il tasso del tasso del tasso del Tasso (e la guercia)

Uno dei miei giri romani prediletti consiste nell’arrancare per la salita gianicolare verso Sant’Onofrio, visitare il chiostro che ospitò il Tasso e poi vide Leopardi, Goethe e tanti altri venuti a omaggiare il poeta, e poi proseguire in alto ricordando la Repubblica Romana, tempi migliori di questi, incappare nel bizzarro faro argentino, per poi ridiscendere via tempietto di Bramante, ambasciata di Spagna, Acqua Paola e via così.
Lungo la salita si incontra la cosiddetta quercia del Tasso, sotto la quale il poeta andava a meditare. E a pigliare il fresco, diciamocelo. Però io, che son rinascimentale di formazione, mi diletto assai poco dei versi tasseschi, preferendo loro i versi dell’Ariosto, o del Pulci, o meglio ancora del Boiardo, giusto per restare in analogo argomento. Ciò non toglie che una bella visita alla quercia e al sepolcro non me la nego quasi mai.

E ogni volta che passo davanti alla quercia, ormai seccherella e annerita dal fulmine, non posso non ricordare Achille Campanile che, da pazzo qual era, scrisse quella meraviglia che è “La quercia del tasso” (e la minuscola è corretta). Ecco la meraviglia:

Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.

Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri.

Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “È il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”.
Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?”.
“Della quercia del Tasso.”
E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”.

Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”.

Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”.
Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”.
Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.

Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

  • siu
    Lug 13th, 2010 at 11:07 | #1

    Ottimo esempio, nel senso di ‘per me assolutamente insopportabile’, di quel -sempre per me- pseudo umorismo che gira a vuoto nel mero e sterile gioco di parole, e lascia tutto come prima. Tipicamente maschile, a quanto inevitabilmente mi è capitato di constatare, e giustificato credo solo dalla propria paura ad uscire, a guardare per cambiare, a sconvolgere l’esistente con un pensiero che sia (se no non è pensiero, dico io) anche critico e magari rivoluzionario, oltre che (autenticamente) umoristico. Nient’altro che un bla bla per attestare di esistere dando semplicemente aria alle corde vocali, o inchiostro alla pagina e, tranquilli… tutto esattamente come prima: nel mondo, nella testa, nell’anima.
    “Questo” Achille Campanile, prototipo di molti che anche solo nella cerchia degli amici si reputano ahimé irresistibilmente spiritosi, da decenni facendo schiattare di noia le malcapitate presenti, l’ho, per l’appunto, sempre detestato.

  • trivigante
    Lug 13th, 2010 at 11:15 | #2

    Uoah, qui mi tocca difendere.
    Infatti, è vero, nessuna evoluzione o nessuno spostamento, nessuna nuova, buona o cattiva, il senso – se così si può dire – sta nell’assenza di significato, e non si tratta nemmeno di spirito, è semplicemente un gioco, piccolo quanto si vuole, un gioco.
    E come tutti i giochi, c’è a chi piace e a chi no. Pàsdeproblém, direi, come dice il saggio il gioco è bello se non si torturano coloro cui non piace, tirandola in lunga.
    A me diverte, come mi divertono la più totale inutilità, l’assenza, il vuoto, il nulla, la presenza dell’assenza, la mancanza di un perché, le perdite di tempo, l’assenza di risultati, il colpo a vuoto, le cose tanto per fare. Non solo, chiaro, ma mi divertono.
    Se, poi, la cosa sia prettamente maschile (e qualche indizio c’è, si testino i Monty Python) lascio ad altrui la sentenza.

  • Lug 13th, 2010 at 13:34 | #3

    Uoah lo dico io! Ovviamente per me avete ragione entrambi, savasandìr! Certi giochi di parole li trovo sterili anch’io, che non scrivo, ma allo stesso modo trovo divertente certo umorismo: più che Campanile e i Monty Python citerei come summa di roba maschile Elio (la donna volante pericolo costante), i Simpson (doh!) e Beavies&Butthead.
    he! He He!
    he!he!

    he he!

    he he!

  • Lug 13th, 2010 at 16:03 | #4

    No, no, uoah lo dico io: uoah!
    Quando la lingua si ripiega su se stessa e diventa oggetto e referente del discorso invece che freccia puntata verso referenti del mondo, “lascia tutto come prima”, in effetti. Il gioco linguistico alla lunga può stancare, a me alla lunga stanca, perché lo penso molto legato al motto di spirito, e questo dev’essere breve per sortire effetti. Ma sono anche d’accordo con Trivigante (ammazza, sto diventando veltroniano), su ciò che dice a proposito de “la mancanza di un perché, le perdite di tempo, l’assenza di risultati, il colpo a vuoto, le cose tanto per fare”, slegate dall’efficacia pragmatica di cui siamo (o ci vorrebbero) schiavi.
    Sull’ironia maschile e femminile, non so, è vero che mi pare che ci siano cose che fanno ridere di più (o solo, a volte) gli uomini, ma poi mi sembra di generalizzare, perché ho amiche che ridono esattamente per cose che fanno ridere il sottoscritto: Fantozzi, Simpson, Monty Python… Ci vorrebbe un sondaggio serio.

  • siu
    Lug 13th, 2010 at 20:12 | #5

    Uoah!! (e che, io no..?!)

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