minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro, tre: Pio, Pico, gli zoccoli, due amici che se la ridono, un campo che dovrebbe essere memoria

Scavallo ancora una volta la linea concreta di confine tra Reggio e Modena e vado a Carpi. Voglio vederla per svariati motivi, uno è la magnifica piazza quattrocentesca: lunga e stretta, da un lato è chiusa da portici affrescati, cinquantadue arcate, su un lato corto dalla chiesa di San Niccolò e sull’altro lato lungo dal castello, poi palazzo della signoria. Sebbene meno coerente e perfetta, il richiamo è alla piazza ducale di Vigevano, portici-chiesa-castello, stesso schema. Il palazzo, con ancora qualche torrione qua e là, ampiamente ingentilito nel cinquecento alla moda ferrarese, ospitò la signoria dei Pio. Possediamo tre lettere tra Guicciardini, governatore di Modena, e Machiavelli, incaricato di un’ambasciata a Carpi: quest’ultimo riteneva l’incarico non alla sua altezza e ne fece un viaggio di svago, approfittando dell’occasione per irridere con l’amico i Pio e il loro governo. “Repubblica de’ zoccoli”, la chiama, e Olmi non è mica tanto lontano. Niente di tutto ciò.

Nipote di Pico della Mirandola, stesse zone, Alberto III Pio, il più importante esponente della famiglia, crebbe a Mantova sotto l’influsso di Vittorino da Feltre ed ebbe come istitutore, fermi tutti, Aldo Manuzio. Il che a me, devoto Hypnerotomachista, basta eccome. Nella cappella del palazzo c’è un affresco che ritrae Alberto, capelli lunghi biondi e profilo da signore, e Aldo subito dietro, il maestro. Finito il suo compito, Manuzio nel 1490 si spostò a Venezia, iniziando la sua avventura nell’editoria, sostenuta economicamente da Alberto Pio. Non andò male, si sa, quindici edizioni filosofiche del grande stampatore sono dedicate al suo allievo. Nel frattempo, Carpi divenne una vera e propria corte, seppur stretta tra i più grossi Gonzaga ed Este, intrattenendo rapporti con Roma, importando architetti e pittori valenti. Lo stesso Alberto ne era ambasciatore, matrimonio bene con una Orsini, intrattenne poi una vivace polemica con Erasmo da Rotterdam, pretestuosetta invero, l’altro era fuori portata, ma che la dice lunga sul posto che si era conquistato sulla scena europea. Nel 1525 scelse il cavallo sbagliato, Francesco I, e dopo la battaglia di Pavia perse la signoria, in favore degli Este. Era meglio Carlo V, ma certe cose si sanno solo poi. Esule, se ne andò a Parigi ove morì, il suo sarcofago è al Louvre. Agli Este, poi, Carpi interessò poco e bon, abbastanza chiusa lì.

Era opportuno raccontare qualcosa, chi sa nulla di Carpi e, tanto meno, dei Pio? Chiaro. Ehm, forse c’è sempre qualche ragione buona per non saperlo, non per me quando girovago. In vista della pasquetta rituale, vado a comprare un salame, sono nel posto giusto. Mantovano o modenese, mi chiede? Modenese, azzardo per prossimità, ma non sono sicuro. Bravo, dice, io chiedo perché non si sa mai chi viene ma insomma. Eh, c’è in giro certa gente che non sai, dico io con l’aria di uno che sa quel che dice. Due, dico, ne prendo due. Mi fa poi una serie di domande cui rispondo a caso, dalla cotica spessa al luogo di stagionatura, e una breve lezione sul taglio e l’assunzione. Riporto un trucco ricevuto: se troppo stagionato, scottex attorno e sotto il lavandino, si aspettano cinque minuti e vualà. D’altronde son professionisti, qui. Quando servono la carne di manzo al ristorante, la bavetta per dire, ci aggiungono della pancetta saltata, perché il manzo credo lo ritengano verdura. Li vuoi due ciccioli per far merenda?, mi chiede alla fine. Certo che li voglio, per chi mi hai preso?

Avrei anche la fine appropriata per questo minidiario, usando un’espressione che qui ho visto spesso e che evidentemente considerano un’esortazione sensata: Carpi diem. Sì. Orazio ha avuto in fremito, lo so. Potevo chiudere, dicevo, ma ne ho ancora un pezzetto, più serio. Non prima però di aver ricordato il ruolo di Carpi, anzi di due carpigiani, nel Risorgimento: l’eroe sempiterno Ciro Menotti, di più, condannato alla morte infame sulla forca per i moti del 1830-31, e l’ancor più eroe Garibaldi chiamò il suo primogenito Menotti, voglio dire; il generale Manfredo Fanti, meno, fu però uno dei mille e per questo vale la pena ricordarlo.
Il motivo vero vero per cui sono venuto a Carpi, oltre alla piazza, è Fossoli. Fossoli è una località appena fuori Carpi, pochi minuti, in cui i tedeschi nel 1941 stabilirono un campo di prigionia per prigionieri anglosassoni. In breve tempo divenne però un campo di concentramento per i prigionieri, ebrei, politici, razziali, omosessuali, deviati, da deportare in Germania o Polonia. Chiamarlo ‘campo di smistamento’ è pigrizia di pensiero e falsità dei fatti, quando non in malafede, esso fu fino alla fine della guerra un vero e proprio campo di concentramento, peraltro anche di dimensioni ragguardevoli. Primo Levi passò di qui prima di essere deportato ad Auschwitz e ne parlò più volte, molti altri ebbero la stessa sorte. Molti furono uccisi nel campo o in prossimità, ancor prima di partire. Non fu un campo di sterminio, no, ma son distinzioni da lasciare agli storici e guardare il punto. La ragione del campo era la possibilità di andare dritti dritti al Brennero ed è un punto intermedio tra pianura padana e Italia centrale. Anche gli ebrei del ghetto di Roma e molti milanesi, Mino Steiner, Olivelli, Fiano, per dirne tre, furono condotti qui. Data l’importanza del luogo ho delle aspettative ma so già cosa mi aspetta: il campo non solo è chiuso ma è anche, in sostanza, in rovina. Poche baracche sono rimaste in piedi, di altre si vede solo la collocazione, molte sono coperte da edera e piante, molti muri sono crollati, nessun apparato didattico. Certo, il campo ha subito molte trasformazioni, subito dopo la guerra è stato campo di prigionia per i fascisti, poi vi fu l’esperimento sociale di Nomadelfia, poi vi furono portati i profughi giuliano-dalmati fino al 1970, poi il terremoto del 2012 e, insomma, siamo arrivati a questo punto.

Fa bella mostra di sé un cartello di quelli dei lavori appaltati che parla di «valorizzazione», tanto cara a Franceschini e tanto odiata da Montanari e, in rispettosa posizione arretrata, me. La data di inizio lavori è 2021, la conclusione 2023, con evidenza non è stato fatto nulla. Non ci sono nemmeno i materiali. Il cartello, beffardamente, a fianco ha un’immagine sgranatissima dell’Apollo e Dafne di Bernini a villa Borghese, nemmeno il senso del ridicolo al Ministero o un po’ di pudore nell’assimilare un campo di concentramento alla valorizzazione, maledetti, delle opere e dei luoghi d’arte. Non c’è nessuno, un camper oltre a me ma non sono qui per il campo, secondo me manco lo sanno, compilano il fantacalcio.

Eppure possibilità ce ne sarebbero. A Carpi, nel palazzo dei Pio, ha sede il museo del deportato. Ideato e disegnato da BBPR, in particolare da Barbiano di Belgiojoso, che fu deportato a Mauthausen, con materiali donati in parte da Albe Steiner, è un piccolo museo ma ben pensato, un’ampia sala è riempita dal pavimento alle volte dei nomi dei deportati, dà un’idea per quanto vaga delle proporzioni, i muri sono dipinti con frasi dei condannati a morte della Resistenza europea, un libro che bisognerebbe leggere spesso. Il senso, didattico ed educativo, e parlo anche e soprattutto di adulti, sarebbe unire il museo al campo, creare un filo logico comprensibile per chi visita Carpi. Così non è, c’è solo il museo, siamo dentro in tre, ne manca un pezzo.

Giro per le sale, non c’è molto da vedere, è ovvio, ci sono parole da leggere. «Come avrei voluto vivere», dice nella sua ultima lettera un ragazzo di ventidue anni, e mi commuovo, un altro chiede con delicatezza «Alla mia tomba portate, quando potete, fiori rossi. Null’altro», ma subito dopo, e qui davvero mi vengono i lacrimoni e un senso di ingiustizia incolmabile, dice: «E battete con ogni mezzo la barbarie», e io, pensando all’Ucraina, mi sento chiamato in causa e mi dico che bisogna fare di più.


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