minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 72

Chissà perché anche stavolta mi immaginavo una cosa graduale, nonostante fosse scritto nel decreto abbastanza chiaramente, e invece no: è riapertura vera. Vado in banca a lasciare trentasei firme perché i BTP Italia anti-covid li voglio anch’io, sento il commercialista per IMU e dichiarazione dei redditi, l’impresa comunica che domani, finalmente, inizierà il cantiere a casa, fermo da ottobre prima causa pioggia e poi causa pandemia, faccio il mio primo ordine online da marzo, bevo il mio primo caffè al bar, intendo al banco, entro in due grandi magazzini, abbigliamento sportivo e bricolage, vedo i locali, cioè i posti dove la gente va a bere la sera, che riaprono tra grandi saluti e pulizie, valico per la prima volta da settanta giorni un confine comunale, ricomincio a usare il calendario per segnarmi degli appuntamenti. Si riapre per davvero. Diminuiscono anche le spese che devo fare per le persone, alcuni cominciano a provvedere in autonomia. Che dire? Lecito, bene così, anche se le prescrizioni sanitarie non sono cambiate, specie per le persone con più di sessantacinque anni e, quindi, la prudenza dovrebbe essere d’obbligo. Ma adesso i medici e gli scienziati non li ascolta più nessuno, sono stati sugli scudi per due mesi e adesso basta, possiamo anche dirlo: hanno anche un po’ rotto. Gli angeli, gli eroi. Sempre così, ora sui giornali e in rete se ne trovano tracce minime. Nemmeno il governo l’ha fatto stavolta, di ascoltare gli scienziati, e per la prima volta dalla crisi ha preso una decisione in altra direzione rispetto alle calde raccomandazioni di prudenza. Adesso sotto con economisti, segretari di partito allo 0,2%, psicologi, preti, sindacalisti, capitani d’industria con sede fiscale all’estero, giornalisti e fondatori di giornali, gattini, ricominciamo come prima. Avanti con il rumore di fondo costante, le code ai semafori, l’inquinamento come compagno di vita, le persone dedite alla scrittura o alla riflessione riferiscono in parecchi casi un senso di perdita, tutto sommato, dovuto al fatto che l’equilibrio monastico raggiunto nei mesi scorsi aveva i propri aspetti positivi, ora in procinto di smarrirsi.
Riapertura significa anche ripresa in senso automobilistico, nel senso che aumenta la velocità d’azione: fino a settimana scorsa bastavano due telefonate a riempirmi una giornata, ben spesa tra l’altro e con una certa spossatezza serale, ora le due telefonate le ho fatte entro le dieci del mattino, tra una settimana ne avrò fatte tre prima delle otto e mezza, pronto a passare ad altre ottomila cose. Corri, Forrest, corri. E il passaggio successivo, pressoché immediato? La lamentazione per il logorio della vita moderna. Ah, se avessi tempo. Perché fino a ieri vi siete lamentati dell’inattività, da domani sarà per l’improba attività, troppo facile fare i profeti in patria. Servono vacanze, diranno, come se gli ultimi settanta giorni non fossero stati di assoluta, inimmaginabile, sostanziosa vacanza nel senso più letterale mai visto.

Difficile dire come stia andando, perché i dati che vengono comunicati sono sistemati ad arte in modo da essere inutilizzabili, la tendenza che viene diffusa è positiva, nel senso di calo costante, anche se non omogeneo – Sardegna zero, Lombardia metà Italia – quindi l’unica è cercare di farsi un’idea dagli elementi visibili. Ma ciò è tutto fuorché un approccio oggettivo: chi sarebbe di suo prudente nota, più che altro, le persone senza mascherina che si assembrano in modo sciagurato, chi invece è portato a muoversi con più disinvoltura noterà solamente mascherine, guanti e persone distanziate dappertutto. In medio stat veritas? Quousque tandem abutere, Catilina… ah no, questo no. Vediamo se ciò che stiamo facendo ora basta, sperandolo.

Per non farmi mancare nulla, ma proprio nulla, di questa riapertura, mi scheggio un dente e vualà, anche un giro dal dentista è assicurato. Bene, riparte anche l’economia dei dentisti, ne sono contento. Faccio la mia parte.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 72

  1. Ripartenza

    Pron(t)i, ripartenza, via. Stamattina sembrava il giorno dopo il ritorno dalle vacanze: volume di traffico aumentatissimo (non proprio quello normale, ma quasi), difficoltà coi parcheggi, molta più gente a piedi per strada, immediatamente qualità più scadente dell’aria respirata.
    Non è che proprio abbiano riaperto tutti, nemmeno tutti quelli che avrebbero potuto, ma i più hanno comprensibilmente cercato di mettersi in movimento, ovviamente ciascuno a modo suo, secondo le proprie capacità e possibilità: c’è chi riapre su prenotazione e chi approfitta di questa fase per ristrutturare i locali, chi sta puntando sulla propria versione online, magari perché l’ha sperimentata con successo proprio nel periodo di lockdown, e chi invece nel mentre è fallito e chiude i battenti. Come sempre i momenti di crisi fungono da elemento di selezione naturale: i più deboli periscono, i più forti e i più adattivi ne approfittano, e compensano almeno in parte la minor domanda con la minor concorrenza.
    Al di là degli imprenditori, degli artigiani e dei commercianti che hanno riaperto le loro attività sono poi anche i comuni cittadini ad essersi riappropriati di fette abbastanza significative della loro pregressa “normalità”. Oddio, proprio normale la situazione non è, nemmeno in quei posti dove si è stati riammessi: basta pensare alle code davanti ai negozi e al distanziamento imposto all’interno dei bar. Però, dopo un lungo periodo dove queste cose proprio non si potevano fare, osservarle fa una certa impressione.
    Qui si innesta il primo elemento di riflessione, vale a dire l’inevitabile tendenza a notare quello che più suggeriscono le proprie paure e le proprie speranze. Le prime (paure) fanno subito alzare il sopracciglio quando si notano i primi assembramenti, magari dei classici cretini che si mettono in quattro al tavolino del bar a bere pirli (saranno tutti coinquilini?); le seconde (speranze) suggeriscono che i fenomeni di “devianza” siano tutto sommato numericamente contenuti e che in percentuale si vede che le persone stanno mediamente molto più attente. Al di là di qualche stima impressionistica condizionata da quella piccolissima porzione di reale che possiamo vedere, del resto, quantificare per davvero è improbo e dunque non resta che attendere il weekend per avere qualche riscontro su scala più larga, sperando che non sia troppo preoccupante.
    Peraltro, ottenere dei dati e discuterne oggi non va più di moda e le varie statistiche che ci hanno accompagnato per quasi due mesi sono relegate a luoghi trascurabili (e infatti trascurati) dei giornali online. Non solo: le conversazioni che prima erano inevitabilmente legate agli aspetti sanitari dell’emergenza sono d’un tratto scomparse, lasciando il campo a considerazioni di tipo politico-economico, trattate con la consueta superficialità e con l’usuale pressapochismo tanto dal proverbiale uomo della strada (e va bene…) quanto dal politico o giornalista di turno (e va meno bene…). Ci sta, era prevedibile e pure io lo reputavo uno sviluppo inevitabile; è piuttosto l’immediatezza del meccanismo di rimozione a impressionarmi: ma come, davvero ce la fate così bene? E perché a me non riesce?
    Annoto che da qualche giorno anche le sirene delle ambulanze hanno ricominciato a risuonare più frequenti: dal punto di vista del covid significa poco o nulla, perché la gente si ammala anche e (soprattutto) lavorando si infortuna anche per altre ragioni, ma soggettivamente è un indicatore del fatto che la mia attenzione sul tema è ancora alta.

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