minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 66

Il clima complessivo è un po’ schizofrenico: da un lato si ventila che da lunedì sarà possibile vedere gli amici, in concomitanza con la riapertura dei ristoranti, basta fare due più due, e dall’altro la Lombardia non solo ha lo stesso numero di contagiati di tutto il resto del paese messo insieme ma oggi ha pure triplicato il numero dei nuovi ammalati, arrivando a mille. Quindi? Amici e tutti fuori o contagi in aumento? O tutt’e due? L’atteggiamento schizofrenico deriva, secondo me, dal fatto che in Italia ci sono situazioni molto diverse tra loro, Piemonte e Lombardia da una parte, il resto dall’altra, sommariamente, e dal fatto che politicamente ci sono due posizioni prevalenti, una riflessiva che sostiene una linea prudente sulle riaperture e una smaniosa di riaprire tutto. All’interno di questi schieramenti, le motivazioni sono davvero molto varie: chi ha a cuore per davvero la salute dei cittadini, chi ha a cuore la salute delle imprese – mai come in questi mesi le due cose sono apparse in contrasto – chi ha a cuore sé stesso, chi ha a cuore la propria salvezza politica (e giudiziaria) perché ha commesso una serie di cappellate criminali negli ultimi tre mesi, chi ha a cuore semplicemente la confusione. Domani sapremo se le riaperture saranno differenziate oppure no, così finirà il travaglio interiore. Seoul ha appena richiuso locali, ristoranti e bar, per dare qualche elemento utile al dibattito. E Seoul, intesa come Corea del sud, ha sicuramente alcune cose che noi non abbiamo, per esempio tecnologie di tracciamento attive e funzionanti (a proposito: me lo sono sognato io o c’era un’app che si chiamava «Immuni»? Sogno?) e un certo qual controllo sulla popolazione che noi figuriamoci. Nel piccolo ufficio che frequentavo fino ai primi di marzo, sedici persone e diciotto postazioni, si ragiona sulla messa a norma, più che sulla riapertura in sé, anche perché senza una non ci può essere l’altra. Si parla, dunque, di sanificazione pressoché quotidiana, di percorsi di entrata e di uscita che non si devono intersecare, di dispositivi di protezione individuale, di utilizzo delle maniglie, dei bagni, di diciotto, dicasi diciotto, uno per postazione, cartelli con indicazioni mirate sparsi per l’ufficio (non è vezzo, sono obblighi di legge), da quello che spiega che non è cattiva educazione non stringersi la mano nella zona ricreazione a quelli sugli ingressi riservati, le distanze di sicurezza, il divieto d’accesso, l’obbligo della mascherina e così via. Ma la menata è infinita, perché anche l’aria condizionata sarà un problema. L’ufficio va messo a norma, chiaro, ma il riaprire nel senso di tornare lì a lavorare è oggettivamente un’altra faccenda, sia per i costi materiali sia per i costi nei termini dei dipendenti che si agitano. La cosa si fa perché la legge lo impone, poi vedremo. Il lavoro da casa, per chi lo può fare, e noi possiamo, pare ancora essere la soluzione preferibile, al momento. E poi, ma questo lo dico per me, perché mai dovrei riaprire se non ho lavoro da fare?

La mia rete di scambi procede inarrestabile, per come si è oliata in questi sessanta giorni: il martedì è il giorno della frutta e della verdura, io faccio la spesa – mediamente pago circa ottocento euro, che sono un bel volume di frutta e verdura, visto che non compro manghi andini e non faccio la spesa da Cartiè – e poi la distribuisco alle persone o nuclei familiari con cui sono in contatto. La cosa più difficile è fare la spesa, nel senso di comprare le cose giuste e metterle nei sacchetti correttamente, poi la consegna è il meno. Anche se, essendo in motoscurreggia, devo fare diversi carichi e giostrarmi tra una borsa grossa tra le gambe, il bauletto pieno e uno zaino in spalla. Gli altri giorni sono, di solito, giorni di spesa al supermercato, in farmacia o commissioni particolari, per esempio bancomat, bollette, giornali e poco altro. Nei diversi giri, accade che ci sia uno scambio permanente con le persone che vado a rifornire ed è una cosa a dir poco meravigliosa. Oltre che divertente. Per esempio, solo per attenermi a questa settimana, le splendide persone che vado a trovare mi hanno dato una clamorosa cheesecake ai lamponi fatta in casa (giuro!), una preziosissima e rara mascherina ffp2, la visione di un’immagine del colombario di villa Doria Pamphilij, delle caramelle e dei fiori, una raccolta di formaggi vera e propria con annessa bottiglia di vino, due tavolette di finissimo cioccolato, due panetti di burro artigianale. Fantastico, eh? Non vorrei esagerare con il paragone ma potrei chiamarla un’economia di tempi di guerra, nella quale ci si scambia ciò che si riesce ad acquisire o produrre: poiché lo si fa in una certa quantità, il baratto è il sistema più utile per il funzionamento del circolo. Ovviamente non è un dare-avere in senso stretto, io sono contento di fare le spese per loro e loro manifestano il proprio ringraziamento con doni, molto apprezzati. L’impegno che mi prendo fin da ora è fare in modo che questa cosa prosegua anche una volta finita questa situazione orrenda, mantenere questo modo gentile di prendersi cura gli uni degli altri. E un po’ viziarsi.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 66

  1. Il travaglio sierologico

    Il travaglio della Giunta lombarda è giunto al termine e adesso possiamo finalmente parlare di norme e non di gossip in relazione ai test sierologici, che nei prossimi giorni anche i privati potranno effettuare, a loro spese, nei laboratori accreditati. Come, ci avete creduto? Eh ma allora mica avete seguito bene le puntate precedenti… no no, il romanzo continua! I giornali online da ore titolano, sulla base di una dichiarazione dell’assessore Gallera, “test sierologici ‘aperti’ anche ai privati”, ma se si va a cercare per i dettagli (io l’ho fatto, perdendoci più tempo del dovuto), non si trova nulla di tangibile.
    Il sito della Regione Lombardia, in effetti, dà sempre soddisfazioni. Il testo della delibera non si trova neanche a pagarlo, in compenso ho provato autentico diletto nell’imbattermi nella “Pagina di Regione Lombardia dedicata all’emergenza Coronavirus” dove campeggia un unico slogan cubitale: “pronti, partenza, Lombardia”, accompagnato dall’hashtag #ricominciamosicuri. Strano, non mi ero reso conto che si fossero mai fermati con le prese per il culo.
    Dopo molti buchi nell’acqua, trovo finalmente qualche indicazione in più sull’Eco di Bergamo. Non si tratta della Gazzetta Ufficiale, ma ci accontentiamo dei relativi virgolettati di Gallera, quello che – lo ricordo – annunciava test sierologici “a tappeto” già lo scorso 23 aprile. Cosa viene fuori?
    L’esordio galleriano è un manifesto programmatico: “Chiarezza, trasparenza e responsabilità, nell’ottica di favorire i test sierologici da parte degli operatori privati, ma senza penalizzare in alcun modo la sanità pubblica, bensì contribuendo a rafforzarla”. Ottimo messaggio, soprattutto considerato che proprio oggi la procura di Milano ha aperto un’inchiesta sull’affidamento diretto (senza gara) ed esclusivo dei test, da parte della Regione, alla multinazionale italo-cinese DiaSorin: honni soit qui mal y pense.
    Quanto alle misure concretamente attuative, Gallera spiega che “il test sierologico sui privati in forma autonoma non è utile e genera false aspettative e per questo abbiamo previsto che sia possibile effettuarlo all’interno di una determinata comunità (es. aziende, Enti, ecc)”. Tuttavia, “chi lo propone deve occuparsi di tutto. Di acquisire i test sierologici, trovare il laboratorio che li processi, spiegare al cittadino che il test è volontario, reperire i tamponi a cui sottoporre la persona qualora questa dovesse risultare positiva al test. L’esecuzione del tampone non dovrà gravare sulle priorità della sanità pubblica”.
    Se qualcuno capisce meglio del sottoscritto mi contatti in privato, perché a me pare letteralmente di sognare. Quella che doveva essere una tardiva apertura per i singoli cittadini lasciati soli in questi mesi – pensiamo alle centinaia di persone entrate in contatto con un positivo e mai testate, alle migliaia di sintomatici in isolamento volontario – alla possibilità di iniziare un percorso diagnostico si traduce in una linea guida che scarica ogni onere (economico, logistico, sanitario) sul datore di lavoro, senza peraltro garantire neppure (visto che il test è volontario) la mappatura di tutti i dipendenti o gli appartenenti alla fabbrica o all’ente. Questo quando in Veneto da settimane fanno i test sierologici a domicilio e all’ospedale di Padova ci si può mettere in fila per avere i tamponi.
    Ammetto di essere sempre più stanco e “scoglionato”, anche perché intorno a queste vicende non percepisco più particolare indignazione, neppure da parte di chi ne è toccato direttamente, ma soprattutto rassegnazione, straniamento ed apatia. La Regione davvero dovrebbe essere commissariata per la gestione di questa emergenza e invece l’impressione è che ogni giorno sia buono per affidare i lavori agli amici e a forgiare linee guida che potranno essere utili al massimo all’Inter Football Club.
    Non c’è da stupirsi poi se anche la “curva della felicità” si abbassa e il 12 marzo è stato eletto “il giorno più triste dell’anno”…

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