minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 85

Rivedo un amico che avevo visto poco prima della chiusura e anche questa è riapertura. Ci aggiorniamo sulle reciproche condizioni, su quanto fatto, su quanto non fatto, su come sia andata complessivamente, anche se ci siamo sentiti telefonicamente man mano, ma di persona è davvero un’altra cosa, dirsi le cose a voce ha più significato e, di conseguenza, l’aggiornamento vale di più. Capita, quando in questi giorni rivedo persone care dopo più di due mesi, di misurare su di loro il grado di prudenza che mettono in atto e di valutare i loro comportamenti. Non è un giudizio, mi rendo conto che serve a me per ritarare la mia prudenza e i miei comportamenti, per registrarli in modo più restrittivo o per allentare un po’ di più. Alla fine moduliamo i nostri comportamenti sulle persone di cui ci fidiamo, se succede qualcosa e la persona che abbiamo di fronte non è per nulla in agitazione la reazione sarà simile. Diverso è vedere l’agitazione negli occhi di coloro che abbiamo intorno. Nel caso del mio amico ciò non vale: ci rivediamo, mi dicevo, e sulla base delle distanze che terrà lui io mi adeguerò, ma il mio amico è infermiere e quindi intriso di quel fatalismo tipico di chi lavora nella sanità per cui tiene poco le distanze e non ha comportamenti particolarmente prudenti. Ma non vale per me, non posso prendere le misure su di lui, anche se poi inevitabilmente si finisce per tenere le distanze del meno prudente. A un certo punto mi dà una pacca sulla spalla e io mi rendo conto che è il primo contatto fisico da più di due mesi, non che la cosa mi procuri sensazioni particolari ma mi colpisce rilevarlo.

Come già scrivevo, le procedure per ricevere un cliente in ufficio sono talmente macchinose, temperatura, guanti, mascherine, modulistica, pulizia, contropulizia di maniglie, porte, tavoli, sedie, di offrire il caffè manco a parlarne, che viene voglia di riceverli in un parcheggio o in un campo. Lo stesso per le persone che conosco e con cui parlo: il commercialista ha una sedia fuori dallo studio sulla quale si lasciano le carte da consegnare; con l’assicuratore si fa tutto via mail o app e per la firma ci vediamo per strada; con i colleghi nessuno si sogna nemmeno di proporre di vedersi di persona; in banca solo per pratiche importanti e su appuntamento, altrimenti facciamo a voce, spesso contravvenendo alle regole che prima di marzo erano tassative. Allora era possibile farlo in modo più semplice, mistagoghi. Al supermercato, invece, hanno abolito il dipendente con in mano il termometro a infrarossi e hanno installato una specie di autovelox fisso davanti al quale si può passare in fila e in marcia, senza fermarsi. Più veloci, che chi parla di covid è perduto.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 85

  1. Non esiste!

    Non esiste (più)! Abbiamo scherzato…
    Nel caos che precede l’ennesima tappa della vicenda del covid, vale a dire la riapertura dei confini regionali annunciata per il 3 giugno, si è inserita ieri una polemica non esattamente innocente aperta dalle parole del prof. Zangrillo, primario del reparto di terapia intensiva del San Raffaele di Milano, secondo cui, testualmente, ora come ora “il Covid clinicamente non esiste”.
    La frase, naturalmente, deve essere letta nel suo contesto e non vuol suggerire scenari complottistici, ma “soltanto” sottolineare che, da qualche tempo a questa parte, il virus parrebbe aver perso molto della sua aggressività e che pertanto non è più giustificato un allarmismo che ci impedisca di recuperare una congrua fetta di normalità. Per quanto concerne Zangrillo, tra l’altro, va detto che nell’intervista di cui sopra lui specifica che “non gli frega niente” di dove gli italiani vanno in vacanza o del fatto che ricominci o meno il campionato, ma gli preme più che altro di restituire ai medici la possibilità di curare i malati in modo stabile e con le possibilità di prima, in modo cioè non più emergenziale e subordinato alla ristrutturazione dei reparti portata dal covid.
    Capisco perfettamente Zangrillo e non ho difficoltà ad ammettere che, a questo punto, nel bilanciamento che si deve necessariamente effettuare (e che quotidianamente si effettua, anche senza dirlo) tra cautela rispetto a possibili nuove ondate di contagi e i costi – non solo economici, ma anche psicologici o sanitari (come quelli che sopportano altre categorie di malati) – legati al mantenimento dell’assetto “emergenziale” di adesso, avere forti indizi sulla attenuata capacità lesiva del virus sia un elemento importante, certamente non trascurabile.
    Il tempismo di questa dichiarazione, nondimeno, appare inevitabilmente un tantino sospetto, perché dal punto di vista politico e del “comun sentire” si inserisce in un trend di crescente insofferenza alle limitazioni che – a differenza che nel ragionamento di Zangrillo – non ha alcun supporto scientifico. La gente si è rotta i coglioni delle limitazioni e basta; e siccome non sente più le ambulanze e gli elicotteri e non vede più i servizi dei medici e degli infermieri in lacrime, mentre le conferenze delle 18 della Protezione Civile sono un lontano ricordo, non è più disposta a sopportare uno sforzo che pare privo di senso. Le parole di Zangrillo però danno a questa inclinazione già presente la parvenza di una giustificazione razionale. Dico la “parvenza” non per esprimere un mio parere sulla bontà di quanto affermato da un primario che evidentemente molto più di me ne sa, ma perché il motivo per cui la gente comune è felice di credere a quanto il mistagogo Zangrillo dice con la sua aurea sapienziale non è affatto l’avvenuta verifica delle sue affermazioni (inaccessibile ai più) e neppure una valutazione positiva del suo curriculum rispetto a quello degli altri suoi omologhi che dicono cose diverse (e tanti ce ne sono), ma semplicemente il fatto che Zangrillo dice cose gradite, che consentono di razionalizzare a posteriori scelte compiute a priori per tutt’altre ragioni.
    S’intende che questo atteggiamento, per lo meno se ci si mette nei panni dei più, per un verso è pienamente comprensibile e per altro verso non è responsabilità dei singoli. A nessun cittadino deve essere imposto di diventare un esperto delle questioni di virologia, epidemiologica e sanità pubblica, ma soltanto – ed è già molto – di tanto in tanto di carpire il succo di quanto si dice a reti unificate e di conformarsi alle relative prescrizioni. Quanto al resto, ognun per sé e dio per tutti. Solo che per mesi siamo stati bersagliati di opinioni opposte, cui il Governo dava a intendere di credere e alle quali ci chiedeva di credere, mentre adesso ci chiede di credere a una quantità di cose incompatibili. Ed è in questa chiave che le dichiarazioni come quelle di Zangrillo cadono come il cacio sui maccheroni, confermando autorevolmente il proverbiale “andazzo” degli ultimi tempi: Pedro, adelante (per il juicio ci aggiorniamo a fine settembre)!

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