minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 39

In cinque giorni passiamo dalle librerie richiuse, perché qui in Lombardia c’è una situazione che a Roma non se ne rendono conto, all’annuncio della riapertura totale della regione il 4 maggio. Bene, direi avanti con una direzione precisa. Naturalmente questo crea confusione e chi desidera la prende come gli pare, ovvero lavorando fin da ora. Perché, se non erro, ci sono state oltre sessantamila richieste di riapertura in deroga e, siccome la guardia di finanza non riesce certo a rispondere a tutti, si piglia la comoda regola del silenzio-assenso e avanti, si apre. Trentottomila imprese, se non sbaglio. In effetti, oggi portando un po’ di spese posso dire che di traffico (e di gente in giro) ce n’è parecchia di più, non proprio tutti lavoranti.
La notizia buona è che mi hanno accreditato i seicento euro, con tanto di sms d’avviso. Beh, cosa gradita, visto che l’ultimo reddito percepito è di inizio febbraio e che, invece, al supermercato vogliono la pecunia fresca. Un aiuto dallo Stato che apprezzo, come qualsiasi ritorno delle tasse in servizi o, per andare più indietro, le vaccinazioni da piccoletto e, a proposito di cosa il mio paese fa per me, alcuni giorni fa ho ricevuto una mascherina dono del Comune. Peccato fosse una di quelle del Brico che servono per l’uso brutale del trapano, non sanitaria. Da piangere.
Questa la devo segnalare qui: Kellyanne Conway ha diretto la campagna elettorale di Trump nel 2016 e, a vittoria ottenuta, è stata eletta «Counselor to the President». Come tale, consiglia e ieri ha detto una cosa interessante sul virus: «Stiamo parlando del COVID-19, non del COVID-1, quindi chi lavora all’OMS dovrebbe ormai esserne venuto a capo». Testuale. Giusto, perdio, alla diciannovesima versione si dovrebbe aver capito, no? All’OMS sono duri di comprendonio e probabilmente sarà per quello che l’amministrazione Trump, qualche giorno fa, ha sospeso i finanziamenti. La cosa è molto molto seria, trattasi di ritorsione per le critiche ricevute.

Mutamenti d’umore, sia mio che delle persone con cui parlo, almeno alcune. Da un primo periodo di disponibilità e, direi, rassegnazione, dettate dall’emergenza, adesso lo stato d’animo prevalente è quello della stanchezza e della rabbia crescente a fronte di una politica che dire incerta è dire poco, a livello regionale lombardo poi non ne parliamo. Il timore che tutto si prolunghi e che non venga affrontato nel modo migliore si fa largo in molti, da quel poco che riesco a percepire al telefono con alcuni amici. Altri no, hanno staccato i canali di informazione e attendono diligenti. Bravi, lo dico seriamente. Io no, non riesco, sarà perché il mondo è sempre stato ed è il mio parco giochi pieno di meraviglie e mi manca così tanto che faccio davvero una fatica del diavolo a immaginare di non prendere un treno domani.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 39

  1. I numeri e le regole dei tamponi

    Finalmente iniziano a uscire anche dei dati disaggregati per regione rispetto ai tamponi effettuati. A scorrerli anche solo distrattamente, ci sono alcune cose che immediatamente balzano all’occhio, prima tra tutte la differenza abissale tra le due regioni in cui inizialmente si erano riscontrati i focolai: Lombardia e Veneto.
    La Lombardia, con una popolazione di circa 10 milioni di persone, ha effettuato circa 215.000 tamponi; il Veneto, con una popolazione di poco meno di 5 milioni di persone, ne ha effettuati circa 209.000. In sintesi, considerando il rapporto tra numero di tamponi e numero di abitanti, ne ha fatti quattro volte tanti. Il tasso di letalità (percentuale dei deceduti rispetto al totale dei casi) è del 18,17% in Lombardia e del in 6,28% Veneto; il tasso di positività dei tamponi (percentuale dei contagiati rispetto ai tamponi fatti) è del 28,54% in Lombardia e del 6,91% in Veneto.
    Alcune considerazioni “all’impronta”, ma che ovviamente andrebbero ben altrimenti meditate.
    La prima è che a questo punto dovranno spiegarci meglio per lo meno alcune cose. 1) quali sono le regole generali su come (su quali soggetti) devono essere necessariamente effettuati i tamponi e se tali regole sono state o meno rispettate dalle singole regioni. 2) se queste regole possono essere derogate per eccesso, vale a dire facendo più tamponi di quelli considerati strettamente necessari; a prima vista parrebbe stupido vietarlo e mi sembra a questo punto essere stata la strategia del Veneto (assumo che sia una competenza regionale, perché sennò non si spiegherebbe la differenza tra regione e regione), ma in realtà una metodologia unica (si auspica: efficace e non stupida!) e senza eccezioni neppure in aumento per effettuare i tamponi potrebbe essere prescritta a livello nazionale per evitare poi le distorsioni a livello statistico nell’analisi di dati disomogenei. Ad ogni modo, per valutare anche politicamente l’operato dei nostri governanti è necessario capire se giuridicamente potevano operare in un certo modo oppure no (Fontana dice che in Lombardia ci siamo attenuti ai protocolli dell’OMS: bene, ma sapere se questi protocolli indicavano soltanto un “minimo necessario” oppure uno standard inderogabile cambia, e non di poco). 3) quali siano le condizioni necessarie in astratto per effettuare i tamponi (quanto materiale, quanti reagenti, quanti laboratori) e quanto queste condizioni fossero in concreto presenti regione per regione: anche qui mi domando, innanzitutto, se la Lombardia abbia effettuato il numero massimo di tamponi che poteva effettuare oppure no, e in seconda battuta se vi sia una rete nazionale di laboratori cui appoggiarsi, se abbia funzionato una sorta di “autarchia” per cui ognuno si doveva arrangiare con la rete intraregionale che aveva, oppure se ci si poteva accaparrare anche dei laboratori extra-regione, magari pagando.
    A prescindere da come si risponda ai singoli punti, mi sembra chiaro che la sanità pubblica non può affrontare un’emergenza (globale e quindi) nazionale a macchia di leopardo: il regionalismo differenziato, che in materia di sanità è già altamente discutibile in condizioni normali (perché mai, continuo a domandarmi da anni, c’è una diaspora costante e strutturale dal sud al nord per curarsi?), per una situazione di questo tipo è semplicemente inaccettabile.
    Ma passiamo rapidamente all’analisi dei dati, rispetto alla quale pure si evidenziano passaggi interessanti nel confronto tra Lombardia e Veneto.
    Iniziamo col tasso di letalità (ricordo: percentuale dei deceduti rispetto al totale dei casi). A fare più tamponi, soprattutto se mirati (a chi ad esempio è fortemente sintomatico, ancorché non ospedalizzato) e non genericamente “a pioggia”, si individuano più casi e dunque, individuando più casi, si abbassa il tasso di letalità. E qui i conti tutto sommato tornano, perché, a fronte di un numero di tamponi/abitanti di 1 (Lombardia) a 4 (Veneto), il tasso di letalità è 3 (Lombardia: circa 18%) a 1 (Veneto: circa 6%).
    Nota bene: se consideriamo che il tasso reale di letalità (quello tra contagiati effettivi, e non soltanto tra coloro che risultino positivi al tampone, e morti) dovrebbe essere circa dell’1%, capiamo anche come il numero dei tamponi effettuato anche in Veneto è ben lungi dal farci supporre una rappresentazione statistica apprezzabile della realtà (la distorsione rispetto alla situazione reale è di 1 a 6), ma il numero di tamponi in Lombardia è addirittura ridicolo a questo fine (la distorsione rispetto alla situazione reale è di 1 a 6).
    Le anomalie statistiche poi peggiorano ancora se passiamo al tasso di positività (ricordo: percentuale dei contagiati rispetto ai tamponi fatti). Infatti, se i tamponi in più effettuati dal Veneto rispetto alla Lombardia avessero avuto soltanto l’utilità di certificare i casi di covid fortemente probabili, ma non ancora confermati (l’esempio tipico lombardo è quello del soggetto con febbre alta, tosse e difficoltà respiratorie che però sta a casa, e non andando in ospedale non gli viene effettuato il tampone), allora anche con molti più tamponi – che però andrebbero sostanzialmente “a colpo sicuro” – il tasso di positività dovrebbe rimanere più o meno lo stesso. E invece no, il rapporto è di 4 (Lombardia: 28,54%) a 1 (Veneto: 6,91%), e qui i conti decisamente non tornano.
    O meglio, non tornano se si considera la questione dal punto di vista della fotografia odierna, che ci consegna due regioni dove il contagio è scoppiato pressoché in contemporanea e in cui ci si sarebbe potuto attendere uno sviluppo analogo e che invece mostrano un tasso di positività molto diverso. Com’è possibile?
    Ovviamente le spiegazioni possono essere (e verosimilmente saranno) molteplici: eventi particolari (fiera di San Faustino a Brescia, partita di Champions dell’Atalanta nella bergamasca), differenti abitudini personali, abitative o lavorative, differenti tassi di inquinamento, differente rispetto delle regole (tutto questo onestamente mi convince meno), o altri mille fattori che non mi vengono in mente e che potranno essere addotti e auspicabilmente anche provati in modo serio.
    C’è però una spiegazione (non alternativa, ma cumulativa rispetto alle altre possibili) abbastanza semplice e che riguarda l’uso strategico dei tamponi a scopo di contenimento sanitario (anche al di fuori degli ospedali): che il Veneto, partendo prima col fare molti più tamponi, è riuscito in modo più efficace a isolare meglio i casi di positività e a rallentare così la diffusione del virus, anche prima del lockdown nazionale.
    Se così fosse (Zaia a dire il vero lo va dicendo da tempo, finora ho liquidato le sue considerazioni come propaganda), o in Lombardia proprio non si riuscivano a effettuare più tamponi (o era vietato farlo), oppure la politica regionale (anche) in questo ha toppato proprio alla grande.

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