minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 68

15.298 morti, la regione nella più completa confusione e Fontana fa conferenze stampa in cui afferma di aver gestito tutto nella maniera migliore. È purtroppo il gioco delle parti, in questo caso scandaloso perché sul tavolo ci sono moltissimi morti, ma è ciò che sta facendo la destra in tutto il mondo, guidare le proteste contro le norme sul distanziamento e l’isolamento, mescolando legittime preoccupazioni economiche, individualismo ostinato, teorie complottiste, e un rifiuto infantile delle imposizioni dello Stato. Oltre a far finta di non vedere ciò che i dati, maledetti, dicono sulla situazione reale. Tutto questo non importa a una bella fetta della popolazione, che vuole riprendere le proprie consuetudini, come giustamente dice il mio amico F., «spadroneggiare» nei due o tre ambiti piccoli e irrilevanti in cui riesce a farlo, e basta, del resto non vuole sapere nulla. E voterà Lega e a destra comunque. Se riaprire fosse la soluzione certa, si potrebbe anche decidere di assumersi il rischio ma siccome non lo è, e non è nemmeno certo (euf.) che i costi della riapertura (posti in meno, sanificazioni, dispositivi etc.) vengano pagati dai ricavi, ridotti e, neppure, che una nuova eventuale richiusura costi meno del riaprire ora. Cerco di essere conciliante. Silvia Romano ha scritto un messaggio privato ai suoi amici nel quale ha chiesto loro: «Vi chiedo di non arrabbiarvi per difendermi», mi pare un’indicazione bella e ricca di grazia. Si allargano le possibilità di movimento, ora per ragioni di urgenza, necessità, lavoro e visita ai congiunti è possibile muoversi all’interno della Regione, se non sbaglio. Sì, riflettevo, anche ammesso che io mi inventi un congiunto in un posto interessante, poi una volta lì che potrei fare? Una colazione al bar o un pranzo in una buona trattoria? No. Una mostra, un museo, una zona archeologica? No. Una cena a casa di amici? No. Biblioteca? No. Finisce che potrei andare al supermercato, il che rende decisamente meno attrattiva l’idea di muoversi. Una camminata in montagna o in collina o sul lago no, in teoria quella potrebbe essere, e forse bisognerà orientarsi in quella direzione per uscire dal piccolo cerchio in cui siamo rinchiusi.

Qualcosa in questo senso però si può fare e oggi l’abbiamo fatto. Contravvenendo in maniera minima alle norme ma non alle prescrizioni sanitarie, ci siamo trovati in cinque, amici/familiari, in giardino, per poter passare del tempo insieme e parlarci, per la prima volta in due mesi, senza mascherine e senza porte in mezzo. Distanziati, chiaro, con guanti quando serve e precauzione ma, insomma, siamo stati insieme. È stato importante per me, ho bisogno di relazioni che non siano telefoniche, anche se, facile prevederlo, poi siamo finiti a parlare per buona parte del tempo del contagio, delle misure prese o non, di cosa si è fatto e di cosa si dovrebbe fare. Bello sarebbe stato parlare d’altro ma troppo larga parte hanno avuto in questi quasi settanta giorni tamponi, test, morti, ambulanze e sirene, timori, il tempo e il poco spazio, per non parlare di quello. Bene così, mi ha fatto un enorme piacere e sento che anche il mio morale ne risente in modo positivo. Grazie, dunque, amici/familiari. Scopro poi di non essere stato il solo, la mia dirimpettaia T. ha fatto lo stesso, in modalità familiare, e posso ben dire di comprendere. Possiamo decidere di farlo in maniera prudente, avvisata, ma non possiamo rinunciare a vedere le persone cui teniamo. Non c’è telefono o videoconferenza che tenga. A sera sono tornato a casa alle nove, imbruniva, e mi sono reso conto che erano più di due mesi che non lo facevo, sempre tornato ampiamente entro le sette. Inebriante? Un po’, anche se penso che se avessi voluto tirare più tardi non avrei saputo come, per il discorso di prima.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 68

  1. La mamma è sempre la mamma?

    Siccome sono conciliante di natura, oggi vengo incontro a una richiesta e spendo una parola su mia madre, finora assente dalle riflessioni di questo covidiario. Omissione in un certo senso colpevole, visto che mia mamma si è costantemente rivelata, tra le altre cose, anche un’importante cartina di tornasole delle mie riflessioni sulla “gente”, per capire come una fetta di quest’ultima avrebbe potuto reagire alle varie norme progressivamente introdotte.
    Mia madre, infatti, rappresenta quel genere di persona che (1) certamente non crede al valore delle leggi in quanto leggi e al contrario (2) le sottopone a un’intensa critica di contenuto quando esse non le consentano di realizzare i propri desideri, laddove (3) in caso di contrasto (tra leggi e desideri), per sua stessa ammissione, la sua disponibilità all’osservanza è fortemente condizionata dalla presenza di una sanzione concretamente erogabile.
    Va da sé che ci sarebbero moltissime altre cose da scrivere e da precisare, ma ai fini delle nostre pagine anche questo succinto quadretto può bastare. Sta di fatto che, nel periodo contraddistinto dall’emergenza covid, le conversazioni con mia mamma sono state innumerevoli e – oso immaginare – molto simili a quelle intercorse tra tante altre mamme e tanti altri figli che non vivono insieme a loro. Una delle difficoltà più ricorrenti è stata, e in parte continua ad essere, quella di far passare il messaggio secondo cui, quand’anche le norme legali possano essere eluse (senza elevato rischio di sanzione), non sempre valga la pena di seguire questa strada. Insomma, è verissimo che talvolta la legge impone prescrizioni anche stupide, prive di una ratio quanto meno se riferite a un comportamento individuale: pensiamo, ad esempio, al divieto di camminata in solitaria, che per qualche tempo pure è stato in vigore. È altrettanto vero, però, che tale irragionevolezza va accertata ragionando caso per caso (norma per norma) e non presunta ogniqualvolta una prescrizione si scontri con quel che vorremmo fare.
    Così come i rischi sanitari connessi a certi comportamenti (vicinanza fisica, compresenza in un ambiente chiuso senza mascherine, condivisione di piatti e posate che insistono sulle medesime pietanze etc.) dovrebbero essere valutati serenamente e soprattutto puntualmente per quello che sono, e non aumentati o diminuiti (quando non direttamente “scotomizzati”) per venire incontro ai nostri desiderata.
    Ma attenzione: questo NON vuol dire che i nostri sogni, i quali ovviamente spaziano molto più in là del (pur presente) desiderio di restare in salute, non siano importanti e non possano in certi casi prevalere, nel quotidiano bilanciamento che caratterizza pressoché ogni scelta di vita (anche quelle più elementari), sui “beni” contrapposti, ad esempio quello della prevenzione rigorosa rispetto al rischio di contagio. Significa soltanto riconoscere alle cose il loro peso (nei margini in cui lo si possa conoscere, certo, ma anche nella relativa incertezza esistono regole su come comportarsi diverse dal puro volontarismo soggettivo), il che mi sembra pur sempre la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per effettuare un autentico bilanciamento.
    Aggiungo inoltre che, nel momento in cui i nostri desideri, per essere realizzati, devono coincidere con quelli degli altri, e magari anche i nostri bilanciamenti devono avere esiti corrispondenti (o quanto meno compatibili) con quelli effettuati dagli altri, la corretta (e condivisa) “pesatura” degli elementi oggettivi comuni, come ad esempio i fattori di rischio, diviene pure una questione di reciproca “cura” comunicativa, di buona comunicazione tra persone che si rispettano e che si vogliono bene.
    La “rigidità” che giustamente potrebbe essere ravvisata nella pretesa un po’ ottusa di rispetto “a prescindere” del disposto legislativo, nel momento in cui si rivolge alla (corretta) pesatura del rischio è soltanto rispetto della realtà delle cose, per come noi oggi la conosciamo. Poi per carità, “la mamma è sempre la mamma” e nulla vieta che, per il piacere di trascorrere una serata cenando insieme alle persone che amiamo, si possano correre (e far correre) rischi in ipotesi anche notevoli. Ma un conto è auspicare, in forza di statuti affettivi speciali, una maggiore disponibilità al rischio, un altro sminuire quest’ultimo a bella posta: nel primo caso, pur modificando le proprie preferenze, si effettua un nuovo bilanciamento purtuttavia sempre corretto (nel senso di coerente rispetto ai dati di input); nel secondo invece, alterando un dato oggettivo, lo si falsa.
    La “prova del nove” per le mamme sarebbe facilissima: se il rischio fosse oggettivamente basso come dicono per giustificare la cena in famiglia, il recupero della socialità dovrebbe avvenire allo stesso modo anche con gli amici e altri “congiunti”. Se istintivamente così non è, allora qualcosa nel ragionamento non quadra. Cui prodest?

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