minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 14

Quando finirà ’sta menata parto per un viaggio che durerà settimane. No, mesi. Anni, anni, santoddio, anni. E chi c’è visto s’è visto.
Ora tocca parlare della reclusione, perché in serata (occhio al bisticcio) c’è stata una doppia serrata: prima il governo con Conte che si è fatto attendere fino a mezzanotte per annunciare la chiusura di tutte le attività produttive non essenziali e poi subito a spron battente il governatore della Lombardia che ha inasprito le cose sulla libertà di spostamento. Non l’ho presa bene, lo ammetto.
In queste due settimane di reclusione sono passato da una media mensile di tre concerti, un viaggio lungo, due viaggi brevi, quattro camminate in collina, quattro giornate in campagna a far lavori, due o tre partite di basket, per restare alle cose da fare fuori casa, a qualche pomeriggio occasionale in giardino a zappettare. Mi sono messo di buzzo buono e ho cercato di organizzarmi, come tutti. Ho ripiegato, d’accordo, faccio la mia parte e placo il mio desiderio di vivere perennemente in giro e all’aperto. Ecco, poi la possibilità di andare in giardino – che non è adiacente a dove abito – viene stroncata dal decreto e dall’ordinanza, un uno-due da game-set-match. Per carità, capisco benissimo che serva, che è la situazione di molti, ci mancherebbe, non voglio farla lunga, dico solo che onestamente mi pesa. Non sono un passeggiatore o camminatore, io sono un lavoratore, ho bisogno di rimestare.
Perché il non poter stare, da solo, a fare qualche lavoro in giardino è solo una parte della faccenda che mi pesa, mi rendo conto. Una buona parte è il fattore costrizione, ossia l’impedimento forzato di poter fare qualcosa mi crea qualche problema, come immagino a molti. Il pensiero, a momenti, mi rode un po’, da qualche parte dentro di me c’è qualcosa che spinge alla ribellione solo per infrangere il divieto. Poi, ovvio, non lo faccio e sto buono, distraendomi come posso. Immagino che il sentimento sia alquanto condiviso. E poi c’è il terzo elemento che mi scoccia, e parecchio: il fatto che le regole siano così strette perché c’è una percentuale di persone, esigua o meno, che se ne è fregata finora. O non ha capito, non fa differenza. Ecco, questo non riesco a farmelo andare giù. Come a scuola, me ne rendo conto, con la classe punita per qualche demente. Il mio sentimento democratico e sociale – che già non è saldissimo, devo confessare – mi spinge a considerare anche le esigenze degli ultimi, certo, ci provo, ciò non toglie che quando l’onda di ritorno di questo atteggiamento va a toccare la mia libertà e il mio diritto individuale non solo vacillo ma mi vien pure da mordere. Tasse non pagate, regole comuni aggirate, disinteresse per il pubblico bene, menefreghismo, egoismo, cupidigia, tutte cose che mi danno un sostanzioso fastidio in questo senso, il tizio fuori con il cane di peluche non mi fa ridere – il genio è proprio un’altra cosa – lo omaggerei di una rispettosa sprangata. Che strano, son cose che piacciono a tutti, sono proprio fatto male.
Mi rendo conto di quanto questo discorso faccia acqua, ancor più ora che lo sto scrivendo di getto, rileggendo a malapena quanto scrivo (è una delle regole che mi sono dato per questo diario, lo dichiaro fin dal titolo) ma non per questo il mio disagio stasera è minore. Sono disponibile, e lo faccio, a lasciare spazio a chiunque finché serve ma, MA, con dei limiti: non se questo accade per malafede o disinteresse, questo no. Non lo accetto. Vabbè, me la devo sfangare in qualche maniera, un pezzo alla volta, con calma, come tutti. Ma il mal comune non mi ha mai dato alcuna soddisfazione, è un concetto così miserabile e sciocco.

Oggi giornata di scrittura e di mezzo lavoro, quei brandelli che ne restano, e in serata spesa su commissione. Perché per rendermi utile cerco di fare la spesa al supermercato e dal fruttarolo per un numero congruo di persone e nuclei familiari in modo da sostenere coloro che è meglio che non escano e ridurre al minimo le uscite e gli spostamenti, complessivamente. Gli orari sono stati leggermente ridotti, quindi vado prima delle otto e trovo una modesta coda, chissà se il fatto che sia sabato ha qualche tipo di ripercussione positiva o negativa sui flussi, chissà se il fatto che sia un giorno o l’altro ha ancora importanza, chissà. Faccio la spesa, esco, e vado a consegnare i sacchetti in due case, distanza complessiva circa dieci minuti di motorino (motoscurreggia). Nel tragitto, incontro non meno di dodici riders, bicicletta o motorino, in giro a consegnare pizze o altro cibo. Capisco che sia l’unico modo per alcuni posti per lavorare ma, sinceramente, mi chiedo se sia il caso. L’aspetto sgradevole è, penso, l’ulteriore disinteresse per le condizioni di lavoro degli addetti alle consegne, piove sul bagnato, e una perplessità in generale, poi, su un diffuso coprifuoco punteggiato da tizi in giro a consegnare cibo. Pizza stasera? O cinese? Ah no, quello no. Di questo ne riparleremo.
Ah, ma quando tutto questo finisce vado, eccome se vado. Ah sì, sì sì.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 14

  1. Il vero problema è un altro

    Si iniziano a leggere e sentire discorsi e commenti preoccupati per il diffondersi di episodi di insofferenza o di vero e proprio odio (per il momento solo verbale, direi) rispetto ai runners cittadini o a coloro che, nei giorni scorsi, hanno deciso di uscire per una passeggiata in solitaria.
    Tale insofferenza sarebbe il frutto del clima di paura in cui siamo immersi, che ci spinge a cercare capri espiatori della nostra crescente nevrosi; inoltre, oltre a essere il sintomo di un atteggiamento repressivo da parte dello Stato, l’insofferenza sarebbe pure diretta verso un falso bersaglio. Ce la prendiamo con dei concittadini che, di per sé, non fanno nulla di illegale (per lo meno fino all’ordinanza di ieri del Ministro della Salute) e anzi esercitano una loro piccola libertà, sia pure disattendendo gli inviti a rimanere il più possibile a casa. Non ci irritiamo altrettanto, invece, o addirittura non ci irritiamo punto, con chi tiene aperte le fabbriche e/o con le scelte scellerate del Governo che ha ridotto le risorse per la sanità, che non ha svolto idonea attività di prevenzione, che ci ha lasciato vittime di un inquinamento spaventoso che incrementa le possibilità di diffusione del virus o che ne aggrava le conseguenze quando lo si contrae (e chi più ne ha, più ne metta). Insomma, puntiamo il dito contro una pagliuzza e non ci accorgiamo delle travi.
    Tutto per lo più vero e condivisibile, con alcune precisazioni.
    Tra queste deliberatamente non considererò le due obiezioni più consistenti: la prima per cui, anzitutto, c’è chi per le travi si è sempre indignato e continua a farlo anche adesso, magari avendo più titolo per lamentarsi anche delle pagliuzze; la seconda per cui, in una prospettiva più generale, l’insofferenza e a maggior ragione l’odio – che sono cose differenti dalla ragion critica e dell’azione che eventualmente ne consegue – sono sentimenti inutili e nocivi sempre, da rifuggire a prescindere dall’oggetto contro cui si rivolgono.
    Quel che invece vorrei sottolineare è l’atteggiamento, molto diffuso per lo meno da noi, per il quale, atteso un singolo aspetto problematico, si riesce sempre a spostare il fulcro del discorso in un altrove massimamente più grande: “il vero problema è un altro” diviene così il mantra di chi non vuole (o non riesce) a concentrarsi su un dettaglio e invoca sempre la visione d’insieme. Che per carità, è una cosa ottima nella misura in cui la visione di insieme includa e spieghi meglio anche il dettaglio, ma è pessima se induce a trascurare quest’ultimo annegandolo in un mare magnum ingovernabile.
    Il barista non fa lo scontrino fiscale per il caffè? Il vero problema sono le multinazionali che eludono le imposte! Gli stipendi dei parlamentari sono troppo alti? Il vero problema è il debito pubblico! I runners non stanno a casa? Il vero problema sono il Governo e le multinazionali del farmaco!
    Va bene, ma non potremmo intanto partire dal piccolo e dal vicino, da quel che vediamo quotidianamente e sul quale potremmo immediatamente, anche solo come singoli, influire con scelte individuali e poi ragionare di questioni “di sistema” che implicano, al netto delle difficoltà interpretative e operative, scelte collettive e di lungo periodo? Le due cose non si escludono, ed anzi la prima dovrebbe aiutare a prendere dimestichezza con quella dimensione ultraindividuale che è l’àmbito nel quale necessariamente si colloca la seconda. Tutto all’opposto, posporre il piccolo e vicino alla realizzazione del grandissimo e lontano è troppo spesso una scusa per una lamentela generica e per uno scarico di responsabilità.

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