minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro: uno. Ferrara e le cose ferraresi tranne il pane

Uno spunto di lavoro e via, Ferrara. Occasione ghiotta, oltre alla salama cotta su letto di purè – che non vuoi aggiungerci del vino per poi mezz’ora dopo accoltellare un oste per avere dell’acqua? – la città è ricca di spunti, a patto di aver fermi due concetti: addizione e devoluzione. Eh sì, perché così stretta tra stato della Chiesa e Venezia a far da vaso di coccio, alleandosi di volta in volta con Mantova, in condizione simile e sempre pronta a tradire i patti per propria convenienza, e con l’uno e l’altra, qui è sempre stato necessario stare attenti. In realtà, la storia degli Este è durata qui tre secoli a far tanto, da Azzo a Cesare, porello, in mezzo un barcamenarsi che ti raccomando, compreso doversi pigliare quella disgraziata di Lucrezia, ovviamente Borgia, e di doverne sopportare i capricci pur di entrare nelle grazie del papa, suo padre, e raccattare legittimamente il titolo di duca. «Illegittima» mi dice l’ennesima guida occasionale che incontro per strada. Illegittima, certo, ma com’è, di grazia, una figlia legittima di papa? Resto insoluto ma la locuzione “figlia di papa” è quasi meglio di quella con l’accento.
Nei tre secoli di Este, tanta dovizia: di architettura, di poesia, di pittura un po’ meno ma chiamando qualcuno da fuori, Ligorio, LBAlberti, si risolve. Di poeti no, non ce n’era bisogno: Boiardo, Ariosto e Tasso bastino per tutti, triade imbattibile o quasi. Certo, a parte poi Boiardo che aveva rocca a Scandiano e faceva conte a sé, tutta la mia attenzione è sempre andata ad Ariosto, magnifico nell’Orlando ma sommo nelle Satire, e nulla voglio sapere di Tasso, che lascio volentieri ai romantici, con la maiuscola: io son Ariostista, mica Tassista.
L’addizione, dicevo. Fu erculea sia per lo sforzo sia perché fu Ercole d’Este a volerla. In pratica, la Ferrara medievale si era un po’ scombinata, perché il Po, che lambiva le mura meridionali, decise a un certo punto di strappare e di pigliare un’altra strada, tirandosi dietro tutta la canalizzazione e il Reno, quello bolognese. Insieme a questo, era venuta un’epoca di ricchezza e in cui certe idee si facevano largo, ed Ercole recepì. Si costruì una nuova cinta muraria molto ma molto più ampia, un certo fossetto che faceva da confine settentrionale, proprio davanti al castello, fu interrato e si aprì un enorme pezzo, tutto nuovo, di città. Città moderna, la prima d’Europa, con ampi viali, ortogonali, spazi pubblici, un progetto ideale ed urbanistico innovativo. Un’addizione alla città, appunto, così grossa da raddoppiarla, anzi quasi tre. Furono costruiti alcuni palazzi, qua e là, vedi quello dei Diamanti, miracoloso per bellezza, con ampi giardini, fu inglobata la Certosa e il cimitero, ampi spazi vuoti da riempire nel tempo, quadrivi e incroci definiti.

Ma l’idea superava i tempi e la crescita sperata in realtà sarebbe avvenuta solo nella seconda metà del Novecento, tardino per Ercole e i suoi urbanisti: la città e le botteghe rimasero dov’erano, i traffici pure, gli spazi vuoti rimasero vuoti. Nonostante un’altra idea notevole per i tempi, ovvero invitare tutti gli ebrei cacciati di Spagna, i marranos del 1492, a stabilirsi qui, ben sapendo che portano sempre iniziativa, pensiero, intraprendenza e, quindi, scambi e ricchezza. Ma anche questo non bastò, perché si stabilirono nelle zone più interiori della città vecchia. Non che sia del tutto un male, Ariosto, che aveva approfittato dell’espansione urbanistica e dei villini costruiti ex novo, comprò casa e giardino, sistemandosi una volta per tutte, seppur dalla parte opposta della sua sposa segreta. Ma, tanto, a lui piaceva camminare. E la casa, bellissima e proporzionata, la famosa “parva sed apta mihi”, gli calzò perfettamente, anche se ho scoperto oggi la definizione gli preesisteva.
Fatta l’addizione, nemmeno il tempo di godersela che Alfonso II morì un secolo dopo senza eredi legittimi, in questo caso sì, e il papa colse l’attimo per incamerare tutto quanto, Ferrara, ducato, pertinenze, servitù. E gli Este via, a Modena e Reggio, imperiali, dove un paio di appartamentini gli erano rimasti. Questa fu la devoluzione e lo splendore di Ferrara andò bellamente in vacca, in mano ai legatini e ai cardinalacci. Papalina, divenne.

Ferrara resta in un limbo un po’ suo, in cui è sempre difficile collocarla. Vuoi perché non è su alcuna linea ferroviaria o autostradale nota ai più – ce ne sono, una buffissima Ferrara-Porto Garibaldi, RA8, ma chi la sa? – e appare raramente nelle cronache. In realtà, con una buona mappa sottomano, è ad appena ottanta chilometri da Mantova, a meno di trentacinque da Bologna, ed è proprio lì, e a un tiro di schioppo, o ciapello, da Padova e Venezia. Ravenna è dietro l’angolo, quasi si potrebbe vedere. Ma è come se galleggiasse fuori, in un mare interno proprio non lambito dai viaggi tradizionali. Bisogna decidere di andarci, proprio, puntarla e non cambiare idea. Che dire? Ne vale la pena, chiaro, fosse anche solo per la salama di cui sopra e per il castello (la mia inutile guida di dieci anni fa alle prigioni), per le viuzze che ci si potrebbero girare i film del medioevo senza cambiare proprio nulla, non c’è nemmeno l’asfalto, per la concentrazione di palazzotti di gran fattura, squisita direbbe qualcuno, per De Pisis o Bassani o Boldini o Savonarola o Antonioni, secondo i gusti.
Io incrocio un’altra guida improvvisata che vede in me, immagino, uno interessato, e tra le altre cose lo sfrontato ha l’ardire di sostenere che il palio, cioè quella cosa con i cavalli che corrono per la città, sia stato inventato a Ferrara ben tre anni prima che Siena. Prima o poi mi cascano sempre sul campanile, non c’è niente da fare. Vada là a dirlo, gli faccio, e lui mi racconta che c’è pure andato. Apperò, il coraggio. Mi intrattiene parecchio, svirgola solo di tanto in tanto – «quella popolazione dell’Europa centrale, i Mongoli», saran contenti i tedeschi e quegli altri – ma la sostanza c’è, sbaglia poco e dà indicazioni utili. Bisogna però essere accoglienti in precedenza, secondo me, per far avvenire le cose, lo dicevo qualche giorno fa (ieri, ecco).
Ancora niente nebbione, per ora. Un po’ è il cambiamento climatico, sicuro, ma di sicuro le ultime nebbie del pianeta, qualora dovesse essere così, saranno qui, prima di sparire per sempre. E un giro per la città ottusa dal nebbione è una cosa che nella vita va fatta, secondo me. Fosse anche per una sola manciata di ore, come io, oggi.


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