minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 16

Oggi è lunedì, vado al supermercato e mi chiedo se troverò più coda di ieri essendo lunedì. Sì, la risposta è sì. Evidentemente ancora distinguiamo se sia un giorno o un altro anche se, almeno nel mio caso, non fa alcuna differenza. Solita coda fuori, così formata: carrello, persona, due metri, carrello, persona, due metri eccetera. Di conseguenza, se ci sono, che so?, trenta persone in coda diventa una fila di circa ottanta metri che si snoda attorno al perimetro del supermercato. A vederla fa più impressione che a farne parte, più o meno si sbriga in un tempo accettabile e poi, mmm, che ho da fare? Certo, qualunque cosa meglio ma inutile affrontare anche queste incombenze con l’animo di sempre, altrimenti si soccombe.
Come da settimane ormai, tutto ciò che può diventare disinfettante, i guanti, non dico le mascherine, tutto esaurito. Mi pare chiaro che ci sarà gente con il garage pieno di guanti usa e getta e chi andrà in giro con i guanti per i piatti, un vero classico della nostra specie, furba e vorace. Tra le persone per cui faccio la spesa, c’è chi si è ben reso conto della situazione e chiede acquisti durevoli per il lungo periodo e ingredienti con i quali poi prepararsi cose e c’è chi invece non ha del tutto compreso la situazione complessiva, e chiede la spesa normale di tutti i giorni: gastronomie, sfizi, cose che durano il giro di poco e occupano molto spazio nella borsa.
Fare la spesa per qualcun altro mi costringe a cercare prodotti sconosciuti e, di conseguenza, andare in corsie del supermercato che non avevo mai frequentato. Quello delle farine e delle fecole, per esempio, manco avevo idea non solo di dove fosse ma che ci fosse proprio. Che esistessero così tante tipologie di tè l’avevo letto nella narrativa inglese ma non pensavo fosse vero. Che qualcuno presti attenzione al dentifricio che acquista e che, anzi, ne voglia una marca specifica e un modello specifico a un aroma specifico questa per me è una vera novità. Io di solito li faccio girare per non dare soddisfazione a nessuno: una volta colgate, una volta mentadent, una volta pastadelcapitano. Che esistessero patatine allo zenzero è una cosa che ignoravo e che avrei continuato a. Comunque, questa cosa mi costringe a esplorare categorie di prodotti che non conosco e, quindi, a stare alcuni minuti di fronte a degli scaffali che non so interpretare cercando con gli occhi un prodotto che è scritto nel mio elenco ma che non so nemmeno che colore o aspetto abbia. Sembra una sciocchezza ma non è facile: a un certo punto ammetto di aver cristonato di fronte al settore grissini perché dopo un tempo interminabile non riuscivo a trovare i grissini panealba nostrani. Ovviamente di chiedere a un commesso manco a pensarci, di questi tempi ci si schiva tutti e loro sono anche piuttosto nervosetti e stufi delle intemperanze dei clienti. Probabilmente non sono nemmeno molto contenti di essere obbligati al lavoro, azzardo.
Anche il volume stesso della spesa ha la sua importanza, perché io, come sempre, ci vado in motorino e, dunque, non essendo indiano ho una capacità di trasporto limitata, su due ruote. Gli è che, però, ricevo ordini da persone abituate a fare la spesa in macchina, spesso monovolume, e nonostante le mie rassicurazioni – vado spesso, giuro – arrivano incarichi per metri cubi. Vabbè. È che mi ostino ad andare in motoscurreggia sia perché mi piace di più, sia perché è più comodo, anche se adesso i parcheggi non sono più un problema, sia perché non ho voglia di essere fermato, anche se ho la giustifica per essere in giro. Sono sempre incerto quando ho a che fare con la polizia. Retaggio culturale, lo so, ma non mi fido. Ho questa (falsa, ho il sospetto) convinzione che un motorino dia meno nell’occhio del vigile, carabiniere, poliziotto, militare (da oggi) incaricato di individuare al volo il colpevole in giro per lazzo, che apparire una figura modesta a cavallo di un mezzo che farebbe di certo fatica a scavallare i confini comunali mi garantisca l’invisibilità completa o parziale di fronte ai posti di blocco. Anche per un moto di orgoglio dei tutori dell’ordine, via, che non credo vogliano arrivare a sera e riassumere così la propria giornata: oggi ho fermato motorini. Giusto, perdio, belle berline, auto sportive, minivan superoccupati, furgoni sospetti ma non motorini. Eddai.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 16

  1. L’universo simbolico del complottista

    Fioccano quotidianamente le tesi più disparate ­in ordine al coronavirus (sulle sue caratteristiche, sul tasso di mortalità, sulla sua capacità di diffusione e di mutamento, sulla sua resistenza alla temperatura, sulla possibile immunità da parte dei contagiati una volta guariti etc.) e non potevano mancare anche le speculazioni in ordine alla sua origine. Quella standard della derivazione animale (pipistrello) la conosciamo tutti. Ma in realtà sfido chiunque a dire di non aver letto o sentito da qualche parte anche quella “occulta”, secondo cui sarebbe frutto di un esperimento di laboratorio: siamo vittime di un complotto.
    Atteso questo elemento comune, il fronte “complottista” si divide in molti rivoli in ordine al presunto colpevole (qui gli USA mi sembrano attualmente prevalere sulla Cina), alla maggiore o minore intenzionalità dell’atto (l’idea della diffusione volontaria mi sembra prevalere su quella dell’esperimento scappato di mano) e agli scopi che avrebbero animato la condotta in questione (si va dalla terza guerra mondiale alla speculazione finanziaria; la mia ipotesi di un progetto benevolo per il risanamento dei disastri climatici di origine antropica non sembra godere di gran successo, finora).
    I molti video di questi giorni aiutano, se ce ne fosse il bisogno, a scandagliare l’universo simbolico del complottista.
    Per lui c’è sempre una “verità” mainstream, quella che LORO ci raccontano, e una verità (vera) nascosta ai più, quella che LORO non vogliono che circoli. LORO sono una entità quasi mai individuata con chiarezza, ma costituita da una qualche versione dei “poteri forti”; in assenza di alternative, si tratta di qualche lobby economico-finanziaria, possibilmente “multinazionale”. Non esiste evidenza, verità o metodo scientifico che possano essere utilmente contrapposti al complottista: se contrastante con la propria tesi, ogni elemento è di per sé sospetto, compromesso proprio perché fatalmente funzionale al mantenimento del “grande inganno”.
    Se si chiedesse al complottista di dichiarare in anticipo, con validità generale rispetto a tutti i propri assunti, a quale paradigma logico ed epistemologico si richiama, ne verrebbero certamente fuori delle belle. Quello del complottista, infatti, è tipicamente un universo multiforme che non manca di nulla: sfere angeliche e fluidi elettromagnetici, massoni deviati ed energie sottoli, alieni e aure, sciamanesimo e rettiliani, metempsicosi, licantropia e avanti in questo modo, rigorosamente in ordine sparso: è un mondo accogliente e olistico, parecchio tollerante anche rispetto alla contraddizione.
    Rispetto al coronavirus, il complottista assume che dietro c’è per forza chi ci guadagna, e qui il complottista ha ovviamente ragione: chi in questo momento non vorrebbe produrre mascherine? Chi non vorrebbe aver investito nelle azioni di chi brevetterà un vaccino? Il complottista, però, suggerisce che a provocare – in modo diretto e doloso – la “disgrazia” del coronavirus sia stato chi su esso guadagna o potrebbe guadagnare. E qui invece la logica del complottista va in bancarotta, perché con questa ipervalutazione del “cui prodest?” confonde la (semplice) possibilità con la (elevata) probabilità o addirittura con la certezza.
    Se è vero che spesso l’interesse spinge a cose abiette, è pure vero, anzitutto, che non c’è affatto bisogno di creare disgrazie per specularci sopra. I disastri abbondano e da sempre c’è una minoranza che ne beneficia, certo. Ma non per questo riteniamo che nel 1908 il terremoto di Messina sia stato orchestrato dagli imprenditori che si sono arricchiti con la ricostruzione. La natura del complottista, invece, lo porta a vedere dappertutto intenzioni, programmaticamente sottovalutando tutto quello che esula dalla volontà umana e che al limite si svolge anche contro di essa. Nell’àmbito di quest’ultima, inoltre, strutturalmente sopravvaluta gli effetti intenzionali (quelli coincidenti con lo scopo specifico che effettivamente mi prefiggo) rispetto a quelli non intenzionali (cioè gli effetti involontari di una azione volontaria ma rivolta a uno scopo diverso).
    Il complottista, anche rispetto al coronavirus, non crede ai sincronismi casuali (“coincidenze? non credo”), diffida delle spiegazioni “ufficiali” ed è fonte inesauribile di differenti congetture diagnostiche. Queste ultime, si dirà, potrebbero essere utili pure se erronee, poiché anche con la loro confutazione avanza la conoscenza. In astratto è vero, visto che tutto (o quasi) è possibile e degno di essere discusso; in concreto, però, il tempo non è infinito e bisogna effettuare delle scelte strategiche anche su come investire le proprie energie intellettuali.
    Un facile rimedio sarebbe di chiedere al complottista di applicare all’analisi delle proprie tesi anche solo la metà della diffidenza critica che rivolge a quelle altrui, ma sarebbe tempo sprecato. Il complottista, infatti, è tipicamente troppo occupato a fare proseliti in un ambiente ostile alle “verità scomode”. Proprio per questo esige per le sue idee uno statuto privilegiato, spazientendosi (“SVEGLIA!”) se l’interlocutore non tributa loro un’indulgenza automatica, devota, e di fatto sconfinata.

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