parlava soltanto di aristocratici gli dava sui nervi. Proust fece finta di non capire che Stravinskij avrebbe voluto parlare della propria musica e gli chiese: “Le piace Beethoven?”; risposta: “Lo detesto!”. Invece di lasciar perdere, proseguì: “Ma come, e gli ultimi quartetti?”; “Le cose peggiori che abbia mai sentito”. E già due delle sei possibili relazioni erano andate in vacca.
A mezzanotte arrivò Joyce, stanco e a disagio perché era l’unico senza smoking. Esito: non aprì bocca tutta la sera, tenendo la testa tra le mani e cominciò a tracannare tutto quello che passava per la tavola. E siamo a cinque relazioni interrotte sul nascere, ma la cosa poteva ancora peggiorare.
La serata per i cinque finì poco dopo. Proust invitò Schiff e Joyce sulla propria automobile: appena salito, Joyce si accese una sigaretta, abbassando il finestrino. Tragico errore, si sa, visto che Proust era asmatico al grado massimo. Schiff intervenne, chiuse il finestrino e chiese a Joyce di spegnere. Lui lo fece ma il suo umore non migliorò. Infatti, cominciò a parlare dei propri problemi alla vista. Proust, che non attendeva altro, rispose con accurata descrizione dei propri problemi di stomaco, bruciori.
La conversazione proseguì a monosillabi (“Le piacciono i tartufi, monsieur Joyce?”. “Sì”) fino all’atto conclusivo, un bello scambio di cortesie: “Mi dispiace di non conoscere l’opera di monsieur Joyce“: replica: “Non ho mai letto monsieur Proust“.
Fossero stati sgherri da osteria invece che scrittori sarebbero volate bottigliate alla carotide.
Pochi mesi dopo Proust morì: al Père-Lachaise, tra la folla, c’era anche Joyce. Chissà se, nel frattempo, aveva letto la Recherche.