minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 12

Pulizie. Costretti a casa, alla maggior parte delle persone è venuto l’impulso di mettersi a pulire, sistemare, mettere a posto ciò che rimandavano da tempo. Comprensibilissimo, credo stia a pagina uno del Manuale per affrontare lunghi periodi di reclusione o sopportare tempi difficili. La cosa ha molteplici vantaggi, sia perché vista la prospettiva di abitare le nostre case in modo costante, cosa che non succede quasi mai, è meglio che siano pulite, sia perché è una pratica che tiene impegnati, soprattutto la testa. Ed è così che ieri a Crema hanno chiuso le isole ecologiche perché c’erano duecento persone in coda. A me no, questa pulsione non mi ha sfiorato proprio, per vari motivi che è inutile elencare qui. Ecco, il minimo indispensabile per me e per la casa. Alla fine di tutta ’sta faccenda, per favore, ricordatevi di me e avvisate qualcuno che mi venga a prendere tra i cumuli di rifiuti e il tg4 acceso sulla tv. Comunque, dopo più di dieci giorni posso considerare di assistere, per quel poco che posso vedere di mondo, a una flessione: mettere a posto e pulire è una rottura di balle anche in tempi di pandemia e, di conseguenza, mi pare che molti l’abbiano anche piantata lì. Che vuoi fare? Ripulire tutto di nuovo? E, allora, il dilemma per molti: che fare adesso? E ora?
A me capita di avere così tante cose da fare che le giornate siano troppo brevi. Scrivere, leggere, zappare, lettera, testamento. Ovvero, esattamente come prima della pandemia, sebbene siano stati tolti i viaggi e le visite di qualsiasi tipo. Per cui, trovo curioso questo bombardamento in rete di suggerimenti di cose da vedere, serie tv, film, cose da leggere, libri, fumetti, articoli, cose da sentire, podcast, canzoni, radio, per far passare il tempo in questo periodo. E poi i balconi, l’inno alla radio, le dirette social e così via. Che poi, uno non comincerà a leggere ora, se non gradiva prima, e tendenzialmente non cambierà le proprie predilezioni proprio ora: usciremo da questo periodo e l’Italia sarà diventata una nazione di accaniti lettori? Giuro, questa non me la vorrei proprio perdere.
(Qui sotto due esempi di «social distancing» di questi giorni, anche in preghiera).

Dopo i primi giorni, frenetici, di consultazione delle notizie e degli scambi continui di informazioni e pareri, mi sono accorto che, adesso, ho bisogno di un po’ di distacco. Un po’ perché rischio di soccombere alla mole di informazioni sul virus e contorno, ho smesso di accendere la radio la mattina appena sveglio e, piuttosto, provo a sentire musica che non ho mai sentito. Per dire, adesso, e non per fare sfoggio di coltezza ma perché mi son stati suggeriti, sto ascoltando i preludi di Debussy suonati da Krystian Zimerman e li sto trovando piuttosto noiosi. Ma va bene, meglio del virus per sedici ore al giorno. Poi, ho dovuto mettere un freno anche ai vari telegram, whatsapp, chat e compagnia bella, perché il profluvio di scambi, mi sono reso conto, mi stava travolgendo e mantenendo il mio umore perennemente basso: non posso convivere tutto il giorno con lo scemo a Treviso che è uscito col cane di pezza, con lo stordito che ieri ha bruciato la vecchia (tradizione) in cascina ed erano in ottanta, con la rintronata che fingeva di avere la spesa e in realtà se l’era portata da casa, con gli irresponsabili di ogni forma e colore. Ecco, non ce la faccio.

Non ce la faccio nemmeno a sopportare la moltitudine di meme, di battute (alcune anche davvero buone, sia chiaro), di spiritosaggini, di scherzi e di trovate che girano vorticose in rete: è un sovraccarico emotivo costante che non reggo, una distrazione forzosa che pregiudica l’andamento della mia giornata. Ne sono stato parte anch’io, all’inizio, ora basta. Quando ci sarà una notizia davvero utile, lo saprò. Sono giunto alla conclusione che sia sbagliato intrattenersi, in generale e soprattutto in questo periodo, intendo dire cercando svaghi per far passare il tempo, puntando ad arrivare a sera. È un errore in generale, perché distrarsi significa perdersi ore, giorni, mesi e anni di vita, e in particolare in questo periodo, perché non sarà breve – si è detto ma ora non breve comincia ad assumere una connotazione più precisa – e cercare distrazioni di continuo per far passare alcune ore porta solo, prima o poi, a scoppiare. Serve una strategia, serve impegnare questi giorni o settimane in modo duraturo, facendo se possibile qualcosa insieme di costruttivo e impegnativo, non troppo leggero e che abbia un inizio, un obbiettivo chiaro e una durata non breve, appunto. Bisogna imparare, è un allenamento che richiede pratica, conviene iniziare quanto prima, un pezzetto al giorno, per poi diventare cinture nere in un tempo ragionevole. Come diceva qualcuno, suddividere la giornata in unità di tempo (venti minuti, mezz’ora) e dedicarne in modo accurato alcune ad attività pianificate, anche in modo multiplo, aiuta. Pulire e Netflix non aiutano, da soli. Per fare, quindi, un esempio, questo minidiario è una cosa di questo tipo, serve a me. A ciascuno, dunque, il suo.

I giorni precedenti:
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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 12

  1. Uno shock collettivo

    È capitato a tutti di avere delle esperienze di segno negativo, di quelle cui – come singoli individui – si assiste attoniti e a séguito delle quali si resta inebetiti, confusi nella comprensione e incapaci di una reazione mirata. Di solito però questo stato di shock è mitigato dalla possibilità di confronto con coloro che non lo hanno direttamente patito, o che per lo meno non lo hanno subito insieme a te e in quello stesso momento. Certo, non nego che si possa ricevere conforto anche dalla condivisione proprio con i compagni di avventura e di sventura (mal comune mezzo gaudio?), ma è difficile che da loro possa venire una visione distaccata, esterna, terza rispetto al problema.
    In questi giorni godiamo del “privilegio” di sperimentare uno shock culturale che non è individuale ma collettivo, al quale nessuno dei nostri amici e conoscenti parrebbe davvero estraneo (anche chi non è con noi e vive altrove, infatti, o ha già vissuto lo stesso evento, o si prepara a sperimentarlo).
    Il risultato è che spesso il dialogo si incanala irresistibilmente su binari emotivi. Niente di male, s’intende, perché l’emotività è una componente importante della nostra vita, più importante forse di quanto siamo abituati a riconoscere. Il problema sorge, semmai, quando l’emotività si traveste da ragionamento e pretende di razionalizzare quanto ci sta di fronte, dimenticando (facendoci dimenticare, invitandoci a rimuovere) che la razionalità ha anch’essa il suo spartito.
    Spesso in questi giorni le analisi, sia in positivo che in negativo, si fanno sulle speranze e sulle paure, non sui dati e sui modelli. È vero, capita non di rado che questi ultimi siano (dati) incerti e (modelli) dubbi, ma ciò non toglie che anche a fronte delle poche evidenze più volte i discorsi che si sentono, si leggono, si articolano anche solo a livello mentale, abbiano un’andatura claudicante, rintontita come quella di un ubriaco.
    Non è infrequente che una conversazione, per forza di cose quasi sempre telefonica, si concluda con una battuta o con una esortazione genericamente positiva, di cui il motto #andràtuttobene può a buon diritto essere considerato l’epigrafe.
    Per ora può andare pure così; per elaborare uno shock serve tempo (e meglio sarebbe non averne altri in sequenza). Forse però trovare qualcuno non dico mica onniscente, ma lucido poiché fuori dalla mischia che potesse farci con calma il quadro della situazione si rivelerebbe prezioso.

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