minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno cinque, taxi kamikaze, Copernico e le sue cose, baricentri di pan di zenzero

La prima cosa che faccio al mattino, o quasi, è comprare il biglietto del treno per la tappa successiva. Perché non è operazione priva di incognite. Infatti, tento con l’app di PKP Intercity che, alla registrazione, mi dice che il mio numero di telefono non è polacco. Ne avevo il sospetto, taccagni, solo per risparmiare qualche centesimo dell’sms. Allora vado in stazione. Solo che, e non è un caso isolato, la stazione non c’è. Nel senso che la stazione è una sala d’attesa con un distributore automatico di bibite, un poster di una mostra del 1998 del Teomondo Scrofalo locale e due binari che paiono morti. Fine. D’accordo, straniero, dove si fanno i biglietti del treno in questa città? Dimmelo o ci saranno conseguenze. Alla stazione grande. I biglietti si fanno alla stazione grande, Główny. Che è una stazione a sei chilometri dalla città, nel vuoto. D’accordo, allora taxi. Salgo su una Renault espace che ha visto la perestrojka, le sospensioni sono chiaramente solo una vaga memoria, come i finestrini dietro, il conducente si gira verso di me alzando il pollice e mi fa sorridendo: «taxi kamikaze!». Grande, amico, dacci dentro con quel pedale! Mette su Major Tom di Peter Schilling a volume inaudito e ci lanciamo a velocità smodata nell’iperspazio polacco. Per le prime tre marce, ogni volta lui si piega in avanti sul volante come per dare lo slancio alla baracca. Amico, dieci złoty sono decisamente troppo pochi per tutto questo. E non sono nemmeno le otto e mezzo del mattino. Vai, amico polacco, vai.

Toruń è una magnifica città sulla Vistola, a un centinaio di chilometri a sud di Danzica e del mar Baltico, e faceva parte della lega anseatica, come moltissime città tra san Pietroburgo e Brema (bene, una in meno). Il centro è medievale, intatto, e tutto ruota attorno a due cose, fondamentali: il pan di zenzero (pierniki) e Copernico, nato qui nel 1473. L’importanza è strettamente in quest’ordine. Notevole l’iscrizione in latino sulla statua di Copernico, per mano di Alexander von Humboldt: «A colui che mosse la terra» (motore terrae) «e che fermò il sole e il cielo» (solis caelique statore). Galileo imparò poco da Copernico, l’ambizione era molto diversa, e pubblicò con risonanza i propri lavori. Copernico no, restò sul vago, raccontò agli amici e agli allievi senza però firmare alcunché, si racconta che abbia ricevuto la prima copia della stampa del suo De Revolutionibus Orbium Caelestium sul letto di morte.
Ora, vedetevela voi.
Prima non ci ho fatto caso, poi mi sono reso conto che è pieno di giapponesi. Ma non sono turisti, perché non vanno in giro guardando per aria, vanno proprio diretti da un posto a un altro. Apprendo poi che la Sharp – azienda che detiene il record del televisore più grande mai costruito, 108 pollici – ha aperto uno stabilimento qui, importando montagne di ingegneri giapponesi e relativi. È la più grande comunità giapponese dell’Europa orientale, forse d’Europa tutta, chissà l’effetto che fa trasferirsi da Ōsaka a Toruń, a mangiar pan di zenzero.
L’unica altra comunità straniera di cui mi rendo conto è una coppia di italiani ultrasettantenni che litiga, lei dice in tono irato «beh, allora scusami!» e lui ribatte dicendo che non vorrebbe parlarne più. Chissà se nei racconti a casa resterà una vacanza bellissima.
Le mascherine, nel frattempo, si diradano ancor di più. Da quanto riesco a capire dai giornali – avrei meno difficoltà a leggere la Bibbia di Lutero in prima edizione – anche qui i nuovi contagi si attestano a circa seicento al giorno, come in Italia. Ma qui paiono non avvedersene: le divisorie nei negozi e negli alberghi sono gradatamente scomparse, le mascherine vengono indossate dalla metà delle persone nei luoghi chiusi, più che altro direi dalla fascia trenta-sessanta. Anche il distanziamento non è praticato, pare di essere abbastanza lontani da tutto. O forse no, oggi seguo un pezzetto di una manifestazione contro Lukashenko e la situazione in Bielorussia, discretamente numerosa. Si è solo spostato un baricentro, credo.

A proposito di baricentri, è per Copernico che sono qui. Per vedere la sua casa:

Per vedere il suo osservatorio astronomico, simile a quello di Tycho Brahe a Copenaghen, più piccoletto (ancora oggi Toruń è all’avanguardia nell’osservazione celeste in Europa, che meraviglia):

Il suo Collegio:

La sua statua in periodo di pandemia:

La sua statuina:

Il suo Monopoli:

E, finalmente, per vedere il suo taxi (che, ovviamente, non è quello che ho preso io, perché è il suo):

Soprattutto, sono qui per celebrare il fatto che non siamo al centro di niente, non siamo i prediletti di nessuno. Il che mi porta a una prospettiva che trovo da sempre entusiasmante: non dobbiamo essere grati né chiedere perdono ad alcuno, sta solo a noi costruire, mantenere, magari distruggere, individualmente e collettivamente. Ecco, questo significa per me essere davvero al centro di tutto: un centro mobile, dinamico, variabile, fatto di possibilità, che nel tempo si sposterà su altri di una lunga storia comune ma che ora, qui, è tutto nostro.

E, allora, oggi mi va bene Gioia e rivoluzione (non copernicana né dei corpi celesti) degli Area. Ah, un’ultima cosa: qui dicono ‘Copernìco‘, con l’accento sulla penultima. Come ‘Chernòbyl‘.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno quattro, spostatevi, il primo settembre 1939, la Pomerania e le comodità dell’appartamento moderno

Poi, all’improvviso, mi trovo uno in casa. «E tu chi sei?» chiedo. «Sono il tuo vicino, abito tre case più in là». È vero, ci siamo già visti, so più o meno chi è. «E cosa fai qui?», dico io, «Sistemo le mie cose» risponde lui tranquillo. «Scusa, in che senso?», comincio ad allarmarmi. «Nel senso che pensavo di spostare qui il mio salotto e di usare quella camera come studio. Ho molti libri, sai?». «No, aspetta. Questa è casa mia», dico cercando di tenere un tono fermo. «No, questa era casa tua, adesso è casa mia», afferma serenamente. «Ma questo non si può fare!», esclamo io, agitato. «Certo che si può, tutti noi che abitiamo oltre la rotonda ci stiamo prendendo le case in qua, come la tua. Non sei l’unico, sai?». «Eh, non è che questo mi consoli. Ma perché volete cambiare casa?», chiedo ma sto andando in confusione. «Non stiamo cambiando, ci stiamo allargando. E la ragione è ovvia, perché abbiamo bisogno di spazio. Di più spazio». Non capisco. «E io? E il mio spazio?». «Ah, a me non importa», dice, «puoi andare dove vuoi, puoi spostarti verso est». Resto interdetto. «Al momento», prosegue, «puoi restare in una stanza, quella in fondo, ma quando ne avrò bisogno dovrai smammare». «Ma le mie cose?», balbetto. «Le tue cose le ho buttate, detto tra noi tra l’altro facevano schifo», spiega paziente, «quello che resta l’ho buttato dalla finestra, lo trovi giù». E, non contento, «il cassettone invece lo tengo, quello è bello». «Ma è mio!», insisto. «Allora sei de coccio, ora serve a me». «Ma… non… non si può…», le parole mi si strozzano in gola. «Eeeeeh, ciao, ci vediamo, ora vai che devo sistemare le cose» e mi spinge verso la porta. «Guarda che chiamo la polizia, se non vai», mi ingiunge. «La chiamo io la polizia», ribatto. «Ahah», ride, «la tua polizia adesso è la mia. Ora va’ che ho da fare». E io mi ritrovo fuori dalla porta di casa mia.

Si può chiamarla invasione, si può chiamarla occupazione o, più pacatamente, necessità di «spazio vitale». Il concetto è sufficientemente mostruoso quando viene declinato occupando lo spazio altrui, che evidentemente vitale non è. O, se anche lo fosse, è vitale meno meno, o è vitale per una forma di vita che conta meno. O chi se ne importa, in fondo. Ed è così che il primo settembre 1939 i tedeschi occuparono la Polonia, per riguadagnare il proprio «spazio vitale», il lebensraum. C’era stato un patto otto giorni prima, il patto Molotov-Ribbentrop, che noi in Italia studiamo come patto di non belligeranza, o di mutua non aggressione, tra Germania e Unione sovietica. I polacchi, invece, lo studiano come il patto di spartizione della Polonia e, in effetti, è difficile dare loro torto. Come si diceva ieri, mai fidarsi dei tedeschi, nemmeno quando sottoscrivono un documento ufficiale, perché della non aggressione se ne fecero un baffo poi, ma per i primi tempi andò bene così: la Germania si pigliò buona parte del paese, l’Unione sovietica il resto e buonanotte alla Polonia. Il sentimento, come dargli torto?, qui è molto diffuso: non possono vedere i tedeschi e, tantomeno, i russi. E fin qui è comprensibile. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, il famoso colpo di fucile di Danzica nella notte del primo settembre, noi lo studiamo come il risultato delle mosse espansionistiche della Germania nazista dall’anschluss austriaca alla questione dei Sudeti alla conferenza di Monaco, qui lo studiano come l’aggressione congiunta di Germania e Unione sovietica alla Polonia. I primi, poi, li hanno occupati per sei anni, i secondi per i successivi cinquanta o giù di lì, in sostanza. Fin qui si può capire, dicevo, poi meno.

I polacchi son gente simpatica, non proprio dei burloni ma abbastanza gioviali, diciamo. Hanno qualche problemino, di cui dirò poi, ma in sostanza sono piuttosto piacevoli. Certo, non è che ti gettino le braccia al collo o instaurino conversazioni complesse con gli estranei se sono sobri (e qui comincia a delinearsi il primo problema) ma sono sufficientemente gentili, ci si può facilmente parlare e per strada si gira tranquilli. Presi individualmente. Perché collettivamente sono proprio un’altra cosa: ultranazionalisti e iperreligiosi. Quando alcuni anni fa noi avevamo un evidente problema con Berlusconi, i polacchi erano riusciti nel non semplice compito di essere messi peggio di noi: avevano eletto due gemelli idioti ultrareazionari, uno alla presidenza della Repubblica e uno del Consiglio. Cosa statisticamente probabile quanto un asteroide che colpisce in testa Elvis Presley mentre è a cavalcioni di un dinosauro. Poi, uno dei due gemelli si è schiantato con l’aereo e i polacchici hanno avuto la bella idea di seppellirlo sulla collina di Wawel a Cracovia, dove sono sepolti i re Jagelloni, bellissimo posto. Certo, anche i bulgari fanno la loro bella figura, visto che alla caduta della monarchia hanno votato l’ex re come presidente della Repubblica, ma qui voliamo abbastanza alto, se mi si perdona l’immagine aerea avendo appena parlato di incidenti mortali.
Quindi, se il legittimo risentimento, politico e storico, per la congiunta invasione viene letto in chiave ultranazionalistica, la cosa comincia a farsi pesante. Ancor di più se a questa viene sovrapposta la metafora religiosa: la Polonia – non sto scherzando, la si legge dappertutto – è il Gesu Cristo d’Europa. Bistrattata, umiliata, crocifissa ma, alla fine, nel giusto. E con pazienza e infinita virtù di sopportazione.

Ecco, io con questo sentimento collettivo ho le mie difficoltà a rapportarmici. Individualmente, bene, l’ho detto. Hanno solo qualche problemino con gli alcoolici – non tutti i polacchi, i giovani molto meno, e mai in maniera troppo aggressiva – e con Gesù, che torna sempre quando devono decidere qualsiasi cosa inerente la propria vita quotidiana e sociale. Ma è collettivamente che diventano difficili. Il governo nazionalista guidato da Morawiecki, del PiS («Diritto e Giustizia»), sta ovviamente facendo il contrario di quanto dichiarato nel nome, devastando lo Stato di diritto e suscitando non poche perplessità a Bruxelles. E l’andazzo prosegue da trent’anni.
Ecco, l’avevo promesso, ho parlato della Polacchia e dei polacchi. Io ora andrei avanti, rapportandomi con loro il più possibile in modo individuale e cercando di cogliere il meglio, senza dire stupidaggini ad alta voce su Wojtyla, Gesù, Stalin, Hitler, gli Ucraini – odiano pure quelli, che si son presi Leopoli e tutte le zone circostanti – e ricordando, magari, i bei tempi in cui avevamo un papa polacco, Boniek la sera galoppava verso l’area e la Panda la costruivamo qui. I bei tempi dell’amicizia italo-polacca, due pappine in semifinale ai mondiali del 1982 e bon, tutti amici e perciòffelici.

Venendo a me e alle mie avventurelle, oggi ho raccattato le mie carabattole, ho salutato Łódź e mi sono rimesso in moto su altri intercity in direzione della Pomerania. Certo, voivodato della Cuiavia-Pomerania, mi scuso, non volevo parlare a vanvera ed essere impreciso. In Pomerania non è che abbiano le mele, semplicemente in polacco vuol dire «vicino al mare», perché è lì che gradatamente, con calma grazie ai potenti mezzi pubblici polacchi, sto andando. Sto cominciando a delineare un itinerario, il giro si sta facendo chiaro sulla mappa, alla fine. Ho preso il treno per Danzica ma io a Danzica ci son già stato, per cui mi fermo un pochetto prima.
Oggi vado a trovare Copernico.

Da domani, promesso: basta bigini di storia raffazzonata. Più minidiario di viaggio e meno contesto. Ce la farò? Mmm, non mi fido di me. Nel frattempo, per predispormi, ascolto Sprawl II degli Arcade Fire. E in polacchico «sì» si dice «tak», un po’ strascicato, tipo taaàc. Che a me fa ridere perché mi viene in mente di continuo: il letto minimal reclinabile dalla parete per una vita moderna? Taàc.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno tre, Rubinstein e il tessile, credere ai tedeschi, vedere il sole da prigionieri, la libertà di oggi

Lascio l’educata Cracovia e vado a Łódź. Il che equivale, in sostanza, a lasciare un luogo europeo di buon respiro per inoltrarsi nella Polonia più polacca. Ovvero, l’inglese si dirada piano piano, le case si fanno sgarrupate, le città meno coerenti, le zone spesso senza un progetto o figlie di idee e circostanze morte e sepolte.
Łódź è un’enorme città industriale. O, meglio, lo era: a fine Ottocento conobbe una crescita senza pari grazie all’esplosione dell’industria tessile, per la quale divenne uno dei centri più rilevanti d’Europa. La ricchezza era diffusa, lo si nota dalla qualità delle fabbriche, spesso dalla facciata liberty, dalle case rimaste qua e là, pochine, da un progetto di edilizia sociale dedicata agli operai che assomiglia a Villaggio Crespi a Trezzo, una città nella città, il periodo è lo stesso, il settore anche. È la città in cui, in quegli anni, nacque Arthur Rubinstein, ebbe un’ottima filarmonica e attrasse operai e industriali da tutta la Polonia e l’Europa dell’est. E, ovviamente, come in tutta la Galizia, aveva una numerosa comunità ebraica che, al tempo, costituiva un terzo della popolazione di Łódź.
La città di Łódź è però nota per la tremenda vicenda del ghetto, ed è il motivo per cui sono qui. La storia è facilmente reperibile, ne esistono cronache dettagliate scritte dai protagonisti, io voglio richiamarne solo qualche aspetto, se riesco. Durante l’occupazione nazista, la città fu rinominata «Litzmannstadt» e fu creato un enorme ghetto a nord del centro. Enorme perché vi furono rinchiusi oltre duecentoventitremila ebrei, piccolo perché la superficie era di soli quattro chilometri quadri, di cui la metà abitabile. Se volete avere una misura congrua, pensate al luogo in cui vivete e fate una debita proporzione. Puff, andati tutti e nemmeno basta. Solo Varsavia conobbe un’esperienza peggiore. Il ghetto era talmente strutturato che all’interno circolava una moneta propria, un marco valido solo nel recinto, fuori non aveva alcun valore. Circostanza altrettanto peculiare, a capo del ghetto fu messo Chaim Mordechai Rumkowski, un industriale ebreo, il quale aveva diritto di vita e di morte sui propri concittadini. Un ottimo modo per i tedeschi di non sporcarsi le mani: un’enorme forza lavoro rinchiusa cui bastava far arrivare gli ordini di produzione e disinteressarsi del resto. Fu così che nei primi due anni morirono circa quarantacinquemila ebrei di stenti, fatica e trucidati indebitamente. La vita si fece, ovviamente, man mano più dura dal 1942 in poi, quando cominciarono le prime deportazioni. Alla comunità ebraica del ghetto, fu richiesto a un certo punto, di consegnare quindicimila persone inadatte alla produzione, che poi sono i bambini fino ai dieci anni e le persone oltre i sessanta. Era noto a tutti quale sarebbe stato il loro destino ma con una scelta controversa, forse per mantenere il livello produttivo del ghetto, forse nella speranza di salvare altre vite, forse per interesse, forse per ingenuità, Rumkowski fece il famoso «discorso dei padri e dei figli» e consegnò ai tedeschi le persone che volevano. A Varsavia, invece, il ghetto si ribellò e resistette giorni finché da Berlino non decisero di bombardarlo con l’aeronautica, che è la ragione per cui oggi non ne rimane nemmeno un sassolino. Anche nel ghetto di Roma vi fu una vicenda simile: i tedeschi richiesero un cospicuo quantitativo d’oro per evitare il rastrellamento e la comunità lo consegnò nella speranza che i tedeschi rispettassero la parola. Così non fu, come non fu a Łódź: degli oltre duecentomila abitanti del ghetto, a fine della guerra ne restarono ottocentosettantasette. Si stima che ne sopravvissero altri diecimila, probabilmente scampati ai campi di concentramento o fuggiti, comunque briciole, briciole umane.
Il ghetto fu completamente liquidato, pure Rumkowski e famiglia, i tedeschi portarono gli ultimi settantaduemila abitanti ad Auschwitz in pochissimi giorni, con uno sforzo impressionante, tipico della peggiore pervicacia nazista. Al cimitero ebraico del ghetto, che esiste ancora ed è visitabile, non ci sono le tombe dei morti tra il 1942 e il 1945. Perché non sono morti qui. Ci sono i memoriali, i fratelli, i figli scampati che da ogni parte del mondo ricordano le proprie famiglie sterminate. Tra i nati qui nel ghetto e sopravvissuti alla deportazione, ricordo Jurek Becker, autore di un commovente romanzo dedicato alla vita nei campi di concentramento, «Jakob il bugiardo». Lo consiglio davvero, è un librino, costa poco. C’è anche il film ma non so.

Oggi il ghetto è una parte della città, a parte il cimitero non ci sono segni particolari di ciò che è stato. Oddio, certi casermoni bassi tutti scassati, certi strani vuoti tra le case, certe parti incomprensibili qualche indizio lo danno, ma serve attenzione e voglia di capire. Io quella ce l’ho e mi metto in cammino, sono circa una decina di chilometri per arrivare alla zona del ghetto. A piedi, perché certe cose bisogna un minimo guadagnarsele, non è che si arriva in taxi.
C’è un sole magnifico, un cielo azzurro da cartolina e tutto ciò mal si sposa con la necessità di immaginare ciò che è accaduto. Il contrasto è straziante, perché oggi pare tutto bello, anche le macerie. E invece no, dovrebbe essere gennaio, di quei gennai grigi, gelidi, maledetti, che piegano le persone. Io sto qui seduto a contemplare i platani di piazza Bazarowa e a considerare, tutto sommato, che i palazzoni non sarebbero nemmeno tanto male se li dipingessero e tagliassero l’erba, e potrei non sapere che qui si compivano le esecuzioni pubbliche del ghetto. I posti abitati dalle persone sono così, passa il tempo e diventano qualcos’altro. Per fortuna, bisogna dire, anche se fa male constatarlo per coloro che qui hanno così sofferto. Perché questo sole bellissimo di agosto, caldo ma con la brezzolina, l’hanno visto anche loro, dentro il recinto, sapendo che fuori c’era la vita, il cibo, la tranquillità e la pace. Diciamo. Certo, anche la vita del ghetto sarà stata meno dura di questa stagione, ma il pensiero del fuori dev’essere stato tremendo, inimmaginabile.

Certo, poi sopravvivi ai nazisti perché ti capiti il socialismo reale. Cadere dalla proverbiale padella nella brace o, se mi si consente l’espressione, dalla merda nella merda. Qualcuno se lo ricorda Jaruzelski? La Polonia che si vede oggi è in larga parte quella lì, quella che ho visto alla periferia di Varsavia, nella zona dei cantieri navali di Danzica, qui a Łódź. Ora la domanda, difficile: come si riconverte una città industriale, oggi? Eh, saperlo. Qualche ristorante, qualche albergo, qualche sala conferenze, ma non è che si possono fare conferenze a tutto spiano. E le amministrazioni non brillano per fantasia, ammesso che abbiano le risorse. Un centro commerciale, certo, come per esempio il «manufaktura», ben ventisette ettari di estasi commerciale. Che è dove sto scrivendo la seconda parte del minidiario di oggi, perché ha delle panchine all’aperto e all’ombra. È anche uno dei pochi posti aperti oggi, ovviamente. Perché la Polacchia è paese ipercattolico e con la domenica non si scherza, mica come quei chiacchieroni degli italiani.

La notte scorsa ho trovato un posto dove dormire dentro una fabbrica tessile dismessa di fine Ottocento, bellissima. Ci tenevo, non riuscirei a immaginare posto migliore a Łódź. La notte non è stata però tranquilla, costellata di operai, di lavoro forzato, di vita nel ghetto, di fantasmi, di vite passate e sparite, di vite buttate via. Me lo potevo immaginare, ha senso che sia così. Non ci si viene a divertire a Łódź.

Oggi serve questo: Arthur Rubinstein, Chopin Ballade No.1. Tutto in Polonia.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno due, l’estetica italiana trova conforto in polacchia, librerie antiche, imparare la scrittura in polacco, i trattini maledetti

Cracovia, agli italiani, piace parecchio. Primo, perché qualcuno ha messo dei voli abbastanza low cost. Secondo, perché a raffronti fatti c’è abbastanza da fare i signori. Non come una volta, certo, ma in un ristorante turistico nella piazza principale si piglia un piatto unico di carne con contorni e una birrona con dodici euro. Cioè cinquanta złoty, all’incirca (il plurale sarebbe «złote», lo so, ne riparliamo al corso di polacco). Terzo: perché noi italiani ci sentiamo i figli legittimi di Baldassarre Castiglione e Achille Castiglioni e, nella migliore delle ipotesi, siamo invece i cugini di terzo grado di Dolce e Gabbana o, nella peggiore, il pubblico di Uomini e donne. Di conseguenza, adoriamo la raffinata estetica polacca, fatta di legno, oro, diamanti finti, specchi e neon blu, adatta anche per il più minuscolo dei bar. Per tutti questi motivi, solitamente si trovano parecchi italiani a Cracovia, molti meno ora causa pandemia ma qualche intrepido si trova. Quattro, per esempio, che stamane stavano facendo sapere a tutta la piazza di essere venuti in auto. Bravi. Tutti questi italiani, anche in condizioni normali, si dissolvono un chilometro fuori dalla città: se ne trova qualcuno molto pacato a Varsavia e nulla più, il resto della Polacchia è da considerarsi libero dagli italiani. Italian-free. Se la cosa è di vostro interesse, come lo è per me, tenetene conto nella scelta.
Io, nel frattempo, ho messo a punto la mia tecnica per affrontare gli orari locali: colazione molto sobria la mattina presto, poi in giro tutto il giorno senza mangiare niente, così che alle cinque e mezza sarei pronto a mangiare un sindacalista di Solidarność. Così trovo posto, mangio al loro orario e mi resta il tempo, dopo cena, di fare ciò che preferisco. Leggere romanzi d’amore polacchi.
Un po’ come gli immortali Petrektek e Kripztak. A proposito di libri, qui in piazza a Cracovia sostengono di aver avuto la prima libreria d’Europa, 1610 anno del signore. Ora, io vorrei sapere che ne pensano a Venezia. La Livraria Bertrand di Lisbona è del 1732 ed è la più antica libreria in attività, il mistero rimane.

Prima l’ho buttata lì come nulla fosse ma l’argomento merita di più: gli złoty. In prima battuta, i più attenti avranno notato che ciò implica che in Polacchia non hanno l’euro. Già. Il processo di adozione della moneta comune europea ha avuto inizio nel 2009, siccome però hanno visto l’impatto che il cambio di moneta ha avuto sulle economie deboli e hanno ben compreso come invece mantenere una moneta debole favorisca le loro esportazioni e il turismo, stanno bellamente menando il can per l’aia da oltre dieci anni. Attualmente ci vogliono quattro złoty per un euro. L’attuale złoty («oro» in polacco, seee) è il cosiddetto «nuovo złoty» perché nel 1995, data la galoppante inflazione, il governo introdusse la nuova moneta con un cambio di 10.000 vecchi złoty a uno. Non male, qualcuno ricorderà che se ne parlava anche da noi, la «lira pesante», per dire il livello cui eravamo arrivati. Devo dire, infine, che mi fa sempre impressione usare gli złoty perché, nella letteratura ebraica e nella memorialistica concentrazionaria, richiamano i ghetti, il mercato nero, gli anni cupissimi, scambi furtivi e la paura costante.
E ora, un po’ di corso di polacco: singolare «złoty», plurale «złote». Per scrivere in polacco, basta sostituire le «i» con le «y», le «s» con le «z», aggiungere un’acca a caso e finire le parole in -a. Esempio uno: «crisantemo» diventa «chryzantema». Per il polacco parlato non ne ho idea, non si capisce niente. A volte le regole di prima vanno un po’ mischiate a piacimento: «cioccolata» diventa «czekolada», «ottimistico» è «optymistyczny». Sentitevi liberi, lasciate andare la vostra creatività. Nel dubbio, meglio aggiungere, non togliere (abundare quam deficere). Per capire meglio quanto spiegato oggi e meglio apprendere il processo di formazione delle parole, è utile ascoltare «Huligani dangereux» dei CCCP, in particolare da «Metallisti Stalingrada / Elettricità sovieta (…) Hippi realisti Bucuresti / Capelli corti niente cresti / Fuma tzigarra disonesti». Per unire l’utile al dilettevole, segnalo che sui tavoli dei ristoranti i camerieri applicano un’etichetta che indica che il tavolo è stato disinfettato. Ovviamente, l’etichetta resta, i clienti cambiano, non sempre accade qualcosa tra gli uni e gli altri. Comunque, per restare alla lingua, «disinfettato» diventa «zdezynfekowano» (se lo si legge alla brutta, fino a «desinfec-» ci siamo, anche se sembra un misto tra ungherese e boscimano). Alla prossima lezione della bella lingua polacca.

Oggi viaggio bene con Go dei Chemical brothers (ma bisogna arrivare almeno al ritornello a 1:20 e sentirla in cuffia, se no vale poco).
Decido di andare a Lodz. Serve un treno, quindi vado nel luogo dei treni e mi accingo a comprare un biglietto. Comunicare a Cracovia è abbastanza semplice, parlano tutti inglese: con tutti intendo anche l’ottantenne nato sotto l’occupazione tedesca e con parlano inglese intendo che lo parlano meglio di me. Il difficile viene con le macchinette automatiche, specie quelle delle casse dei supermercati che non hanno traduzione. Supponendo che «sì, va bene, sono d’accordo, grazie» sia il pulsante sopra dei due, più o meno ce la si fa. Ma le macchinette dei biglietti dei treni ce l’hanno, la traduzione. Vado alla macchinetta per svariate ragioni, sia perché mi permette di guardare con calma gli orari e le combinazioni, sia perché posso fare un po’ di prove con destinazioni diverse, sia perché così non devo provare a pronunciare un nome di città polacca venendo guardato come si guarda un sottosegretario di forza italia. Dove vuoi andare? Lo so, a Lodz. Digita la destinazione. L-o-d… non c’è. Mmm, riprovo. L-o… niente. Sarò alla macchinetta giusta? Magari è quella dei superlocali o, magari, quella dei treni dell’iperspazio e non va bene. Ma come fa a non esserci Lodz? Mi guardo attorno spaesato. Comincio a considerare l’opzione sottosegretario. Poi, miracolosamente, ho un barlume d’intelligenza: Lodz ha la ‘L’ strana, quella col trattino, vuoi vedere? Occhei, macchinetta, fammi guardare, sì, ce l’ha sulla tastiera sullo schermo, è proprio un’altra lettera: Ł-o… Nessuna destinazione. Mavaff… Bene, l’intelligenza è durata il balenar di una lampadina che si rompe. E adesso? Riprovo, Ł… con calma… o…, niente. Mi serve un secondo barlume e per fortuna, dopo alcuni lunghissimi secondi in cui sono di certo apparso come un bonobo di fronte a un distributore automatico di sigari, arriva: sta a vedere che anche la ‘o’ è strana. Santoddio, è come se stessi trattando l’uzbeko, il mongolo antico, l’urdu primitivo, il dialetto nazista dell’Illinois. Ce l’ha, la ‘o’ strana, maledetta città. E mi accorgo che la tastiera a video, a scorrere, avrà circa novecento lettere, perché ogni trattino, ogni accento, ogni accidenti genera una nuova lettera. Ł-ó-d… urrah! C’è. E la dicitura esatta è: Łódź. Tre su quattro sono lettere indicibili.
Grazie Signore di avermi guardato, prendo il biglietto e il fatto che il treno ci metta tre ore e rotti per percorrere duecento chilometri mi pare del tutto irrilevante. L’abitudine a Gùgol che capisce che vuoi dire ‘Łódź’ anche se scrivi ‘Loptqqw’ è un punto da cui non si torna indietro, purtroppo.
Vado, il treno è bello, ha l’elettricità, il comodo appendiabiti (vedi sotto), costa poco perché ho speso circa dieci euro, ed è un intercity. Che bella l’epoca in cui li avevamo anche noi e si viaggiava un pochino più lentamente ma bene e spendendo poco.

Oddio, un pochino più lentamente forse no: il treno va a cinque all’ora, arriverà a destinazione dopo dodici ore, fortuna che io devo scendere molto prima. Beh, tutto sommato va bene, mi dà la possibilità di vedere con calma, molta calma, la Polacchia, che è proprio un bel paese. Conserva ancora tracce della foresta europea primordiale e in alcune zone pure il bufalo europeo (ma non ci sono gli indiani europei, li abbiamo sterminati tutti), oltre a variopinti campi di cavoli e di meno variopinte patate.

In molti, soprattutto maschi tra i venti e i trenta o oltre i sessanta, ed è quindi un fatto di orgoglio di genere, in treno si tolgono la mascherina. Mi rendo conto che mi dà un po’ fastidio, sia per l’indifferenza, sia perché il viaggio è lungo e siamo davvero assembrati. O polacchi, io son stato a Bergamo e in Lombardia e se non vi coprite vi infetto tutti, capito? Che guardi tu? Adesso ti scatarro adosso, osti!
Łódź, Łódź, Ł-ó-d-ź. Looaooddtszs.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno uno, le città nascoste, l’edera ci avvolgerà e un saluto

A Cracovia ci son stato con Bonetti, era un po’ trist… No. Non era Bonetti e non era per nulla triste, anzi: a Cracovia ci son stato cinque anni fa e mi era molto piaciuta, ragion per cui dovendo approcciare di nuovo la Polacchia perché non ripartire da qui?
Cracovia, meglio dirlo subito, è bellissima. Strade aperte, luminose, un centro storico intoccato – perché mai bombardato o distrutto – armonioso ed elegante, città piccola ma non troppo, vivace e accogliente. Per meglio farmi capire, è una Padova potenziata: qui l’Università degli Jagelloni, là l’Ateneo, qui Copernico, là Galileo, qui la Vistola, là il Brenta, qui Rynek Główny, là Piazza delle Erbe, là Sant’Antonio e qui… mmm… Wojtyla. Ecco, se ne parlo male mi deportano, il culto è vivo e diffuso. In più, qui c’è il castello sulla collina di Wavel ma non c’è di certo la cappella degli Scrovegni. Pari. Alcuni dicono che se trovi coda a Praga ti conviene venire a Cracovia. Non del tutto esatto ma con una verità di fondo, io dico: fateci un pensiero, alla prossima vacanza da uno o due giorni.
Cose di cui dovrei parlare in apertura e che rimanderò perché non sono mica una guida seria: i polacchi; la polacchia; l’odio dei polacchi per tutti i vicini; fare le cose in un paese con una lingua del tutto incomprensibile e con pochissimi riferimenti a quanto conosciuto; la specialità alimentare dei polacchi che uno non si aspetterebbe; il corso di lingua polacca. Cose così, ci sarà tempo, forse.
Piuttosto, meglio sgombrare il campo subito: le misure in tempo di pandemia, qui, sono come da noi. Mascherina al chiuso e distanziamento. Ma, posso dirlo, senza convinzione. «Nessuno dubita che il coronavirus esista», mi spiega Jedrek, «ma le persone si chiedono se sia davvero pericoloso». Eccerto, lui come tanti altri non conosce nessuno che sia finito in terapia intensiva o che ci abbia lasciato le penne e qualche domanda se la pone. Non essendo, però, ciula come Bocelli, resta sul dubitativo. Ma che le persone si comportino di conseguenza è fuor di dubbio. E come dare loro torto? Se non avessi visto da vicino anch’io farei lo stesso, non ho alcun dubbio. Poi Jedrek prosegue e mi racconta che è stato a Roma cinque giorni, bellissima, e che poi è stato a Napoli ma dopo un giorno lui e la sua fidanzata sono scappati, perché avevano paura. Ma come? I duri polacchi si spaventano per due scugnizzi e per un museo chiuso? Ma lui ha trent’anni e che ne sa dei portuali di Danzica? O della Resistenza polacca? O della scuola alpinistica polacca?
A sud-est del centro di Cracovia c’è un quartiere, Kazimierz, che una volta era un paese a sé, storicamente della comunità ebraica, ed è stato poi inglobato nella crescita della città. Kazimierz è rimasto immutato dagli anni Quaranta a oggi, nel senso che le facciate delle case sono ancora quelle, e ha mantenuto le sue cinque sinagoghe e il cimitero ebraico perché durante l’occupazione nazista gli ebrei furono spostati in massa nel quartiere di Podgórze, che diventò il ghetto, e le case abbandonate. La fabbrica di Oskar Schindler, sì, quello di Spielberg e della lista, è qui vicino e il film fu girato qui. A parlarne un po’, qui nel quartiere, capisco che non gode di grande reputazione, come invece nel resto del mondo. Mi spiegano che sì, gli ebrei li ha salvati, certo, ma per farli lavorare in fabbrica, mica perché gli importasse per davvero. L’eroe, qui, mi dicono tutti, era il farmacista di Kazimierz, che nascose nel seminterrato centinaia di ebrei, curandoli e sfamandoli. Ci dev’essere pure un romanzo al riguardo, tradotto in Italia, non so come sia.
Non sono certo io a scoprire il fascino dei cimiteri ebraici nell’Europa dell’est e, quindi, non devo spiegare perché sia andato a dare un’occhiata. Mi aspettavo, come spesso accade, cumuli di lapidi ammonticchiate, spesso cadute, rotte e sovrapposte, tutte storte e illeggibili, e invece no, almeno non del tutto: non sarà la polvere del tempo a seppellirci, bensì l’edera. Hai voglia a mettere i sassolini sulle lapidi…

Nel tempo, grazie anche alla pessima fama che aveva, Kazimierz è diventato il classico quartiere degli artistoidi e delle creatrici di collanine chincagliose. Ora, però, gli squaloni si sono accorti che possono avere a poco prezzo degli appartamenti enormi vicinissimi al centro di una città in grande evoluzione e, di conseguenza, è partita la conquista. Affrettatevi, dunque, se volete vedere il quartiere originale: i cantieri sono aperti. Come dimostra l’umarell polacco nell’inconfondibile posa. Beccato. Lo so, lo so, non si fa così.

Il pezzo adatto a oggi è Walk the walk di Poe.
Ci sarà modo, domani e nei prossimi giorni, di parlare ancora di Cracovia e delle cose polacche rimaste in sospeso. Oggi, però, mi sono messo le gambe in spalla per portare un ringraziamento e un fiore ideale a una persona che a Cracovia ha vissuto tutta la vita.

Mentre sono davanti alla tomba mi guardo attorno e vedo molte signore che le assomigliano tutte, sembrano davvero lei: quel volto arguto, simpatico, velato appena di malinconia, con gli occhi furbi e vivaci, lo vedo dappertutto. Suggestione, forse, o ci sono tante Wisława Szymborska in minore, qui. Una consapevolezza diffusa, un sapere condiviso?
A ogni modo, non ho portato i miei soli ringraziamenti, ho portato anche quelli di coloro che so che la amano, la signora I., la signora T., il signor E., la signora L. Se vi riconoscete, sappiate che oggi le ho parlato di voi.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno zero

Beh, io vado. Non che la cosa sia incoraggiante in sé, genericamente i contagi sono in aumento in tutta Europa, in Spagna più che altrove e anche la Francia non dà buoni segni, la provincia di Anversa è dichiarata zona di grado uno, la mappetta di re-open EU, qui sotto, mostra che le limitazioni più che sparire si diffondono. È già molto diversa da un mese fa. Chiaro che il problema sono le spiagge di Mykonos e delle isole croate, i locali sulle ramblas, i pullman dei giri turistici a basso costo, le discoteche assembrate che i nostri governatori di regione si ostinano a non voler chiudere, mica dove vado io. Comprensibile, magari, ma perché le discoteche sì e i concerti no?

Le disposizioni variano di giorno in giorno, ora le quarantene sono per chi torna dalla Bulgaria, dall’Ucraina, da certe zone della Romania, e i tamponi per chi è andato in vacanza in Spagna, in Grecia, a Malta e in Croazia. È l’Europa dei focolai, come molti avevano previsto mesi fa: non più un contagio diffuso ma a macchia di leopardo, il punto è individuare con prontezza le zone di rischio, a volte poche decine di persone, a volte meno, e isolarle. Non banale. La cartina, in questo, parla abbastanza chiaro: le zone messe peggio non mettono, genericamente, limitazioni all’entrata, sono quelle che devono proteggersi che pongono condizioni e, dunque, sulla mappa sono gialle.
Io ho fatto il test sierologico pochi giorni fa. Per curiosità, più che altro, per sapere cosa fosse quella febbriciattola di dicembre. Cos’era? Boh, il test è negativo. Stampo un paio di copie del referto e le metto nello zaino, sai mai. Non che valga granché, più che altro sto pensando a quei film di contagio con i civili necessari ai militari che hanno un lasciapassare per qualsiasi zona. Ecco, io sono negativo. Fino a venerdì scorso, certo, ma che noia che siete. Posso passare?
Vado verso nord e verso est, sono le mie direzioni, sempre con i mezzi pubblici perché offrono maggiori occasioni di incontro e di chiacchiera, anche di avventura, in realtà. Stavolta ci sarà meno da dire sulla pandemia e sulle precauzioni locali, più o meno ci stiamo adeguando tutti alle buone norme, con piccole varianti: mascherina nei luoghi chiusi, distanziamento, gel, si prega di non tossire sugli estranei e di non sputare nei piatti altrui. Bene.
Sarà un minidiario, immagino, più vicino alla cronaca di viaggio consueta, ragione per cui non devo esplorare forsennatamente il maggior numero di paesi, come a luglio, per vedere come stanno messi e che fanno, posso anche decidere di stare in un posto e bon, vedere l’effetto che fa. Ragion per cui, magari, sarà un minidiario meno avvincente, con meno suspans e meno infettivologi, perché per fortuna riusciamo a normalizzare anche l’anormale, rimettendo la vita quotidiana là dove le circostanze l’hanno allontanata. Quindi, chiese, musei, piazze, vie, ferramenta, mercati, cose così.
O magari no, mi fermano sul primo treno e poi sconto la quarantena in qualche posto improbabile, allo Spielberg, chissà, comunque io stasera vado. Se qualcuno ha tempo e voglia, sono qui. Le interazioni – anche complesse – sono, come sempre, molto molto apprezzate.

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interagire con gli elementi

Falko (no, quello là era Falco, c’entra niente), a volte Falko One, è uno street artist sudafricano che rappresenta per le vie di Città del Capo scene perlopiù di vita naturale. La caratteristica del vivace trentenne è che inserisce le scene che dipinge nel contesto esistente, utilizzando gli elementi disponibili. Cosa che lo rende senza dubbio un artista interessante per me.

A volte abbandona le scene con animali e in alcuni casi raggiunge vette mica da poco, come questa:

Qui le sue cose.

si cercano uomini per un viaggio pericoloso. Salario modesto, freddo intenso, lunghi mesi di completa oscurità, pericolo costante, ritorno sani e salvi non garantito

Shackleton, durante la sua spedizione con l’Endurance verso l’Artico, ben prima di perdere la nave con tutto ciò che ne seguì, una sera entrò in cambusa e, sentendo che i suoi uomini parlavano di quanto avrebbe retto la nave alla pressione del ghiaccio, raccontò una storiella:

C’era una volta un topo che viveva in una taverna. Una notte scoprì un barile di birra che perdeva e ne bevve più che poté. Quando fu pieno fino al collo, si tirò in piedi, si lisciò i baffi e si guardò attorno con aria truce. «Dunque», sbottò con aria arrogante, «dove s’è nascosto quel dannato gatto?».

Ahah. Ma gli uomini non si persero d’animo.

cose là fuori: le ville palladiane (Piombino Dese e Montagnana)

Tra le cose belle da vedere al mondo ci sono, a parer mio, le ville palladiane. Alcune più vicine alle mie preferenze (Saraceno, Zeno, Poiana maggiore, Rotonda, Caldogno, Gazzotti eccetera), altre notevoli ma con meno rapimento mistico e sensuale. Al di là di ciò, è chiaro che io debba vederle tutte e sono, devo dire, a buon punto. La mappetta, per chi non avesse chiara la dimensione geografica della cosa.

Per inseguire questo traguardo, oggi ho deviato per Piombino Dese per vedere villa Cornaro (o Cornèr), Palladio 1552.

Come molte altre ville palladiane, anche questa è rimasta incompiuta, è andata poi in rovina, come davvero è capitato a tante e, infine, è stata acquistata da stranieri facoltosi – americani questa volta – che l’hanno abitata a lungo. Da un paio d’anni è stata venduta ma non sono riuscito a sapere a chi. Per farmi invitare, casomai.
Tra i dettagli migliori di questa villa segnalo i gradini all’entrata, sottilissimi e a coppie di tre (ops, a triple di, ovviamente, tre?), profondi e molto bassi. E ovviamente il doppio ordine di colonne che, a mia memoria, richiama senz’altro villa Pisani a Montagnana, sempre una palladianata di gran valore. Palladio 1553, i conti tornano, il riferimento mi pare quello.

Le foto sono mie, come le considerazioni da profano. Se Piombino Dese non pare meritare grandi cenni, al contrario i suoi dintorni sono molto gradevoli; Montagnana invece vale eccome una gita, consiglio caldamente (mi ripeto), magari con Este e i luoghi ameni che le circondano.

Tornando a villa Cornaro, non è visitabile se non forse il sabato pomeriggio o in gruppo, tocca quindi farsi un’idea degli interni consultando immagini e descrizioni in rete. Quattro stelle e mezzo su cinque su Google danno una rappresentazione credibile del riscontro positivo del pubblico.

Tranne uno, Gastone. Che, oltre ad avere degli evidenti problemi con la tastiera del telefono, non deve aver avuto una bella giornata a villa Cornaro in compagnia della moglie.

Ma perché una stella sola alla villa, porella? Che ti ha fatto, Gastone?