minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 60

Segni di ripresa. Il mio vicino, che lavora in un azienda di medie dimensioni a circa quaranta chilometri di distanza, durante la reclusione ha scoperto non solo che riesce a lavorare bene da casa, non solo che probabilmente lavora di più e meglio, ma che gli piace pure di più. Fatto presente la cosa all’azienda, e molti come lui immagino, la risposta è stata no. Da domani, al posto di lavoro. Con tutte le complicazioni dal toccare le maniglie – oggetto che senz’altro dovrebbe entrare nei memorabilia del periodo – a sedersi a fianco gomito a gomito. Probabilmente è ancora presto, ora serve riaprire anche in modo tangibile, quindi con i dipendenti presenti, immagino che più avanti il discorso dello smart working possa essere di nuovo affrontato. Di certo, lui uscirà domani mattina non esattamente contento. Nel frattempo, oggi riapre l’aeroporto di Orio al Serio, finora disponibile solo per voli sanitari e di emergenza. Per curiosità faccio un paio di ricerche sui voli e constato che tanto non ci sono: Ryanair, per esempio, niente prima del 22 maggio. Si può quindi andare in aeroporto a comprare profumi e sigarette, immagino. In Svizzera è ora obbligatorio per i ristoranti raccogliere nomi, cognomi e recapiti telefonici di tutti i clienti e conservarli per almeno quattordici giorni, così da poterli avvertire in caso di contagio. Italo mi segnala che d’ora in poi i posti in treno saranno disposti secondo un «assetto a scacchiera per garantire la distanza di sicurezza tra i passeggeri». Molto bene, sarò sincero: io questa cosa l’avrei sempre desiderata. Troppo vicini per i miei gusti, troppo poco spazio per le gambe nei viaggi lunghi, fastidiosi quelli al telefono anche in galleria (ma come fanno? Che compagnie hanno? Io ho già problemi in movimento…). Dopo di che, anche in questo caso provo a fare una ricerca sulla tratta più comune per l’alta velocità, la Milano-Roma, e non ci sono treni. Niente. Trenitalia va un pochino meglio, ci sono due treni al giorno e i prezzi sono decisamente superiori a un tempo. Facile la scacchiera, così, se ogni biglietto costa il doppio.

E sono sessanta, cifra tonda. Sessanta giorni dal lockdown. Ragionavo: vero, siamo nella cosiddetta «Fase Due», ora è possibile uscire secondo determinate regole, molti sono tornati al lavoro, alcuni negozi sono aperti, a certe condizioni, i controlli sono decisamente scarsi, quindi si potrebbe dire che il momento della chiusura rigida sia finito. È però altrettanto vero che per molti non è cambiato granché: chiusi in casa prima, chiusi ora. Parlo di chi ha più di sessantacinque anni, per esempio, per i quali le prescrizioni mediche non sono cambiate. O per chi non rientra nelle categorie ammesse al lavoro, o chi è troppo piccolo per riaprire a queste condizioni. Non si può dire, dunque, che si sia tornati a un certo grado di normalità. Per questo motivo, il mio minidiario prosegue conteggiando progressivamente i giorni dal fatidico otto marzo, il giorno della chiusura della Lombardia. Sessanta, appunto, oggi. Mi chiedo, però, quali condizioni si dovranno verificare perché io possa considerare concluso il periodo di lockdown: forse la riapertura dei ristoranti? Quella delle scuole (oddio, dovrei scrivere fino a settembre)? Un uragano? Quali potrebbero essere i marcatori, gli indicatori della fine della situazione anomala in senso stretto e della ripresa di una moderata normalità? La mia piena ripresa lavorativa? Seee, sto fresco. Un volo aereo? Un concerto? Un cinema? Una cena a casa di amici? Ecco, quella magari. Forse.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 60

  1. Terque quaterque

    La “fase 2”, per molti versi e senza dubbio per moltissime persone, dovrebbe essere come la “fase 1”, ma altrettanto certamente tale non si sta rivelando dal punto di vista psicologico. Non penso quindi tanto alle persone che prima non potevano andare al lavoro e che ora lo fanno, con tutto il connesso di macchine in circolazione e di attività aperte, e neppure a coloro che camminano per strada quando prima davvero non si incontrava nessuno. Tutto questo mi sembra, tutto sommato, un effetto normale e prevedibile – salvo forse per l’entità – delle nuove misure.
    Penso piuttosto alla modificazione dell’atteggiamento collettivo, che ormai del covid come emergenza sanitaria sembrerebbe volersi deliberatamente disinteressare. Esempio concreto: ieri i morti registrati in Lombardia sono quasi triplicati dal giorno precedente, e stavolta non si tratta – come dicono con delicatissimo garbo – di “conguaglio” dai giorni precedenti. Dico quasi triplicati, in un giorno. Se fosse successo anche solo due settimane fa, ci sarebbe stato un uragano di commenti, conferenze stampa, consultazione di esperti, feroci attacchi da parte dell’opposizione e avanti in questo modo. Ieri, niente. Ci si concentra sull’alto numero dei guariti. Ora, non sto dicendo che dovremmo essere terrorizzati, e in fondo il dato relativo ai decessi ha a che vedere con situazioni passate (qui non vale neppure la regola dei 14 giorni prima, perché potrebbero essere molti di più) che evidentemente sono purtroppo andate deteriorandosi, ma un pochino di attenzione in più me la sarei aspettata.
    Invece la tendenza è quella a concentrarsi su altro, sul prossimo passaggio della riapertura, sul fatto che dal 18 maggio si potranno rivedere gli amici, su quando andremo dal barbiere e su come si cenerà al ristorante dal primo giugno e via dicendo, anche se tutte queste scadenze sono meramente ipotetiche e dovrebbero dipendere da un andamento dell’epidemia nei prossimi giorni che è ancora tutto da verificare.
    Vallo tu a raccontare alla gente, al più ti risponde sbuffando: il solito rompiballe. È tempo di andare avanti, non indietro: meno telefonate spaurite, più dinamismo, meno pippe, più fatturato. E la malattia? Sembra che negli ultimi tempi si sia indebolita, e poi con mascherina, un po’ di distanziamento (neanche troppo e nemmeno con tutti, perché poi non è che coi parenti ci si ammala…) e una buona lavata di mani il problema è bell’e risolto. Magnifico manifesto di profilassi pilatesca, fessi noi a non averci pensato prima invece di chiudere tutto.
    Va da sé che anche io coltivo la speranza che tutto si risolva in modo semplice e rapido, foss’anche inspiegabile e prodigioso non importa, ma soprattutto spero davvero che l’effetto di questa simpatica metodologia di non-pensiero non ci costringa ad ascoltare di nuovo una sinfonia di elicotteri e ambulanze. Ho l’impressione che la recente esperienza non ci abbia ancora insegnato adeguatamente a considerare il fattore tempo e come le decisioni di oggi manifestino i loro effetti dopodomani. Per fortuna, in attesa di un vaccino o della prossima cura miracolosa (attualmente è candidata la plasmaferesi), un amico latinista mi suggerisce un antico rimedio sapienziale che vorrei condividere soprattutto con gli amici uomini, inspiegabilmente i più colpiti dal morbo sebbene avessero la soluzione proprio sotto il loro naso: terque quaterque testiculis tactis omnia mala fugiunt!

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