minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 42

D. Perché la Lombardia riaprirà con le quattro «d»: distanziamento, dispositivi (di protezione), digitalizzazione (del lavoro), diagnosi. Persino ovvio ripensare alle tre «i» di tempo fa. Ma potrebbe essere qualsiasi lettera, la «m» per esempio: mascherine, monitoraggio, mani (da lavare), baciare lettera testamento, basta pensarci un po’. Ma questa è, chiaramente, una bagatella. Per tornare alle «d», prima della riapertura ci sarebbero anche quelle di dolore e disperazione, delle vittime in ospedale e sole a casa, dei parenti, dei medici e infermieri, di chi si è sentito abbandonato, e sono molti.
Nessuno ha le idee chiare su come affrontare il prossimo periodo: l’indice di contagio pare si sia assestato su 0,8, ovvero una persona malata ne contagia un po’ meno di un’altra, ma non è chiaro questa cifra a che zone si riferisca, se al paese tutto o a cosa, di sicuro in certi luoghi della Lombardia è ancora ben più alto. In Regione pensano a una riapertura graduale ma rapida, come anche in Veneto, ma non è loro competenza e, poi, occhieggiano all’elettorato, fatto da devoti della religione del fatturato e del lavoro: culto che, come si è visto, ha prodotto disastri nel momento della diffusione della pandemia. Perché viene posta l’eterna contrapposizione tra salute e lavoro che chi non vive qui fatica a capire: se vuoi lavorare, a qualcosa devi rinunciare. Sia perché la fabbrica inquina e, quindi, ci rimetterai in salute, sia perché lavorare con l’imbragatura e il caschetto sull’impalcatura è scomodo e ci si mette molto più tempo. Se non ti va bene, via. E anche stavolta, di fronte all’ipotesi della riapertura, l’approccio è sempre lo stesso: per ora si riapra, poi vedremo. Che, poi, è una delle cause determinanti dell’inizio del contagio: non possiamo mica chiudere le fabbriche e le imprese, non scherziamo. Infatti. Poi c’è il governo che cerca di frenare, ricordando che i piani di gestione sono prerogativa centrale e che, in ogni caso, si cercherà di procedere in modo omogeneo per non disperdere lo sforzo e i risultati ottenuti finora. Oltre a quello, la pletora di individui o enti o chissà dio cosa che intervengono a casaccio nel dibattito pubblico e menano il can per l’aia: chi sostiene che la seconda ondata di contagio sia inevitabile, chi dice subito chi dice in autunno, e ovviamente non ci sono dati per dirlo ma l’acqua al mulino della riapertura rapida è portata (trad.: se ci sarà comunque, tanto vale lavorare finché si può); chi dice che il Signore proteggerà i suoi anche senza le mascherine; chi (Libero) dà magistrali lezioni di giornalismo, ancora, e spiega che la ragione per cui la Germania si oppone agli aiuti al nostro paese è che ci invidia, perché siamo più ricchi, ineccepibile; chi minaccia di morte il direttore di Repubblica, perché quello non deve mancare mai; chi mette in giro finti decreti con tanto di intestazione dello Stato e chi sostiene che, ovvio, ci stanno nascondendo la cura. Ma chi? Beh, chiaramente loro. Anzi, ancora una volta «Loro» (gesto delle due mani a far virgolette in aria). E poi c’è la Lega, ancora, che fa casino sui social per MES e Eurobond (o Coronabond che si voglia), per dire nel primo caso no e nel secondo sì, lagnarsi che l’Europa non ci aiuta e poi, quando si deve votare un emendamento in favore degli Eurobond che fa? Vota contro. Con scandalo addirittura di qualche leghista un pochino più avvisato. Fratelli d’Italia, che voglio dire…, capisce e vota a favore, per capirsi sul livello. Ma è comprensibile, tocca fare una parte in Italia e a Bruxelles, invece, fare ciò per cui si sono presi i soldi da Mosca: indebolire l’UE. Perché quello fa la Lega, non scordiamocelo. Nessuno, dicevo, sa come andrà, io tanto meno. Ma stavolta, in caso di una seconda ondata e un altro giro di lockdown, non mi farò trovare impreparato.

Giorno di bucato, ancora, e la mia quarantena da questo punto di vista riparte da zero: tutto pulito. Fuori dalla lavanderia automatica – ci vado perché non ho la lavatrice – vive un signore con il suo cane, cioè vive in macchina. Da parecchio tempo, ogni volta che vado a fare il bucato cerco di aiutarlo e oggi lo stesso, ma mi rendo conto di come tutta questa situazione lo metta ai margini ancor di più: procurarsi del cibo, ricevere qualche soldo dalle persone di passaggio, approfittare della vicinanza di un supermercato, trovare eventualmente strutture per un pasto e una doccia, tutto ciò è diventato enormemente più difficile. E le persone si mantengono ancor più a distanza. Gli dò tutto quello che ho, in tempi normali sarebbe quasi uno sproposito ma questi non sono tempi normali, io non so quando potrò aiutarlo di nuovo e lui ha il vizio di mangiare tutti i giorni.
Oggi è il quarantaduesimo giorno di isolamento (quarantena non si può più usare, dopo i quaranta giorni, penso). Qualcuno, tempo fa, sosteneva che «42» fosse la risposta a ogni interrogativo dell’universo. Ma era una persona di spirito e, oggi, quello spirito è più raro e, di conseguenza, anche la risposta non pare applicabile alle nostre situazioni attuali. Purtroppo.

I giorni precedenti:
giorno 41 | giorno 40 | giorno 39 | giorno 38 | giorno 37 | giorno 36 | giorno 35 | giorno 34 | giorno 33 | giorno 32 | giorno 31 | giorno 30 | giorno 29 | giorno 28 | giorno 27 | giorno 26 | giorno 25 | giorno 24 | giorno 23 | giorno 21 | giorno 20 | giorno 19 | giorno 18 | giorno 17 | giorno 16 | giorno 15 | giorno 14 | giorno 13 | giorno 12 | giorno 11 | giorno 10 | giorno 9 | giorno 8 | giorno 7 | giorno 6

Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 42

  1. Bagatelle primaverili

    Oggi c’è un bel clima primaverile. Calduccio e venticello, un po’ di pollini. Con la luce che ormai raggiunge le otto e mezza di sera (ogni anno mi dimentico che a metà aprile è già così e ogni anno mi stupisco) mi dico che sarebbe ora di inaugurare la stagione degli aperitivi all’aperto. Nel frattempo, grazie al mio coinquilino E., si è concepita (da me) e realizzata (da lui) la prima grigliata di pesce in terrazza: una splendida, succosa orata che ho gustato con la flemma del deportato. In circostanze normali potrebbe cosa da poco, ma di questi tempi anche una bagatella come questa assume un “sapore” particolare.
    Fuori iniziano piccole prove di ritorno alla normalità. La gente, per quel poco che vedo, indossa le mascherine, ma talora solo a titolo meramente esornativo, visto che per parlare al cellulare sono abbassate sotto il mento, laddove il naso è quasi sempre scoperto. Se questo dovesse essere lo standard, mica andiamo tanto bene, soprattutto se – come mi dice un amico che gira più di me in città – il traffico negli ultimi giorni aumenta e con esso anche gli assembramenti. Il punto è che molta gente si sente di fatto sempre più abbandonata a se stessa, senza una concreta e certa prospettiva, e in questo clima anche la disponibilità a osservare norme che restringono la propria libertà diminuisce, soprattutto per quelle che non vantano una ratio cristallina.
    Dopo un’iniziale idea di relativa compattezza, la politica nazionale del governo langue, di strategia manco a parlarne, ognuno dice la sua e quindi il gossip torna sovrano. Il risultato è una gara pressoché quotidiana tra gli amministratori regionali e locali a spararla più grossa: se non è Fontana è Zaia, se non è il De Luca campano è quello messinese. C’è chi vuol chiudere tutto a oltranza e chi vorrebbe aprire tutto da subito, e i ruoli non mancano di invertirsi con una certa frequenza. Dal governo centrale, mi si dice, stanno preparando impugnazioni contro varie ordinanze deliranti adottate a livello locale, ma la di là della vicenda giuridica colpisce che si proceda così, in ordine sparso.
    L’informazione al pubblico – essenziale soprattutto se si pensa a quanto ci attende – non sembra andare meglio. La palma del più chiaro – mi verrebbe da dire, del più icastico – se l’assicura oggi il Commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, in conferenza stampa, che ci illumina con un paragone folgorante: «Mi sembra opportuno dare un parametro – dice in conferenza stampa – Tra l’11 giugno 1940 e il 1° maggio 1945, durante la Seconda guerra mondiale, a Milano ci furono duemila vittime civili in 5 anni. Per il Coronavirus in 2 mesi in Lombardia ci hanno lasciato oltre undicimila civili, cinque volte di più».
    Provo a ipotizzare il ragionamento. L’idea è di confrontare due episodi importanti e traumatici (Seconda guerra mondiale ed emergenza covid) per arrivare a dire che il covid ha fatto molti più danni e in meno tempo. Bene. Mi immagino Arcuri che per rilasciare la sua dichiarazione a effetto confronta il dato complessivo dei morti da covid (11.000) col numero complessivo dei morti lombardi nella Seconda guerra mondiale: meglio evitare (sennò poi ci si ricorda cosa sia davvero la “guerra” secondo vocabolario). Lasciamo perdere i militari e restringiamo il conto a quello dei caduti tra i civili? Nemmeno qui la proporzione è soddisfacente. E allora prendiamo i dati delle singole città (provincia? comune?) e qui anche senza scegliere Sondrio il gioco è fatto: un capolavoro di omogeneità e astuzia comunicativa.
    Se questi sono gli esperti che dovrebbero pienamente istruire e soprattutto adeguatamente motivare la popolazione al rispetto della best practice nella c.d. “fase 2”, possiamo davvero dormire su sette guanciali.

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