minidiario scritto un po’ così di un breve giro a ovest: tre, trasferta, informatica eporediese, una via bimillenaria

Dopo una salubre passeggiatina lungo la pista di collaudo della Fiat, quella sul tetto del Lingotto con le due paraboliche per cui si saliva dalla celebri rampe elicoidali, fabbrica mirabolante negli anni Venti, piglio su le mie cose e vado in trasferta. È quasi carnevale, impazzano le celebrazioni storiche e le lotte col demonio, decido di andare a vedere Ivrea. Quella delle arance e dei computer. E delle parole crociate, eporediesi, una delle risposte più note insieme al nome di Ughi. E così capisco un po’ anche il canavese, che non lo so.

Dire che gli eporediesi siano agitati è dire poco, dappertutto ferve il carnevale, le contrade, i rioni, gli scorpioni, i sailcavolo, da domenica a martedì tirano le arance e dappertutto sono segnalate vie di fuga e istruzioni su come coprirsi la faccia. Essenziale portare il berretto frigio per non diventare bersaglio. Esso richiama, ovviamente, la rivoluzione francese e gli ideali di rivolta ma la lotta ai despoti fa parte del carnevale da ben prima, con le tipiche inversioni della festa, con i più balenghi a far da amministratori. Oggi lo fanno i bambini che, vorrei dirlo, sono il nostro futuro. Oh. La stessa figura della mugnaia, la bella dell’anno, rimanda a una Violetta che non si piegò al potere degli occupanti.

La città, oddio è un paesone, è a dir poco in subbuglio, lungo le vie delle arance sono impegnati a coprire ogni edificio con teli di plastica per salvare gli intonaci, persino la chiesa, figuriamoci. La retorica è quella dello stadio, purtroppo, fazioni e proclami un po’ destroidi di lealtà fino alla morte, l’estetica è quella del gladiatore e del signore degli anelli, il leghismo ci sguazza parecchio. Immagino sia difficile essere eporediesi (eh!) con una posizione critica sul carnevale, come minimo si rischia l’isolamento sociale o si vien tacciati di essere radical chic, tempacci.

Ivrea fu un avamposto di una popolazione, i Salassi, che fondarono la città e occuparono il canavese fin dal sesto secolo avanti Cristo. Nel secondo secolo avanti cozzarono, era inevitabile, con certi chiamati Romani che li liquidarono come generici celti e, di conseguenza, da annettere all’espansione irrefrenabile. I Salassi, c’entra ovviamente il sale ma non la pratica di sottrarre sangue, non furono d’accordo, chiaro, e furono costretti a capitolare e a ritirarsi più su, in valle d’Aosta. Eporedia divenne colonia e importante presidio romano lungo le vie verso nord, ne fanno testimonianza un imponente anfiteatro e qualche restuccio di un colossale ponte ad archi sulla Dora Baltea lungo quasi cento metri. Fu poi fondamentale centro longobardo con Arduino, nome piuttosto diffuso tuttora. Il picco fu però toccato nel Novecento con l’Olivetti, è noto, peculiare esperimento di capitalismo sociale e familiarista che aveva le proprie radici nelle esperienze di primo novecento, per esempio, dei Crespi e il villaggio industriale. Poi vi furono Infostrada, Omnitel, Vodafone Italia che ha ancora sede qui nonostante la proprietà sia andata ma, ormai, si era sulla via del declino. Oggi del complesso industriale olivettiano si percepisce poco, voglio dire: si colgono perfettamente le strutture produttive, storiche e contemporanee, ma sfugge il contesto sociale, le case si sono mescolate alle altre, sì coglie l’asilo, in generale bisogna stare attenti agli edifici di design per identificare le strutture di un tempo ma il tessuto complessivo si è perso.

Vado più su, c’è una via che mi interessa e che punto da parecchio. Arrivo a Pont Saint Martin, che si chiama ponte proprio perché, indovina?, c’è un ponte. Romano, notevole, un arco imponente. Sotto, è carnevale, c’è un diavolo impiccato, il ripetuto racconto dei ponti storici: non c’è verso di costruire un ponte che stia su, si propone il diavolo per costruirlo in una notte in cambio della prima anima che lo attraverserà, così è e si stringe il patto, il mattino dopo il vescovo furbo ci fa passare un cane, una capra, qualche animaletto e il diavolo è gabbato. Storia sentita innumerevoli volte, bella per certi aspetti almeno per attestare la forza e la durevolezza del ponte, meno per la figura da scemo che regolarmente fa il diavolo, che è pur sempre il diavolo e si dovrebbe portar rispetto, e la speculare bella figura dell’ecclesiastico di turno, poi si decida: o le bestie l’anima ce l’hanno oppure no. Una volta per tutte. In alcune varianti, il diavolo arrabbiato comincia a distruggere il ponte e il vescovo, sempre più scaltro, pianta una croce nel mezzo sconfiggendolo definitivamente. E questo vale se sul culmine c’è una cappelletta o edicola sacra. Pavia, Cividale e così via.
Quel che però a me interessa è la via delle Gallie, che partendo da Milano passa proprio da qui e prosegue su su, appunto, verso le Gallie. Quando Cesare con le legioni andò a civilizzare il nord con il bello Gallico utilizzò evidentemente questa via e la città stessa di Aosta è conseguenza di questa via che andava poi al Gran San Bernardo e Bernardino. Oltre all’importanza storica e culturale, la via in alcuni passaggi è una testimonianza della davvero evoluta capacità ingegneristica romana, per esempio il passaggio a strapiombo del ponte romano di Saint-Vincent, aggrappato direttamente alla roccia. A me che tutte queste cose piacciono, ne voglio fare un pezzo a piedi e così faccio, con grande soddisfazione ed emozione.

Termine storico del percorso è Aosta, da cui si dipartono vie diverse, a seconda. Il corredo romano antico della città la rende una tappa significativa e su tutto svetta il teatro. Il resto, non me ne vogliano, è gradevole, bella posizione, un altro bel ponte romano e una porta imponente, un chiostro romanico a Sant’Orso dai bei capitelli, un criptoportico che parla della grandiosità antica, qualche buona valdostana e bon, più o meno ci siamo. Ma siccome non c’ero mai stato, eccomi. Arrivandoci, ed è un po’ buffo e un po’ no, si passa dal forte di Bard, arroccato su una strozzatura della valle, famoso di recente per un’insistita scena di non so quale film degli Avengers, insieme a qualche località attorno. I cartelli che spiegano la cosa si sprecano, con la facciona di Thor piuttosto che Iron man, e le visite al forte si sono decuplicate, minimo, tanto da farci sotto un bel parcheggio multipiano e una cremagliera per tutti i gusti.
E poi giù per la valle e la pianura, che c’è di nuovo un appuntamento al palazzetto a conclusione di questo piccolo giro che ha colmato parecchie mancanze.


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