minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno sei, la befana polacca porta il carbone, si-può-fareee, quando gli altri ti vedono più grasso di come ti vedi tu

Finora ho incontrato cieli più che tersi, colori sfavillanti, aria fresca, fiumi boh, apparentemente trasparenti, boschi estesi, campi a perdita d’occhio, poche industrie condensate nelle periferie delle grandi città. Ma come spesso accade, pare che le apparenze ingannino. Infatti, secondo l’OMS, delle cinquanta città più inquinate d’Europa, trentacinque sono in Polacchia. Vualà. Accludo subito l’elenco delle cinquanta, così chi vuole se lo scorre alla ricerca di nomi noti (dopo la metà).

Ciò è dovuto in sostanza alla politica energetica del paese, la quale è a dir poco obsoleta, indistinguibile da una qualunque politica energetica sovietica degli anni Cinquanta. A Bełchatów, poco a sud di Łódź, c’è la più grande centrale elettrica d’Europa. A carbone. Meglio, a lignite. Un buco, una voragine di nove chilometri per tre che butta fuori senza sosta un fumo nero e denso senza speranza. Il governo del reazionario Morawiecki annuncia poderosi investimenti nel carbone perché è il «patriottico carbone» che permette di non dipendere dal gas russo. Il tutto andando in direzione contraria a ogni accordo europeo e mondiale sul clima. I poderosi investimenti sono tutta fuffa, i soldi non ci sono e il governo non ha un vero piano energetico di sviluppo, semplicemente hanno capito, come parecchi paesi dell’est Europa, che minacciando di fare porcate qualche soldo da Bruxelles per non farle lo si riceve. Comunque, nemmeno l’UE è tanto calda nel contrasto al carbone polacco, cosa che si spiega andando a vedere chi finanzia, direttamente o indirettamente, le centrali più inquinanti del paese: faccio qualche nome, Allianz, Munich Re e Generali dal 2013 al 2018 hanno investito circa 1,3 miliardi di euro e sottoscritto almeno 21 contratti per assicurare alcune centrali polacche. A rigor di investimento non fa una piega: il carbone è necessario alla Polonia e non si vede all’orizzonte qualche piano di conversione, per cui si cacciano dentro soldi. Oltretutto, la Slesia ha una tradizione secolare di miniere e minatori, per cui anche gli abitanti da un lato chiedono lavoro e dall’altro respirano male. Vecchia e poco risolta questione.
Ciò che il governo deve contenere sono le sanzioni dell’UE per i ripetuti sforamenti delle soglie di inquinamento, per cui qualche pala eolica qua e là ogni tanto si vede, si fanno annunci a ripetizione sulle politiche innovative per il riscaldamento delle abitazioni (che è per la maggior parte ancora fornito bruciando gli scarti della combustione della lignite per l’energia elettrica) ma in sostanza pare cambi poco.
Mah, difficile dire. Per me che abito in pianura padana certi segni inequivocabili cui sono abituato – cieli bianchicci e immobili, un dito di polvere nera su statue e davanzali, un odore persistente di scarichi ogni volta che si atterra con un aereo proveniente da fuori, poi ci si abitua – qui non ci sono. Il cielo è davvero terso, pare tutto persino saturato ma, come dicevo, le apparenze forse ingannano.

Mentre rifletto sul carbone polacco, arrivo a Poznań. E buonanotte al carbone: capitale della «Grande Polonia» (Wielkopolska) tra medioevo e rinascimento, conserva una città vecchia eccezionale ed è, al contempo, una città moderna, tra le più grandi della Polacchia, celebre nel mondo per essere una «Gamma-global city» nella classificazione delle città snodo della rete globale di sviluppo economico, culturale e sociale (GaWC). Standard molto alti e riconosciuti di istruzione, di sanità pubblica, di sicurezza, di politiche sociali relative a casa e lavoro, di iniziative culturali innestati in un contesto di basso inquinamento e con un’ottima rete di trasporti. Ecco, patapum il carbone e la Polacchia retrograda e reazionaria. Non credo abbia a che fare con l’essere a centottanta chilometri dalla Germania, almeno non del tutto, ma essere una città che da secoli è al centro dei commerci e dei trasferimenti dell’Europa centro-settentrionale, a metà strada tra Varsavia e Berlino e a poca distanza da Dresda e Praga, aiuta. Insomma, se devo dire, finora, il posto più promettente in caso di un ipotetico trasferimento in Polacchia, senza dubbio dico Poznań. Il liquido Bauman, il cancelliere von Hindenburg, lo storico Kantorowicz sono tutti dei poznańiani, per dire come la tradizione culturale e sociale della città venga da abbastanza lontano. Pare essere un ottimo equilibrio tra tradizione e innovazione, lavoro e ambiente, economia e società.
Poi, magari, anche qui le apparenze ingannano, per carità, ma i dati paiono solidi.

Come ci vedono da fuori? Un esempio, tra tanti.
Il 28 giugno 1956 a Poznań scoppiò una rivolta tra gli operai in nome di «pane e libertà» (il cartello qui sotto dice «chiediamo del pane») contro il regime stalinista che controllava la Polonia. Il ministro della guerra polacco, che polacco non era perché era il generale sovietico Rokossovsky, non ci pensò due volte, come si faceva allora, mandò i carri armati e la protesta rientrò dopo che oltre cento operai furono uccisi dai colpi dell’esercito.

L’eco della protesta di Poznań fu enorme e contribuì senz’altro a dare un’ulteriore spinta alla rivolta che sarebbe scoppiata in Ungheria a ottobre. Da noi, come è noto, la posizione del PCI sui fatti di Ungheria fu di sostanziale appoggio all’Unione sovietica, senza particolari defezioni all’interno del partito (i 101 del manifesto e gli intellettuali in disaccordo, pur iscritti o simpatizzanti, non erano in direzione). E così fu anche in occasione della rivolta di Poznań, quando l’Unità scrisse: «La responsabilità per il sangue versato ricade su un gruppo di spregevoli provocatori che hanno approfittato di una situazione temporanea di disagio in cui versavano Poznań e la Polonia».
Immagino che alla posizione del PCI italiano fosse data grande risonanza nei paesi del patto di Varsavia, soprattutto se in accordo con Mosca. Il che potrebbe spiegare perché è già la terza o quarta volta che vedo, nelle vetrine di qualche antiquario, qualche manifesto dissidente nei confronti dell’Unione sovietica in cui è rappresentato il terribile bolscevico baffone che mette le mani, i tentacoli, le zampe sui paesi dell’Europa dell’est. La cosa particolare di questa serie di manifesti è che in basso a destra, lì dove c’è la «Włochy», ecco quelli siamo noi.

A differenza della Polonia, che come si vede è staccata, perché la scritta sopra significa: «La Polonia non vuole il mio abbraccio». Mentre, lo ribadisco, noi italiani sì. Che differenza, eh? Tra come ci percepiamo noi e come, invece, a volte ci vedono, no? Insieme a Romania, Bulgaria, le repubbliche baltiche e la Finlandia come fedelissimi di Stalin, chi l’avrebbe detto? Eppure.

Comunque oggi a Poznań se la passano benone, i centoquarantamila studenti universitari, chiaramente debosciati, ad agosto debosciano ancora di più. Bravi.

Eh, lo so, oggi mi è venuta un po’ didattica, m’è caduto lo spiegone, portate pazienza.
Per alleggerire, oggi ascolto A-Punk dei Vampire Weekend.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno sei, la befana polacca porta il carbone, si-può-fareee, quando gli altri ti vedono più grasso di come ti vedi tu

  1. Nientaffatto male… anche lo spiegone ci stava bene..
    Grazioso scoprire che in mezzo a tutte citta bulgaro.polacchie.cecoslovacchie, ci siamo anche noi brescioti… insieme a pochi altri del triangolo delle bermude lombardo piemontese…
    Non che mi stupisca…si sa che respiriamo merda spray

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