e qui si dice loro: bravi

O del saper gestire gli errori, senza mettere il proprio orgoglio davanti a tutto.
Ecco il fatto. Ediciclo pubblica Dell’andare in montagna e altre amabili ascensioni, una Antologia per escursionisti e sognatori, curata da Francesca Cosi e Alessandra Repossi e illustrata da Giulia Neri. L’idea non è nuova ma ciò non significa nulla, le due curatrici hanno raccolto e tradotto testi di Dumas, Hugo, Kipling, Salgari, London, Twain e così via pertinenti con l’argomento, tutto bene. Poi, a stampa avvenuta, ci si è accorti che c’è un testo di troppo, di una precedente antologia, rimasto nel volume. Vuoi perché serviva a occupare lo spazio, vuoi perché chissà, è accaduto. E posso dire per esperienza diretta che non è nemmeno così difficile che accada, questo e altre mirabolanti sviste.
La domanda ulteriore è: possibile che nessuno se ne sia accorto? Risposta: possibile. Panico, lo immagino. Peraltro un conto è una casa editrice robustosa, che regge l’urto delle temperie, ma una più piccola come questa che deve costruirsi e difendere una reputazione, oltre a contenere i costi, deve fare una scelta complicata. E Ediciclo opta per non buttare una tonnellata di carta e di esplicitare la cappellata: un bel bollone sulla copertina, eccolo. Ops!

Inutile cincischiare sui dettagli, bravi. Così si fa. Costo del bollone: risibile, sia in termini economici che di orgoglio; risultato: di grande impatto, sia per l’operazione buon-senso e simpatia, sia per la pubblicità indiretta cui sono lieto di contribuire, nel mio minimo. E lo compro, pure, mi servirà alla prossima svista. Mia.

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro, tre: Pio, Pico, gli zoccoli, due amici che se la ridono, un campo che dovrebbe essere memoria

Scavallo ancora una volta la linea concreta di confine tra Reggio e Modena e vado a Carpi. Voglio vederla per svariati motivi, uno è la magnifica piazza quattrocentesca: lunga e stretta, da un lato è chiusa da portici affrescati, cinquantadue arcate, su un lato corto dalla chiesa di San Niccolò e sull’altro lato lungo dal castello, poi palazzo della signoria. Sebbene meno coerente e perfetta, il richiamo è alla piazza ducale di Vigevano, portici-chiesa-castello, stesso schema. Il palazzo, con ancora qualche torrione qua e là, ampiamente ingentilito nel cinquecento alla moda ferrarese, ospitò la signoria dei Pio. Possediamo tre lettere tra Guicciardini, governatore di Modena, e Machiavelli, incaricato di un’ambasciata a Carpi: quest’ultimo riteneva l’incarico non alla sua altezza e ne fece un viaggio di svago, approfittando dell’occasione per irridere con l’amico i Pio e il loro governo. “Repubblica de’ zoccoli”, la chiama, e Olmi non è mica tanto lontano. Niente di tutto ciò.

Nipote di Pico della Mirandola, stesse zone, Alberto III Pio, il più importante esponente della famiglia, crebbe a Mantova sotto l’influsso di Vittorino da Feltre ed ebbe come istitutore, fermi tutti, Aldo Manuzio. Il che a me, devoto Hypnerotomachista, basta eccome. Nella cappella del palazzo c’è un affresco che ritrae Alberto, capelli lunghi biondi e profilo da signore, e Aldo subito dietro, il maestro. Finito il suo compito, Manuzio nel 1490 si spostò a Venezia, iniziando la sua avventura nell’editoria, sostenuta economicamente da Alberto Pio. Non andò male, si sa, quindici edizioni filosofiche del grande stampatore sono dedicate al suo allievo. Nel frattempo, Carpi divenne una vera e propria corte, seppur stretta tra i più grossi Gonzaga ed Este, intrattenendo rapporti con Roma, importando architetti e pittori valenti. Lo stesso Alberto ne era ambasciatore, matrimonio bene con una Orsini, intrattenne poi una vivace polemica con Erasmo da Rotterdam, pretestuosetta invero, l’altro era fuori portata, ma che la dice lunga sul posto che si era conquistato sulla scena europea. Nel 1525 scelse il cavallo sbagliato, Francesco I, e dopo la battaglia di Pavia perse la signoria, in favore degli Este. Era meglio Carlo V, ma certe cose si sanno solo poi. Esule, se ne andò a Parigi ove morì, il suo sarcofago è al Louvre. Agli Este, poi, Carpi interessò poco e bon, abbastanza chiusa lì.

Era opportuno raccontare qualcosa, chi sa nulla di Carpi e, tanto meno, dei Pio? Chiaro. Ehm, forse c’è sempre qualche ragione buona per non saperlo, non per me quando girovago. In vista della pasquetta rituale, vado a comprare un salame, sono nel posto giusto. Mantovano o modenese, mi chiede? Modenese, azzardo per prossimità, ma non sono sicuro. Bravo, dice, io chiedo perché non si sa mai chi viene ma insomma. Eh, c’è in giro certa gente che non sai, dico io con l’aria di uno che sa quel che dice. Due, dico, ne prendo due. Mi fa poi una serie di domande cui rispondo a caso, dalla cotica spessa al luogo di stagionatura, e una breve lezione sul taglio e l’assunzione. Riporto un trucco ricevuto: se troppo stagionato, scottex attorno e sotto il lavandino, si aspettano cinque minuti e vualà. D’altronde son professionisti, qui. Quando servono la carne di manzo al ristorante, la bavetta per dire, ci aggiungono della pancetta saltata, perché il manzo credo lo ritengano verdura. Li vuoi due ciccioli per far merenda?, mi chiede alla fine. Certo che li voglio, per chi mi hai preso?

Avrei anche la fine appropriata per questo minidiario, usando un’espressione che qui ho visto spesso e che evidentemente considerano un’esortazione sensata: Carpi diem. Sì. Orazio ha avuto in fremito, lo so. Potevo chiudere, dicevo, ma ne ho ancora un pezzetto, più serio. Non prima però di aver ricordato il ruolo di Carpi, anzi di due carpigiani, nel Risorgimento: l’eroe sempiterno Ciro Menotti, di più, condannato alla morte infame sulla forca per i moti del 1830-31, e l’ancor più eroe Garibaldi chiamò il suo primogenito Menotti, voglio dire; il generale Manfredo Fanti, meno, fu però uno dei mille e per questo vale la pena ricordarlo.
Il motivo vero vero per cui sono venuto a Carpi, oltre alla piazza, è Fossoli. Fossoli è una località appena fuori Carpi, pochi minuti, in cui i tedeschi nel 1941 stabilirono un campo di prigionia per prigionieri anglosassoni. In breve tempo divenne però un campo di concentramento per i prigionieri, ebrei, politici, razziali, omosessuali, deviati, da deportare in Germania o Polonia. Chiamarlo ‘campo di smistamento’ è pigrizia di pensiero e falsità dei fatti, quando non in malafede, esso fu fino alla fine della guerra un vero e proprio campo di concentramento, peraltro anche di dimensioni ragguardevoli. Primo Levi passò di qui prima di essere deportato ad Auschwitz e ne parlò più volte, molti altri ebbero la stessa sorte. Molti furono uccisi nel campo o in prossimità, ancor prima di partire. Non fu un campo di sterminio, no, ma son distinzioni da lasciare agli storici e guardare il punto. La ragione del campo era la possibilità di andare dritti dritti al Brennero ed è un punto intermedio tra pianura padana e Italia centrale. Anche gli ebrei del ghetto di Roma e molti milanesi, Mino Steiner, Olivelli, Fiano, per dirne tre, furono condotti qui. Data l’importanza del luogo ho delle aspettative ma so già cosa mi aspetta: il campo non solo è chiuso ma è anche, in sostanza, in rovina. Poche baracche sono rimaste in piedi, di altre si vede solo la collocazione, molte sono coperte da edera e piante, molti muri sono crollati, nessun apparato didattico. Certo, il campo ha subito molte trasformazioni, subito dopo la guerra è stato campo di prigionia per i fascisti, poi vi fu l’esperimento sociale di Nomadelfia, poi vi furono portati i profughi giuliano-dalmati fino al 1970, poi il terremoto del 2012 e, insomma, siamo arrivati a questo punto.

Fa bella mostra di sé un cartello di quelli dei lavori appaltati che parla di «valorizzazione», tanto cara a Franceschini e tanto odiata da Montanari e, in rispettosa posizione arretrata, me. La data di inizio lavori è 2021, la conclusione 2023, con evidenza non è stato fatto nulla. Non ci sono nemmeno i materiali. Il cartello, beffardamente, a fianco ha un’immagine sgranatissima dell’Apollo e Dafne di Bernini a villa Borghese, nemmeno il senso del ridicolo al Ministero o un po’ di pudore nell’assimilare un campo di concentramento alla valorizzazione, maledetti, delle opere e dei luoghi d’arte. Non c’è nessuno, un camper oltre a me ma non sono qui per il campo, secondo me manco lo sanno, compilano il fantacalcio.

Eppure possibilità ce ne sarebbero. A Carpi, nel palazzo dei Pio, ha sede il museo del deportato. Ideato e disegnato da BBPR, in particolare da Barbiano di Belgiojoso, che fu deportato a Mauthausen, con materiali donati in parte da Albe Steiner, è un piccolo museo ma ben pensato, un’ampia sala è riempita dal pavimento alle volte dei nomi dei deportati, dà un’idea per quanto vaga delle proporzioni, i muri sono dipinti con frasi dei condannati a morte della Resistenza europea, un libro che bisognerebbe leggere spesso. Il senso, didattico ed educativo, e parlo anche e soprattutto di adulti, sarebbe unire il museo al campo, creare un filo logico comprensibile per chi visita Carpi. Così non è, c’è solo il museo, siamo dentro in tre, ne manca un pezzo.

Giro per le sale, non c’è molto da vedere, è ovvio, ci sono parole da leggere. «Come avrei voluto vivere», dice nella sua ultima lettera un ragazzo di ventidue anni, e mi commuovo, un altro chiede con delicatezza «Alla mia tomba portate, quando potete, fiori rossi. Null’altro», ma subito dopo, e qui davvero mi vengono i lacrimoni e un senso di ingiustizia incolmabile, dice: «E battete con ogni mezzo la barbarie», e io, pensando all’Ucraina, mi sento chiamato in causa e mi dico che bisogna fare di più.


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uno | due | tre

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro, due: piastrelle, tiles, ariano che dorme, quanta gente nel piccolo posto, un ricordo personale

Per passare di palazzo ducale in palazzo ducale, scavallo da Reggio a Modena e vado a Sassuolo. L’aumento vertiginoso di rotonde e di camion mi dice che sono finito in un distretto industriale esteso, che va da quelle che i tromboni chiamano le eccellenze italiane nel mondo per vendere agli sceicchi, Maranello, la Ferrari, la pista di Fiorano, al distretto della piastrella, che da qui si irradia nelle cucine e nei bagni di tutta la galassia. Anche a casa mia, e vostra, vengono da qui, sicuro. Ma piastrella di ceramica, prodotto fino, mica quelle piastrellacce che fanno altrove. Fin dalla metà del Settecento qui ci si lavora, fino a sviluppare l’impasto migliore che si sia mai visto, duraturo, compatto, puro. Marca Corona esiste ancora, dal 1741 e i duchi avevano una collezioncina di porcellane niente male. E oggi ho imparato che ceramica e porcellana si distinguono per impasto e cottura, per poi fare cose diverse. Ma son parenti strette. Per strada scrivono I love tiles, col cuoricino.

Siccome poi bisogna pur attaccarle, ‘ste piastrelle, è anche il distretto della colla e del cemento specifico, ossia Mapei e Kerakoll, colossi del settore. La Kerakoll, che si deve essere sottoposta a un green washing mica da poco, è uno smambrone tutto bianco con enormi piantine disegnate e scritte bio alte sei piani. Davanti, ha una specie di teiera tecnologica enorme che viene spacciata come il laboratorio eco-bio che sforna ogni giorno prodotti sempre più compatibili. Va da sé che di soldi ne girano, tanti, Sassuolo è ricca e la squadra in serie A lo dimostra, oltre a essere una potenza nel ciclismo. Al momento, l’interruzione dei rifornimenti di argilla dall’Ucraina crea dei problemi, mi dicono che è tutto un po’ più fermo. Le navi di argilla, cioè che la portano non che son fatte di, non partono più dal porto di Mariupol. E adesso man mano salta fuori che le connessioni industriali con l’Ucraina sono molteplici, numerose e insospettate. Forse sarebbe valsa la pena provare a proteggere un po’ di più le nostre fonti di approvvigionamento, prima. O no? Intanto l’argilla viene dalla Turchia, mi dice uno attento a queste cose, buoni quelli…

Le colline attorno sono formidabili, verdi e dolci, si intravede un po’ di neve in fondo, a sud, dove salgono. Le acque termali sono note da sempre, la piana in cui sta Sassuolo chiama l’insediamento, il Secchia la attraversa placido. Tassoni, sì, ma era un’altra secchia. A scegliersi l’angolo giusto, oscurando i capannoni, la vista è strepitosa. Se si guarda tutto per bene, invece, pare Minsk, per stare nel settore, o certi distretti del mobile o dell’acciaio lombardo-veneto, i furgoni bianchi corrono liberi anche qui con afflato del tutto lombardo. Posso ben capire, comunque, andando indietro sei secoli, come gli Este, accaldati dall’estate modenese e bisognosi di un parco di caccia come si deve, abbiano riattato un castellotto a palazzo ducale estivo, con tanto di peschiera colossale per spettacoli acquatici. Le connessioni dei duchi d’Este con le arti furono sempre molteplici, a onor loro, per cui ci sono alcuni zampini indiretti di artisti valorosi, Bernini e Velazquez per volare alti. Poi il tutto passò ai Pio di Carpi, poi di nuovo agli Este per esser poi spazzati via dall’onda napoleonica, non sarò mai grato abbastanza. Già ci son rimasti quattro Savoia sul gobbo e son più che abbastanza.

Vado a Formigine, c’è un castellotto difensivo, grosso, rara zona priva di capannoni per piastrelle per vecchie ragioni fiscali. Davanti al castello contemplo con un coadiuvante, ho di fianco uno che sembra mezzo Gino Paoli, nel senso che è bassetto e un po’ più giovane. Sì chiama Ariano. Sì, Ariano. Ma mica c’entra con quella questione idiota della razza presunta, macché, qui è la variante di Ario, più veneto, per il discorso sull’onomastica di ieri. Che se poi anche fosse, stamo messi malino ad ariani, guardandolo. Poi si addormenta, reclina la testa di quasi cento gradi, russa e bon, proprio niente razza. Buona Pasqua, Ariano, se la lingua non ti si incastra nel naso da dentro.

Devio per Correggio, la vorrei rivedere. Negli anni Novanta la festa dell’Unità che lì si faceva – e il paese con rispetto parlando, è uno sputazzo – era un vero punto di riferimento musicale di tutto il nord Italia. Dico: Dylan, sì proprio quello, Neil Young, Lou Reed, Patti Smith, un sacco di altri. Noi ci venimmo per Sinéad O’Connor, allora al suo massimo, bellissima e selvaggia, 5 luglio 1997. Arrivammo ore prima e Correggio si vede in venti minuti, passammo di panchina in bar in panchina all’infinito e in una calda serata estiva padana vedemmo un concerto meraviglioso. Finito, lei uscì con la chitarra, evidentemente aveva ancora voglia e noi pure, si sedette sul bordo del palco e ne fece un altro, di concerto. Per una trentina di fortunati che restarono lì, compresi noi. Facemmo anche due chiacchiere, dopo la seconda fine. Memorabile. Correggio è un posto strano, ha una concentrazione di artisti inspiegabile, viste le dimensioni. Posti analoghi non ne hanno per nulla, sarà l’acqua, l’aria, la combinazione di queste con il maiale e il lambrusco. Cito Pier Vittorio Tondelli, l’Allegri detto il Correggio pittore valentissimo, Luciano Ligabue, Niccolò da Correggio, condottiero e letterato, Dorando Pietri e quell’arrivo disgraziato alla maratona. Per dire. Certo, anche la Cianciulli, la saponificatrice. I bei portici, il palazzo dei principi da Correggio, una certa quiete, un cimitero ebraico fiorito, insomma il posto è gradevole e di riflesso anche le persone mi pare lo siano più che altrove. Il cartolaio mi dice benvenuto appena entrato e sorride, mai successo dalle mie parti, sono ancora scosso.


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uno | due | tre

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro, uno: linee tirate dritte, dài Reagan, inni nazionali, ariosti per l’arrosto, induriti dalla fabbrica

Mi chiamano per una formazione. D’accordo, anzi urrà. A Reggio, non quella, questa, come dicono fiscali: Reggio nell’Emilia. In. Ancor prima di arrivare so per certo alcune cose, pur non essendoci mai stato: la via Emilia a far da bisettrice alla città, tirata dritta col filo come piaceva ai certi chiamati Romanes, e non ripeterò certi paragoni, sensati peraltro, con le vione americane coi numeri (e fuori c’era il uèst); i portici e il palazzo ducale, di quel ducatino di Modena e Reggio degli Este, ripiego modesto da Ferrara, ormai perduta al papato; il cibo, la buona vita e certe calatravate imbarazzanti tra stazione di interscambio, treni mediopadani, e ponte autostradale, auto.

Vien sempre seconda, Reggio, stritolata tra i grossi calibri. Il ducato di Modena e Reggio, quella cosa che ancor si irritano del parmigiano reggiano, e che a sentir loro dovrebbe essere il reggiano e basta, tutt’al più, va’, il reggiano parmavaacagare. Se, poi, si vuol mangiare da porcelli i porcelli si va a Parma e Modena, con in più l’aceto, per la musica ancora Parma, Bologna non ne parliamo nemmeno, fuori scala, pure Piacenza per turisti è più frequentata, qui si fan fatica a trovare le calamite, pure. A volte un po’ di notorietà riflessa, basta una targona per ricordare il compositore polacco che nelle sale vicino al comune compose l’inno nazionale polacco, proprio qui. Se poi si dice che l’inno nazionale italiano, nelle strofe che nessuno sa, è l’unico inno al mondo a citare la Polonia, allora il cerchio si chiude. I rapporti coi vicini cordiali, come sempre, ancora ci si ricorda dello striscione allo stadio: “Reagan bombardaci Parma”, con il complemento maramaldo.

Vengono in mente altre cose, almeno a me, le Officine meccaniche reggiane, immense e oggi spazio degradato senza scopo, i morti di Reggio Emilia, quelli fucilati nelle officine per mano fascista e quelli del 1960 per ordine di Tambroni. Fascista, ancora. C’è la canzone di Amodei, per me la più bella delle canzoni di protesta, Compagni sia ben chiaro / che questo sangue amaro / versato a Reggio Emilia / è sangue di noi tutti e oggi in quella che era piazza Cavour c’è un memoriale per i cinque operai nel luogo in cui furono ammazzati dalla polizia. Furono sparati 182 colpi di mitra, 14 di moschetto, santoddio, e 39 di pistola sulla manifestazione antifascista, forse a guardare attentamente qualche traccia si scorge ancora. Ci mancava Bixio coi cannoni. Sto seduto un po’ a guardare la piazza e provo a immaginare. Perché Reggio era la città degli operai, della consapevolezza politica più radicata, prima della guerra si producevano armi, tante, aerei e carri, poi locomotive, gru enormi da porto, quelle da migliaia di tonnellate. Operai di fabbriche pesanti. A Reggio le lotte più dure, la medaglia d’oro della Resistenza, la più lunga occupazione di fabbrica mai vista, gli scontri e i morti, le brigate rosse di Franceschini nacquero a Reggio, non a caso, i CCCP pure, il senso dell’eredità partigiana tradita, niente o poche mollezze. Sempre non a caso, a Cavriago, pochi chilometri, grande centro della Resistenza, c’è la piazza col busto di Lenin, donato dall’URSS a ringraziamento. Ci andammo apposta con i compagni di merende a zonzo all’università. Finché c’è, il busto, poi lo sostituiranno con quello di Orietta Berti, quando sarà. E i fratelli Cervi poco più su, a Campegine, fucilati al poligono di tiro a Reggio. Quindi no, prima nella lotta.

Aggiungo alla camminata cittadina un pezzo di percorso e vado a vedere la casa di Ariosto, il Mauriziano. «Già mi fur dolci inviti a empir le carte li luoghi ameni di che il nostro Reggio, il natio nido mio, n’ha la sua parte», e tanto ameno è ancora, almeno per un paio di metri attorno alla casa, bellissima e chiusa senza speranza, i cartelloni che preannunciano sontuoso restauro stanno invecchiando essi stessi. Meno ameno, forse, il centro commerciale Ariosto, che mi preannuncia l’arrivo. Però c’è il brico, di cavalieri e d’arme nessuna traccia. Già, perché Ariosto è nato qui, e Boiardo a un tiro di schioppo, c’è la rocca a Scandiano e presumibilmente un palazzotto qui in città, va a finire che delle tre corone estensi nessuna era di Ferrara, nemmeno per caso. Allungo ancora e vado attorno al poligono di tiro, non so con quale obbiettivo, visto che non mi faranno certo entrare. Non importa, è un omaggio, una specie, un piccolo pellegrinaggio dedicato alla memoria dei fratelli Cervi, al loro coraggio, alla loro spaghettata antifascista. Fa caldo anche se è quasi il tramonto, riconosco l’entrata, è rimasta uguale ad allora, quelle poche foto rimaste. Fortuna che son partito presto e che la formazione l’ho fatta durare poco.

Un’ultima cosa, prima di andare: un tributo dovuto all’onomastica locale. I nomi nel reggiano hanno tutta una vita propria, così concentrata che nessun altra provincia emiliana ne condivide la consistenza, e così variegata da costituire un universo staccato e divergente. Gli Offlaga disco pax, gran gruppo sempre tra i miei, ne fecero persino una canzone, facendo elenco musicale di nomi presi dalla guida del telefono, recitati alla maniera di Collini. Eccoli, dunque: Aderito, Athos, Babel, Boiler, Demos, Etno, Eles, Enver, Engels, Engel, Enos, Ero, Eves, Eides, Firmato, Frea, Glennis, Ibanez, Iaures, Idea, Idillio, Idolo, Iller, Illo, Iuna, Iames, Iones, Katiuscia, Lena, Liuska, Lidoska, Lista, Mauder, Malfa, Miroslav, Neda, Nemma, Nullo, Nuova, Nives, Olmes, Oriente, Orio, Seno, River, Tita, Tundra, Uber, Urano, Wilmo, Wolner, Wilmer, Wagner, Wainer, Yunissei, Yenissei. In bell’ordine, su tutti Idillio e Tundra. Perché un nome è tutto quel che davi.


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l’invasione, giorno quarantasei: e se fossi io?

Una persona cara, non saprei se chiamarla un’amica, una persona cui sono di certo riconoscente e cui voglio bene, è in Ucraina. È lì perché è il suo paese, è lei che negli anni mi ha sempre parlato di una guerra in Ucraina e io, lo devo dire, ho sempre sottostimato le sue parole, pensando all’occupazione successiva al 2014. No. Lei è là perché ha fatto una scelta, una di quelle quasi definitive, è infatti entrata in convento. Non so esattamente dove, diciamo nella zona di Leopoli. A settembre, quando ha finalmente deciso, era contenta, convinta di sé. Ci siamo sentiti poi poco, qualche messaggio qua e là, qualche augurio alle date comandate, perché il convento ha le proprie regole, e ci mancherebbe. Dall’invasione, ci siamo sentiti più spesso, può evidentemente utilizzare di più il telefono, è necessario. Non immagino cosa significhi sentire le bombe precipitare, non riesco a quantificare la preoccupazione per la famiglia che lei ha, provo compassione e sono preoccupato. Lei mi risponde gentilmente con voce tesa ma pacata che al momento non c’è da preoccuparsi, io invariabilmente insisto proponendole ospitalità qui, per lei e famiglia, garantendole ogni appoggio, lei con pazienza mi dice ogni volta che non ha intenzione di scappare.
Non posso certo io dirle quel che dovrebbe fare, le mie sono supposizioni, frasi fatte, non so cosa significhi abbandonare la propria casa, natale o adottiva, materiale o spirituale, per causa di un invasore. Non lo so ma provo lo stesso a dirle ogni volta che se dovesse avere bisogno, ci sono, ci siamo. Lei lo sa, credo dai e dai l’abbia capito, al momento non ha intenzione di chiedere, né per sé né per i suoi. E poi, conclude le nostre conversazioni con la frase di rito: «il Signore provvederà». Già.
Mica posso discutere il Signore, quello con la esse maiuscola, tantomeno con lei, che è una professionista. Non solo non ne avrei la capacità, ma non avrebbe nemmeno senso, mi dico. Perché dovrei cercare di scalfire la sua fede, di insinuare un dubbio proprio in questo momento, quando lei ne ha probabilmente più bisogno? E in nome di cosa? Di una ragionevolezza che per me, qui, seduto al pc in casa mia preparando la cena mi pare avere tutta la fondatezza del mondo? Però sono preoccupato, quante volte mi sono chiesto se sarei in grado di capire il momento in cui è il caso di scappare, quel momento oltre il quale non è più possibile farlo. Quante volte mi sono chiesto perché di fronte a catastrofi così evidenti le persone non siano scappate per tempo, penso alla Germania del 1933, per fare un esempio concreto. La risposta è facile, le cose non sono mai così semplici né evidenti e le persone non sono sciocche, ciò che non è avvenuto è perché non poteva avvenire, almeno non come lo immagino io. E la risposta è, inoltre, no. Non saprei riconoscere il momento per scappare, l’ultima occasione. Io, come loro, non lo riconoscerei.
Allora provo a insistere, devo provarci, lei chiude il discorso. Il Signore, ci penserà lui.
L’ultima volta sono andato oltre. Senti, le ho detto, sebbene io sia del parere diverso è giusto che tu pensi che provvederà il Signore a te, ai tuoi cari, al tuo paese, immagino. E se, le ho chiesto, e se fossi io il modo in cui il Signore sta provvedendo a te? Se io – io come chiunque altro, sia chiaro – fossi l’inconsapevole mezzo con il quale ti viene offerta una via di sopravvivenza o, almeno, di vita migliore, temporanea? Tace. Non ti aspetterai che si manifesti di persona per dirti che quella è la via e dandoti indicazioni su cosa fare, vero? Lo sappiamo entrambi che, comunque, non agisce così, la maggior parte delle volte, secondo quanto dicono. Se io fossi il gessetto sulla lavagna di un disegno più grande? Tace ancora un po’, poi taglia corto, «siamo nelle mani del Signore, sarà quel che sarà». E bon, ci risentiamo. A volte guardo le date delle ultime connessioni per sapere che si è collegata, quindi immagino stia bene, spero. Almeno ha la connessione e c’è, mi dico.

Poi sto lì, ci ripenso, e mi dico che potrei anche essere un inconsapevole mezzo per portarla alla rovina, per farle fare la scelta sbagliata, dal punto di vista delle possibilità è esattamente la stessa cosa. E mi richiedo, ancora: è il momento di scappare, l’ultimo? Dovrei insistere? Cosa potrebbe comprendere in più grazie alla mia insistenza? Nulla. È quello che mi dico, nulla. Perché è un dilemma, lo sarà finché le condizioni non peggioreranno o miglioreranno a tal punto da chiarire la bontà di una scelta, non c’è soluzione. C’è la sua soluzione, quello che deciderà di fare e nel momento che riterrà giusto, impossibile dirlo da fuori. Che poi, ci penso, è quel che dice lei: provvederà qualcuno o qualcosa. Cioè a un certo punto qualcosa cambierà e lei agirà di conseguenza. È giusto. E con che diritto, io, qui, faccio pressione perché faccia una cosa o un’altra? Avrà ben altre preoccupazioni più importanti del parlare con me, del mio dialoghino teologico da balera, vivaddio?, le tirano i missili vicino. Lo sa che se ha bisogno qui c’è posto, basta, mi dico. Sì, va bene così. Provvederà, magari lei stessa. Mi metto quieto.
Poi, dopo qualche giorno, la sento. E insisto di nuovo.

la colazione dei campioni in cima al monte

In cima al monte Washington, che sta di qua sulla costa e non di là, dove c’è invece lo stato, c’è un osservatorio meteo, perché nonostante il monte sia poco più di un pandorone, duemila metri, lì c’è notoriamente uno dei peggiori tempi meteorologici del mondo: freddo cane e vento infidone. Ci fanno pure le gite per quello. Spettacolari certe ghiacciate attorno ad antenne e cartelli, celebri nelle immagini.
Il lavoro nell’osservatorio deve avere alcuni tempi morti, a giudicare da quegli estrosi degli abitanti scienziati, e per ben impiegare i tempi, appunto, e le condizioni, essi si lanciano in iniziative che io trovo altamente meritorie. Per esempio, la colazione sul terrazzo, come da video del 1990:

Guardo e riguardo e me la rido ancora, è una specie di Monty Python drogato dal meteo. Zisis ze vorst servis in ze uorld, a 1:12 non resisto proprio. Ci sarà qualcuno a cinquecento chilometri di distanza che si sarà visto arrivare in faccia un toast volante.

l’invasione, giorno quarantatre: convivere

Il 31 marzo ho riconosciuto con esattezza il giorno, il momento esatto in cui ci siamo stufati di questa guerra: per la prima volta da un mese – a parte la débâcle della nazionale di calcio, quella batterebbe anche un’invasione aliena ostile – le notizie dall’Ucraina sono scivolate oltre la quinta posizione nelle testate online, sopraffatte dalle dimissioni di Fedez e da chissà che altro, non ricordo più. Siamo durati più di un mese, comunque, e già non è poco. Abbiamo trascurato molte cose, la pandemia per esempio, il dibattito sulle spese militari, la nuova villa di Pier Silvio, come gestire la negatività senza abbandonarsi al mito dell’ottimismo (questa è Repubblica, ovvio), insomma, è lecito ripiegare. Non lo dico pensandone male, è umano, è ragionevole, è pure molto difficile vivere in uno stato di perenne angoscia e non è il caso di farlo se non c’è un motivo drammatico diretto, bombe che cadono. Un giusto mezzo, come sempre. Il dibattito non si è interrotto, comunque, diversificato semmai: c’è chi ragiona sul gas russo e sulle vie per rendersi indipendenti energeticamente (no, non è possibile nel breve), c’è chi si occupa delle presunte malattie di Putin, chi sparnega geopolitica dalle cene alle conversazioni da caffè e ha una ragione per tutto, affastellando considerazioni indimostrabili. E poi i fatti hanno riportato in alto le notizie di guerra, purtroppo.

Poi c’è, naturalmente, a chi non importa nulla. Perché finché non se ne viene toccati, le cose non esistono. Non è un piano, una scelta, è proprio un modus vivendi, una natura, una costituzione direi. Certo, manifestano contrizione quando capita che qualcun altro ne parli, perché così si deve fare in pubblico, ma si vede bene che non c’è coinvolgimento, non c’è compassione. Di questi non mi importa un fico secco, trovo che abbiano un modo terribile di stare al mondo e che siano in sostanza nocivi per la riuscita delle cose, per cui se posso li ignoro. Ecco perché cerco di andare il meno possibile in ufficio, mi sento circondato.
Piuttosto, la rete di persone volonterose si è fatta davvero concreta e reale: se è ormai facile trovare un modo per inviare in Ucraina medicinali, vestiti, cibo, persino armi, le associazioni, le cooperative, gli enti che sono attivi sul territorio e che assistono i profughi e chi li ospita in ogni aspetto della vita quotidiana riescono a fornire un’assistenza davvero sostanziale, dai pacchi di cibo, alle lenzuola, asciugamani, vestiti, tutto quanto possa servire. Lo so direttamente, mi sono attivato per rendere disponibile una casa per chi dovesse averne bisogno, le associazioni ci sono e aiutano moltissimo. Il consiglio è, dunque, passare da loro piuttosto che direttamente in prefettura o comune, per questo motivo. A me, poi, per altre vie sono arrivati un italiano e un’austriaca di Kitzbühel, chissà, faccio una battuta dicendo che non sono certo di poter garantire il medesimo tenore di vita austriaco di quelle zone.

Kyiv, distretto di Obolon, mural di Sasha Korban

Ho conosciuto persone, perlopiù donne sole che coppie, che hanno aperto le porte di casa propria a un’altra donna, magari con bambini. A loro va tutta la mia ammirazione, io ho messo a disposizione una casa in cui non abito, questo è proprio un altro conto, un altro grado di umanità e di condivisione. Certo, non lo potrei fare, non è previsto e non è affatto sensato, ma comunque non sono certo che sarei in grado di farlo. Ed è qui che si allarga il cuore, a me almeno, vedendo persone in grado di spingersi così in là, rispetto a me. Brave, sento di doverle aiutare indirettamente.
Un amico – ti leggerai, C. – mi propone di reimpaginare un libretto di poesie di donne ucraine che vivono in Italia da parecchio, un gesto laterale di sostegno, comunque, alla causa. Ci sto, lo facciamo, e devo dire che qualche problemino con il cirillico – oh, cirillico ucraino, mica russo o bielorusso o kamtchatko – lo incontriamo, in modo divertente parlandoci entrambi con grossi punti interrogativi in testa, usando google translate che traduce alla viva il parroco e cercando di mettere gli a capo nei posti giusti, distinguendo a malapena una parola dall’altra. Lo stranguglione che mi ha pigliato quando mi sono accorto che mettendo il corsivo alcune lettere cambiavano lo lascio comprendere a chi abbia mai fatto lavori del genere. È così, è giusto, a saperlo prima. Ma manca poco al visto-si-stampi, ce la facciamo, servirà anche questo, a qualcuno.
A me, di sicuro.