l’invasione, giorno sedici: quanto dura la mia compassione?

Facile dire facciamo fuori Putin. E poi? Perché gli errori madornali sono già stati fatti, per restare in tempi recenti, con Saddam e Gheddafi, appuntarsi la medaglietta di liberatori per poi consegnare i rispettivi paesi al caos, generare l’ISIS, le guerre tra bande, lo sfruttamento dell’immigrazione e la detenzione illegale e tutto ciò che ne consegue. Bisogna sapere con precisione da che padella ma soprattutto in che brace si vuole cadere. E questo vale anche per questa invasione, nel senso che la frattura all’interno del popolo ucraino – qualche iddio pietoso mi perdoni per le generalizzazioni – è ormai del tutto consumata da decenni di dipendenza prima e di guerra dal 2014 ora, e sarà difficile ricomporre la distanza tra filorussi e filoucraini senza che sfoci essa stessa in una guerra civile. Come mi faceva notare un amico, con il quale peraltro concordavamo sul fatto che si dice NATO ma si intende UE, se non politicamente almeno per tipologia di vita e sviluppo, lo spostamento a occidente dell’Ucraina – libertà economiche e civili, politiche, di dissenso, tenore di vita e così via – mette in crisi l’esistenza stessa della Russia, ne mina alle fondamenta la natura stessa. Almeno della Russia putiniana, se questa non è una lettura che risente di schemi di analisi vetusti.
Comincio a temere che sarà lunga.

Rothko, ma non penso indicasse l’Ucraina. O sì?

Alcuni giorni fa, questa cosa non voglio lasciarla cadere, il Corriere è uscito in edicola allegando una bandiera ucraina al giornale, riutilizzando lo slogan usato ai tempi per Charlie Hebdo: «Siamo tutti ucraini». Per carità, ben intenzionati e sinceri democratici tutti, ma no, perdio no: non ero Hebdo allora e non sono ucraino ora. Non è nemmeno la terza via di Montanari di qualche giorno fa, è proprio il rifiuto di un modo vigliacchetto di sintetizzare la disapprovazione per un sopruso, se fossimo davvero ucraini – almeno non filorussi – allora saremmo intervenuti militarmente, altroché. E invece no, non lo siamo affatto, basta per favore con queste semplificazioni idiote. Almeno il primo quotidiano del paese, eddai.
Devo ritrattare una cosa detta ieri, errata: la pronuncia Ucràina – lo dice la Crusca, quindi mi allineo senza dubbio – non è russa, bensì semplicemente più arcaica di Ucraìna. Non c’è, quindi, prevaricazione culturale. L’invito, dunque, è a utilizzare ciò che si preferisce, senza sfumature di qualità. E allora io torno al mio più confortevole Ucràina, che si confà anche meglio al mio arcaismo di facciata.

Queste considerazioni mi fanno comprendere che sto lentamente tornando alla vita normale, nel senso che l’angoscia e la preoccupazione restano, l’impegno per essere utile per gli ucraini pure, ma dopo due settimane cominciano a riaffacciarsi le abitudini e le attività consuete, che si inframezzano alle notizie di guerra. È un processo normale, lo so, lo facciamo tutti per una semplice questione di sopravvivenza al di fuori – fossimo parte coinvolta sarebbe tutt’altro, è ovvio – e lo spavento e l’ansia dei primi giorni pian piano si attenuano. È del tutto vero che ci abituiamo a tutto, serve solo il tempo giusto. È anche una strategia, perché qui le cose hanno tutta l’aria di proseguire a lungo, lo sospettavamo fin dall’inizio. È successo anche con la pandemia. Non avevo più ascoltato musica, non avevo più letto i miei libri, non ero più andato a camminare in montagna, non ero più uscito a cena. Ora pian piano mi accorgo che sto ricominciando. Non mi pare di correre il rischio di dimenticare, è sempre la parte centrale della mia giornata, ne parlo comunque con amici e conoscenti, la tensione non diminuisce oltre un certo livello, però le cose effettivamente cambiano. Si fanno anche più sfumate, nel senso che l’appoggio incondizionato che provavo due settimane fa ora è più circoscritto, è rivolto alle vittime, non a tutti gli ucraini indistintamente. Forse è un errore, forse è sbagliato, lo è di certo nei confronti di chi invece questa situazione la subisce da settimane con intensità crescente, è vero. Inutile però far finta che la distanza non conti, perché conta, eccome. E il trasporto, la compassione, la simpatia – tutti in senso etimologico – tanto sono intensi al momento quanto poi tendono a scemare nel tempo, perché semplicemente i battiti cardiaci non si normalizzerebbero, la vita sarebbe stravolta. Dico questo, lo ripeto, perché ne siamo al di fuori. O, meglio, ne siamo dentro ma in maniera diversa. Come è emerso da alcune conversazioni in questi giorni, siamo in guerra anche noi, inutile far finta che non sia così. Ma in una guerra diversa, sanzioniamo creando danni e ne subiamo di conseguenza, per ora costi energetici, forse la pasta, non tanto ma è così. Non ci bombardano, grazie a dio, ma siamo comunque in conflitto, in quello che molti analisti chiamano da parecchio tempo «la guerra contemporanea». E riconoscerlo è già un passo avanti, secondo me.

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