quella linea di demarcazione tra Peter Moore e me

Alla fine di aprile è mancato Peter Moore, a lungo direttore creativo di Nike, negli anni Ottanta, e di Adidas negli anni Novanta, entrambi decenni in cui le due aziende si sono lanciate, o rilanciate, notevolmente. Non per caso.
Moore era grafico, influenzato da Jasper Johns e Rauschenberg fin dagli inizi, disegnò le prime Air Jordan e il logo Wings, entrambe di clamoroso successo ma non le sue cose migliori, a parer mio. Fece poi un sacco di cose, ricordo un poster molto divertente in cui Moses Malone, Moses appunto, nella biblica valle dei palloni da basket guidava il suo popolo, bei tempi in cui ci si prendeva anche un po’ in giro. Prese McEnroe e rifiutò Lendl, «he’s a fucking communist», eheh, proprio no, non è che uno può capirle tutte, anche se disegna da dio. Ma la disfida sul campo fu anche questione di marchi, Lendl se lo prese l’Adidas.
Anche Moore passò alla concorrenza, anzi agli arcinemici, nel 1989 e contribuì in modo determinante al rilancio dell’azienda, ridisegnandone tra l’altro il logo, creando il Mountain che ancora ben resiste.

Chi si diletti o abbia a che fare con le questioni di grafica, ben sa quanto i dettagli facciano la differenza, quanto optare per una soluzione o un’altra renda un progetto valido e duraturo o, al contrario, una boiata pazzesca. Per fare un esempio pratico, io il logo Adidas Mountain di Moore, per mio modo ed esperienza, l’avrei chiuso nella parte superiore in modo diverso, ovvero portandolo alla forma triangolare e inclinando le rette superiori seguendo una linea non tracciata, quella in rosso.

Ed ecco la differenza tra un logo magnifico, il suo, e una schifezza colossale, la mia. Un dettaglio, piccolo ed enorme, che traccia la distanza tra lui e me. O, peggio, li avrei fatti tutti della stessa altezza, inguardabili. Maledetto Moore, hai vinto anche stavolta.
Fece molte altre cose, come i grandi grafici si disegnava i biglietti d’auguri per natale, dipingeva, «There’s a big difference between graphic design and painting. As a graphic designer, you solve your client’s problems. As a painter, communication is personal. The problems to solve are your own», chiaro. Il tocco era inconfondibile anche all’interno di un contesto molto più vivace di quello di oggi, le campagne Nike della fine degli anni Settanta, la geniale «There’s no finish line», erano poetiche ed evocative, ecco quella di Moore che molto si avvicina alla fotografia d’arte, più che alla comunicazione pubblicitaria.

Eh, niente, quella cosa là è purtroppo passata, un clima che se n’è andato. Oggi se il committente fa i mattoni, vuole i mattoni, niente da fare. Le idee poetiche e ispirate non passano, qui bisogna fatturare e il cliente deve vedere i mattoni. E noi gli diamo i mattoni, si discute meno e si va al fondo. È giusto? Ovviamente no, bisognerebbe ribellarsi ogni volta ma i fracassamattoni sono tanti e la pressione esterna è quasi sempre superiore. Ma ci si prova comunque, e riguardare le cose di Moore, tutto sommato, aiuta a rimettersi in carreggiata e ritrovare la giusta spinta antimattone.

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