#metoo: dell’uso improprio (e stronzo) di giuste rivendicazioni

Mia Merrill, una giovane donna e non certo una beghina novantenne, ha promosso una petizione da rivolgere al MET per rimuovere o, magari, contrassegnare con un’etichetta particolare un quadro di Balthus, che lei trova offensivo e in aria di pedopornografia (è scioccata, altroché).

Poiché l’aria che tira è quella delle denunce contro molestie e abusi sessuali a cascata dal caso Weinstein, la petizione raggiunge in pochi giorni oltre diecimila firme, in nome della – supposta – indecenza del quadro di Balthus, che a questo punto ha senso vedere. L’accusa, pesantissima nonostante la forma non del tutto esplicita, è di apologia della pedofilia, peraltro da parte di un ente pubblico.

Il quadro incriminato è Thérèse dreaming del 1938, qui la scheda del MET.
La Merrill, prima di lanciare la petizione, ha inoltrato una richiesta al museo, il cui direttore – il signore della misura e del buon senso lo benedica – ha risposto giustamente picche.

La questione sta diventando molto difficile da gestire: la signorina costringe con argomenti mal posti a un ragionamento di retroguardia, nel senso che ci si trova, poi, a discutere se il quadro di Balthus rappresenti un soggetto morboso o no, e in caso se si tratti di una qualche forma di pedofilia o meno. Gli argomenti utilizzati da lei sono bastardelli, l’hashtag #metoo implica furbescamente che se si è d’accordo nella condanna di Weinstein e compagnia bella di molestatori allora non si può che esserlo anche in questo caso, e quella seconda frase («se siete sensibili alle implicazioni dell’arte nella vita reale») non vuole dire assolutamente niente ma spinge nella medesima, identica, direzione.

Il discorso, ovviamente, non è quello, quanto piuttosto si dovrebbe discutere sulle tendenze censorie della signorina e di molti come lei, abili ad annusare l’aria e sfruttare argomenti giusti in altri contesti. Il problema è che simili argomentazioni fanno presa: nel 2014 una mostra in Germania sulle polaroid di Balthus preferì chiudere per non incappare in eventuali conseguenze e una mostra su Schiele a Berlino in questi giorni ha preferito ritirare delle locandine promozionali con immagini (quadri dell’autore) ritenute sconvenienti da qualcuno.
Lei e chi come lei scrive due righe in un tweet e si aprono le cateratte: polemiche in ogni direzione con critici a sostegno del concetto stesso di arte e di libertà e professionisti dei social che, invece, dilagano in ogni dove dicendo le peggio cose possibili inframezzando il tutto con fotografie di se stessi al mare con i pargoli.

Quello che a me spiace di più, oltre ovviamente al fatto di utilizzare rivendicazioni giuste in contesti sbagliati con scopi censori, è che a fare questo sia proprio una donna, in nome di un femminismo di facciata che risulta essere del tutto controproducente a qualsiasi causa utile.

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