mettiamo un punto fermo (o della lunghezza dei libri)

Canone e premessa imprescindibile: qualunque cosa può essere spiegata in un saggio di non più di cento pagine (iddio benedica ancora i saggi PBE Einaudi, vedi Roland Barthes, Critica e verità, sessantaquattro, 64! pagine) e qualunque storia può essere raccontata in non più delle centosessanta pagine de Lo straniero di Camus.
Tutto il resto è un di più. Augh, ho parlato.

Ma noi no, noi grazie al compiuter, al fatto che non tocca più riscrivere tutto con la macchina, al fatto che si copia e incolla, al fatto che ci si mette meno che a scrivere a mano, noi no: tra i volumi vincitori del premio Strega, nel decennio 1970-1979 la media era di 220 pagine, 292 negli anni Ottanta. Nei Novanta si raggiunge la media delle 317 pagine, dal 2000 al 2009 si va a 337 pagine e avanti con le 471 pagine del decennio successivo. Crescita costante e senza freni, santoddio guarda questo, ma che dovrà dire uno in quattrocento pagine? Chissei, Proust? Per non citare i due più verbosi di sempre, M. Il figlio del secolo (848 pagine) e La scuola cattolica (1.294 pagine), qualcuno abbia pietà di noi. Di me, almeno.
La tendenza è confermata ovunque, il Booker Prize, analizzato dalla critica britannica Leaf Arbuthnot: 248 pagine nel 1970, 294 nel 1980, 372 nel 2000, 530 nel 2019. Il che ha suscitato un vivace dibattito all’interno del premio stesso. E sì che la controtendenza di video e social invece sembrerebbe portare alla riduzione, non all’ammasso di concetti.

Marketing con prodotto un tanto al chilo, mancanza di editor (vedi il grande Vittorini, a breve prometto racconto la storia del Sergente nella neve) in grado di tagliare e farsi valere, facilità tecnica come accennato, ristampe più visibili alla lettura (Il nome della rosa cresce invariabilmente a ogni edizione, curioso) e così via, le spiegazioni possono essere parecchie e presumibilmente concomitanti. Segnalo un bell’articolo al riguardo su Treccani.it di Giacomo Natali da cui ho tratto i dati e qualche conclusione.
Lo dico? Sì, oramai scelgo le mie letture guardando il numero di pagine. Se l’argomento è la storia dell’universo posso arrivare a leggere anche duecento pagine, se l’argomento è un giallo a camera chiusa o le vocette di Meloni allora mi spiace, mi ritiro poco dopo le ottanta. Che sarebbero già tante.

palo, palo, frasca

Ascolto Night Passage dei Weather Report, poi arriva la cinque, Rockin’ in Rhythm, ed oltre a essere un ottimo pezzo mi ricorda qualcosa. Fischietto per farmi venire in mente il prima e il dopo, riascolto, nel frattempo cerco qualcosa in più e scopro che è di Duke Ellington con Harry Carney e Irving Mills del 1931. In particolare, c’è un passaggio che mi rimanda ad altro, qui a 1:53. Fischietto fischietto canticchio e poi mi viene in mente, finalmente: Grande figlio di puttana degli Stadio (e Dalla). Alla fine, da 4:25 con lo stesso tipo di suono, direi praticamente citazione. Ci sono riuscito senza gugol e lavorando allo stesso tempo, bravo me, ammesso che qualcuno abbia mai notato questa cosa. Penso francamente di essere il primo, inutile cercare in rete.

“una ЯicostЯuzione lucida e allo stesso tempo accoЯata del funzionamento della giustizia italiana”

Scopro con grande interesse che il mio riferimento politico e, se posso dire, umano ha pubblicato un nuovo libro. Beh, mollo Diderot, Calamandrei, Lussu, Petrarca che avevo sul comodino e mi ci precipito.

Appassionante, comincio subito. Delle influencer, tra l’altro, vediamo che è questa distinzione di genere che fa il mio faro. Ma nel frattempo mi chiedo non è che mi sarò perso qualche suo libro? Non è che mi son distratto? Così dò un’occhiata alle sue ultime pubblicazioni, 2022 e 2021, da quando pubblica con Piemme. Ecco:

Sarà che un indizio non fa nulla, due nemmeno, ma tre signori della corte è evidente. L’elemento della ‘Я’ vannacciana al contrario è proprio distintivo e non solo: è anche nella stessa identica posizione nelle tre copertine e, non bastasse, è la penultima lettera di una parola da sei lettere. Ahah, il grafico di Piemme o è un grandissimo scansafatiche o è cirillico o è un vero genio.

A questo punto, con la collaborazione del gentile signor E., mi sento di suggerire alcuni elementi per i prossimi libri: nostЯo, vostЯo, destЯo, mastЯo, rostЯo, feltЯo, filtЯo, peltЯo. E fino al 2032 siamo a posto.

minidiario di navigazione di un grande fiume: appendice

Finito il minidiario mi è ovviamente scoppiata dentro l’egittomania, la nilomania, l’akhenatonmania. Come sempre, per quello l’avverbio, sarà che vivo di entusiasmi e passioni e, dunque, ora sono avido di letture.
Perché non farne condivisione, mi dico, come con tutto ciò che faccio? Anche solo per non tenermi il lavoro per me solo, avanti, dunque.

Il numero monografico di Meridiani sul Nilo dello scorso dicembre, per cominciare. Più strutturato, il saggione Nilo. L’Egitto antico raccontato dal suo grande fiume di Toby Wilkinson, egittologo e docente di Cambridge, lo sto leggendo ora con piacere. Sempre suo, l’importante L’antico Egitto. Storia di un impero millenario e segnalo infine il classico La civiltà egizia di Alan Gardiner. Molto interessante il resoconto di viaggio di Emilia B. Edwards Mille miglia sul Nilo, che nel 1873 trascorse quattro mesi in barca lungo il Nilo per poi contribuire significativamente allo studio dell’antico Egitto. Non ristampato di recente, chi può ripieghi sulla versione inglese A Thousand Miles Up the Nile.

Romanzi, anche se non sono molto ferrato. Molto Nagib Mahfuz, a partire dal La trilogia del Cairo e Il nostro quartiere. In ordine sparso, poi, Incontro in Egitto di Penelope Lively; Denise Pardo, La casa sul Nilo; La verità perduta, romanzo di Bruno Tacconi che ha come protagonista la rivoluzione di Akhenaton; Sono corso verso il Nilo di ‘Ala Al-Aswani, sui giorni di piazza Tahrir.

E il grande Belzoni? Eccolo: Marco Zatterin, Il gigante del Nilo. Storia e avventure del Grande Belzoni e Gaia Servadio, L’italiano più famoso del mondo. Vita e avventure di Giovanni Battista Belzoni anche se a dire il vero il secondo è noiosetto.

Venendo a cose più serie, fondamentali i contributi di Edda Bresciani, direttrice del museo egizio di Torino e grande egittologa: il meraviglioso Letteratura e poesia dell’antico Egitto, raccolta di testi originali pure in economica ora, e Testi religiosi dell’antico Egitto, di grande rilevanza e in cui consiglio l’Inno al Sole di Akhenaton. Dello stesso argomento, i testi raccolti da Sergio Donadoni per UTET, Testi religiosi egizi. Sempre di Bresciani, ma qui si va sul ricercato, Arte medica e cosmetica alla corte dei Faraoni con Mario Del Tacca e soprattutto, attenzione: elementari, Nozioni elementari di grammatica demotica. Affascinante La porta dei sogni. Interpreti e sognatori nell’Egitto antico. Anche la raccolta di antichi testi egizi di Wilkinson è da segnalare, Writings from Ancient Egypt, non credo sia tradotto, c’è l’edizione Penguin.

Ancora di Wilkinson, direi Il mondo di Tutankhamon. L’antico Egitto in 100 oggetti, anche se Tutankhamon è uno specchietto per le allodole occidentali. A fianco di esso, il buon saggio La vita quotidiana degli Egizi e dei loro dèi di Dimitri Meeks, Christine Favard-Meeks e La vita quotidiana in Egitto ai tempi di Ramses di Pierre Montet. Un buon saggio relativamente aggiornato sull’Egitto contemporaneo è invece Egitto. Democrazia militare di Giuseppe Acconcia, corrispondente per «Al Ahram», «The Independent», «il Manifesto».

Tra la saggistica di peso, di grande interesse Un solo Dio e molti dèi. Monoteismo e politeismo nell’antico Egitto e La morte come tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto di Jan Assmann; il poderoso The Dawn Of Conscience di James Henry Breasted, scaricabile liberamente da qui; Il pensiero dell’Egitto antico di Jean Fallot, la rappresentazione egizia della vita e della morte, restituita alla propria dimensione non concettuale. Niente male, no?


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minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: sette, un’alba su mille, templi dei morti e templi dei vivi, camminare sulla via dei re, vivere come una volta solo i signori

Un tempio funerario bellissimo, moderno, anche questo razionalista se non venisse da ridere, clamoroso. Colpisce del tutto la nostra immaginazione contemporanea, è pronto per ospitare la nostra attuale fantascienza – da Stargate a Star Wars è quasi tutta egizia -, incastonato in una quinta naturale di rocce dello stesso colore che aspettano solo di cambiarlo a seconda della luce del sole. È il tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari, XVI secolo avanti cristo, seconda donna a essere sovrana riconosciuta dell’Egitto. Pensavate di conoscere la funzione e la natura del superlativo? Ebbene no, il luogo è noto come Djeser-Djeseru che, tradotto, sarebbe una cosa tipo: la sublime sublimità. Come andare oltre? Come fare meglio?

Arriviamo alle sei del mattino, il sole sta sorgendo alle nostre spalle – ovvio, siamo sulla riva dei morti – e in pochi minuti tutto cambia e si tinge di arancione e giallo, non c’è anima viva, siamo arrivati addirittura prima dei venditori di scarabei. La fotografia senza figure umane è una rarità senza ritocco. Ma non basta: tra noi e il sole si alzano decine di mongolfiere, è un momento commovente per tanta bellezza, non posso non postare una foto, non parrebbe vero.

Ma tutto questo entusiasmo ed ebbrezza di colori non possono essere sereni, in questo tempio sono successe cose tremende non molti anni fa, non posso non pensare al terrore di chi, inseguito, non ha trovato luogo in cui nascondersi.
Nemmeno una targa, un pensiero, qualcosa. Non sia mai che si turbi la tranquillità dei turisti, se non per vendere loro qualcosa. Alle otto siamo già da un’altra parte ma il pensiero non mi abbandona. Vedo finalmente i colossi di Memnone (Mèmnone, non Memnòne, come ho sempre detto io), noti in antichità perché uno dei due, danneggiato da un terremoto e fratturato, emetteva da una larga fessura un suono come di bronzo percosso, causato forse dal riscaldamento della roccia. La fantasia dei viaggiatori antichi greci e romani descrisse il suono come il saluto dell’eroe alla madre Eos, dea dell’aurora. Che bellezza, così la descrive Filostrato nella sua Vita di Apollonio di Tiana. Poi arrivò Settimio Severo, a Egitto ormai provincia romana, la fece restaurare e saluti al suono all’aurora del colosso.

Tornando al di qua del fiume, cioè tra i vivi, l’Egitto antico prorompe con l’enorme complesso di Karnak, ovvero quattro enormi templi e una pletora infinita di edifici che coprono oltre trecentomila metri quadri e circa i duemila anni in cui la Tebe egizia fu il centro di governo del paese. Un esempio calzante che mi è venuto in mente è quello dei fori romani: ogni nuovo regnante aggiungeva un foro, una cosetta qui, una cosina là. Addossando, spostando, integrando, così che poi diventi pressoché impossibile distinguere certe fasi successive. Esattamente come i fori, fino alla fine del secolo scorso tutto il complesso era interrato e inesplorato da millenni, poco comprensibile e terreno di pascolo, di superfetazioni abitative, di città che sono cresciute sopra le altre pietre, facendone fondamenta.

Gli stessi viaggiatori, in ogni epoca, hanno lasciato le loro tracce, nomi, scritte, date, motti, pensieri. Non si arrampicarono, non tutti almeno, scrissero – anzi, incisero – là dove il terreno rendeva la cosa comoda. Persino le incisioni degli studiosi della spedizione napoleonica sono perfettamente visibili, non si gridi allo scempio al turista al Colosseo, passato il giusto tempo diventano anch’esse testimonianze storiche. Certo, con moderazione.
Da Karnak si srotola per quasi tre chilometri la via reale, bordata di sfingi ogni tre metri a destra e a sinistra – ecco perché ve ne sono in ogni museo del mondo – che porta al tempio di Luxor. Illuminata la sera, è la fotografia su qualsiasi depliant turistico. La percorro a piedi da solo, mi immagino una processione nella festa di Opet, in cui le statue delle divinità Amon, Mut e Khonsu venivano poste a bordo di una barca sacra e portate in spalla dai sacerdoti da Karnak a Luxor. Inutile dire quanto le barche per le processioni e la rappresentazione del tempio in esse contenuto assomiglino, anche qui, all’arca dell’alleanza. Incontro a metà un bel branco di cani randagi, una decina. Sono dappertutto in Egitto, meglio lasciar stare quando ci sono femmine con i cuccioli, in generale non costituiscono un pericolo. Però, insomma, va’ a sapere, faccio i conti di dove potrei darmela a gambe, poi faccio l’indifferente e loro pure. Percorro il viale da solo, è un bel momento, ho aspettato al tramonto, verso la fine incontro M., compagna di barca, che fa la stessa cosa, buongustaia.

Compiuto il mio dovere, contemplata e percorsa la via, sei templi in giornata e alla fine del viaggio, a questo punto l’unica cosa giusta da fare è fare il turista coloniale, andare al Winter Palace, grandioso albergo inglese del periodo d’oro, appena appena fané, recarmi al bar biblioteca, sprofondarmi in una poltrona e in compagnia del nonno di Kissinger, del padre di Livingstone-I-suppose, di Al-Gore, di Agatha Christie che scrive il suo Poirot sul Nilo e di altri improbabili occupanti disimpegnarmi in un three-flight – tre assaggi di vini bianchi egiziani, pure gradevoloni – e in fantasie d’altri tempi che, ne sono certo, resteranno nella mia pur fallace ma tanto contenta memoria.


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minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: sei, cose egiziane, prezzi, carni, pistole e sorpassi

Un euro, trentatre lire egiziane. Un caffè cento lire, tre euro, se ne prendi due otto. Cambio variabile e come sempre nei paesi – so che pare brutto dirlo ma così è – del terzo mondo vigono prezzi per gli indigeni e prezzi per gli stranieri. Il pagamento in euro è sempre apprezzato, specie appunto al tasso di cambio variabile dell’angolo della strada e ancor più apprezzato il cambio tra euro in monete ed euro in carta, non cambiandoli le banche. Le mance poi sono un’altra variabile senza regole precise, nei templi ci sono figure inofficiali che indicano cose notevoli o segnalano le photo opportunities, oppure sono vestite con turbanti e le costituiscono essi stessi, o ti porgono la carta igienica nei bagni o schiacciano il distributore di sapone al tuo posto, insomma che vuoi fare? Non dare? Ovvio che regni la sproporzione, a volte ho cinquanta lire a volte cinque euro, senza senso.

In viaggio verso nord per vedere due luoghi, Abydos e il tempio di Seti I e il complesso di Dendera con il tempio di Hathor. Il primo è un tempio in stile del tutto razionalista tremilacinquecento anni prima del razionalismo e probabilmente quello con la più alta qualità artistica di tutto il circondario, il secondo uno dei templi meglio conservati con alcune rappresentazioni significative dello zodiaco e del cielo e una delle sacrestie – eh già – più belle. Di fatto, è sempre un’occasione per vedere pezzi di paese che è, davvero e senza incertezze, un paese molto povero. Se un affitto al Cairo può variare tra trenta e tremila euro al mese, c’è di tutto, le giovani coppie con qualche possibilità scelgono case nelle città nuove nel deserto, che costano meno. Chi vive fuori dalle città, se è fortunato vive nella striscia irrigata dal Nilo e, quindi, ha cibo e possibilità, se lo è meno allora vive lungo qualche canale derivato, non sempre dotato d’acqua, in piccoli villaggi con case di cemento armato interrotte al primo piano, case di mattoni secchi o baracche di fango essiccato misto a paglia. Rifiuti. I ragazzini salutano sempre, ricambiano e sorridono, invece di tirarci un sasso in testa come dovrebbero, e hanno l’aria di non aver mai visto una scuola, nonostante ci parlino di periodo di vacanza. Un bel po’ di uomini hanno l’aria di non lavorare affatto.

Nel frattempo, strade, ferrovie, canali, condominii e poi ancora un po’ di strade. Non sempre finite, non sempre in corso, talvolta non si capisce bene se si prosegua o no. Fuori dal Cairo il codice della strada non esiste, i sorpassi sono leciti in ogni direzione e il contromano non è biasimevole. La moto in tre quasi una regola, avessi un’azienda produttrice di caschi non tenterei il mercato egiziano. Calessini per turisti, carretti con gli asini, motorette con cassone a tre ruote ovunque, pickups con uomini seduti dietro che ormai fa tanto Isis nelle nostre testine. Persone amorevoli e persone sfibranti, c’è da dire che l’indifferenza non esiste e io, tutto sommato e nonostante una certa fatica talvolta, lo preferisco. In centro a Luxor, nome moderno occidentale, greca Tebe e saildiavolo il nome in egiziano antico, c’è una magnifica libreria sostenuta da due enormi colonne di granito, chiaramente del tempio, che ha in catalogo l’intera produzione in lingua anglosassone riguardante l’Egitto, dall’introduzione della stampa agli anni Ottanta. Di fianco, il mercato per i turisti, bancarelle straripanti di piramidi di pietra e alabastro, sfingi, Anubi, Tutmosis, scarabei, sciarpe, tuniche, incensi, olii e avanti con tutto l’armamentario. Al mercato loro ci si arriva, costa un quarto, ma pochi osano mangiare frutta o verdura fresca, men che meno carne macellata da poco sul pavimento di un garage o pesce in cassette al sole da un po’. Magari il pesce no ma il resto lo provo, che il dio egiziano delle viscere mi protegga anche stavolta.

Le entrate ai musei, ai templi, alle tombe sono costosissime, parlo di svariate decine di euro, sarà la solita tariffa differenziata per turisti e gruppi, e ogni luogo visitabile ha un metal detector all’entrata che suona invariabilmente ma importa poco e un macchinario per controllare l’interno delle borse che un annoiato militare egiziano guarda a volte distrattamente a volte per nulla. Ce n’è ragione, sia chiaro, probabilmente al di sotto della scimitarra non costituisce titolo di preoccupazione. E poi sembra l’ennesimo provvedimento che tutela a vario titolo i turisti tanto quanto chi ci lavora quanto chi ne ha responsabilità. Durante le visite, ora mi è più chiaro il meccanismo che non avevo colto qualche giorno fa, ci viene immancabilmente appioppato un poliziotto-militare, ovvero una persona apparentemente priva o di competenze specifiche o del fisico adatto, ma sai mai, dotata però di pistolona o fucilone che dovrebbe, condiz., occuparsi della nostra incolumità. Dato però che non vi sono ragioni per temere per essa, di fatto è una protezione di tipo mafioso che il regime impone, bisogna pagare il militare che poi si fa gli affari propri tutto il giorno seguendoci a distanza. Di fatto, è contribuzione diretta al mantenimento di quella pletora di persone armate che oggi costituiscono la forza e la mano armata del regime e un domani contribuiranno a fare la pelle al dittatore, quando avranno un’opzione migliore.


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minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: cinque, chiarimenti sui titoli, cosa c’è ora e cosa ci sarà dopo, come conviene stare al mondo

Di fronte a Luxor, oltre il fiume, si vede una bella montagnotta di roccia color ocra, sta lì bella visibile e si allarga formando varie valli. Ed è lì che i sovrani d’Egitto, consorti, funzionari, notabili, artisti si fecero seppellire, ciascuno nella propria valle di competenza: dei Re, delle Regine, degli Artigiani. Intendiamoci su un paio di cose che ho appena appreso ma che trasmetto come le sapessi da sempre: faraone non è una carica appropriata per la maggior parte della storia egiziana e non è nemmeno espressiva del ruolo, è corretto parlare di sovrani, termine più esteso. Alessandro Magno, per fare un esempio noto, fu sovrano, mica faraone, che è una roba da Elizabeth Taylor e Hollywood. Nella valle dei Re, che anche in questo caso è un nome dato dagli occidentali scriteriati, in realtà si chiama ‘il luogo della verità’ con molto più significato, qui dicevo furono sepolti i sovrani d’Egitto del periodo tebano, che è pure un nome greco piazzato lì. Sovrani, dunque, il che significa uomini e donne che sia. Filippo di Edimburgo, anche qui per capirci, sarebbe finito nella valle delle Regine, cosiddetta anch’essa. E allora affondo: le piramidi, immaginario occidentale per eccellenza sull’Egitto, e parliamo di duemilacinquecento anni prima di cristo, sono una fase relativamente breve in tema di sepolture e governo, sicuramente dispendiosa e senza dubbio piuttosto primitiva. Non appena l’arte del governo evolvette, la pittura, la letteratura, il pensiero si fecero più complessi nell’Egitto antico si preferirono sepolture scavate nelle colline, che già erano piramidi di per sé, privilegiando il racconto, la sontuosità, la manifattura, la capacità tecnica. Le piramidi di Giza dentro hanno ben poco da vedere, quasi nulla sulle pareti, ambienti ridottissimi. La sofisticazione e poesia raggiunte invece nella valle dei Re non ha paragoni.

Egittocose a piene mani, oggi. La sepoltura, per il sovrano come per chiunque altro – è solo una distinzione di qualità – ha la funzione di accompagnare il defunto lungo la fase notturna del giorno, le dodici ore in cui il sole, ingoiato da Nut, divinità della notte, compie il suo viaggio verso la rinascita al mattino dopo. Non è un viaggio facile, il defunto come il sole dovrà attraversare dodici porte difese da sputaveleno e ogni tipo di pericolo, dovrà essere capace di farsele aprire, dovrà meritarlo. Perché, ed ecco uno dei tratti più interessanti di tutta la faccenda, alla morte la dea della giustizia peserà il cuore ovvero l’anima del defunto ed essa dovrà essere più leggera di una piuma, rappresentazione della nobiltà. Attenzione: la misura sarà la giustizia, non la bontà, la carità, la ricchezza o la benevolenza di un dio qualsiasi: la giustizia. Due passaggi incredibili, ancora. In caso positivo, l’anima – posso dirlo, è anch’essa concetto d’invenzione egizia – tornerà in vita e lo farà in un luogo meraviglioso, si vede rappresentato nelle tombe più belle, che non sarà pieno di vergini, di beatitudini eterne o remunerazioni idiote, bensì sarà un luogo come quello vissuto durante la vita: il Nilo, il sole, le palme, i datteri, le barche, la compagnia. Detto niente? Perdio, il paradiso è qui e ora, è questa vita qua, va preservato e rispettato come tale, è la massima aspirazione. Secondo, se l’anima peserà più della piuma, ocio, bon: si sparisce. Via, puf, nulla, adios, la cosa più paurosa. Non hai vissuto secondo giustizia? Fuori dalle balle. Sottoscrivo, ho alcuni nomi che vorrei suggerire. Io invece in paradiso ci andrò con questa moto:

Le divinità rappresentate nella sepoltura non solo hanno il compito di accompagnare il defunto durante il periglioso viaggio notturno ma, ed è qui che è commovente, di confortarlo e rassicurarlo, avvolgendolo con le ali e con protezione materna. Anche se sei sovrano dell’universo puoi avere paura. È una teologia piena di umanità e compassionevole. Non c’è gente torturata o piagata o dolente o crocifissa, butto lì.

Il luogo della verità è una valle dominata da una montagna piramidale bella giallona all’apparenza come tante altre. Ora noi sappiamo che qua e là secondo disposizioni e criteri del tutto variabili sono sepolti sessantatre sovrani d’Egitto, per quanto ne sappiamo finora. Le tombe venivano scavate, arredate e corredate, dipinte, scolpite, poi occupate dal committente, sigillate, richiuse e ricoperte e, infine, depredate dagli stessi operai che vi avevano lavorato che ne conoscevano l’ubicazione. E molto molto dopo visitate da milioni di turisti sudati. Sic transit. La più gettonata di tutte è quella di Tutankhamon che come sovrano valse poco, nove anni da ragazzino, e come tomba pure. Potere del marketing, maledizione compresa. Io parteggio per il compagno Akhenaton che fece guerra al potere della classe dei sacerdoti, purtroppo precipitando il paese nel caos, devo dire però che le tombe dei Ramsete, secondo, quarto, quinto, forse sesto, faccio confusione, sono largamente le migliori. Tra le regine, le cui tombe sono certamente meno sontuose e articolate, sicuramente la migliore per qualità e soggetti delle rappresentazioni è quella di Nefertari. Personaggio tra l’altro talmente rilevante, moglie di Ramses II, da meritare templi e rappresentazioni in vita ma non al punto da sfuggire alla dura legge delle sepolture in queste valli: dentro con le regine trascurabili e di poco conto. Passavano anni e secoli tra le sepolture reali e non era raro che scavando una nuova tomba si incappasse in un’altra, dimenticata. Nel caso visibile, si fece un angolo retto, un altro e si proseguì col progetto. Tra l’altro, sulla nuova parete in più extra-progetto è possibile oggi vedere una delle più belle pitture di tutta la valle. Vedi il caso?

Bene, credo di aver detto molte cose, alcune probabilmente a vanvera. Basta così. Ora vado in un posto fichissimo ad appesantirmi un pochetto l’anima. C’è stato anche, tra i tanti, Al Gore, scritto così: Al-Gore, all’araba, che ridere. Ma carico poco, resto comunque sotto la piuma.


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minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: quattro, verdure, sciarpe di lana di dromedario, canti liturgici, trasgressioni in cantina

Dev’essere una roba da tropico: alba alle sei, tramonto alle sei. Almeno è facile. La striscia attorno al fiume, cioè quella verde ricoperta di palme, banani e soprattutto manghi, è davvero sottile. A meno di anse, sono alcuni metri, poi deserto. Spesso deserto montagnoso, lo spazio fertile e utile è davvero poco. Da sempre, la riva abitata del Nilo è quella orientale, la riva dei vivi, quella di là era lasciata ai morti; oggi non è più così ma la collocazione dei templi e delle tombe è evidente.

La differenza di reddito e di potere d’acquisto tra noi turisti e la gran parte degli egiziani è tale che, come in molti paesi africani e in particolare i più turistici del nordafrica, inseguire a bordo di una barchetta la nostra barca e anche le navi molto più grandi, tirare a bordo tovaglie e coperte di lana di dromedario, diciamo, e poi negoziare il prezzo da una barca all’altra per tre o quattro euro evidentemente ne vale davvero la pena.

Il cotone egiziano è una fantasia, almeno oggi. Io che non riesco a non sorridere alle persone che mi chiamano vengo regolarmente assalito dai venditori, succedeva anche in Cina come in Marocco. Stamane poi mi hanno assunto come venditore a bordo nei confronti dei miei compagni di barca, mentre l’egiziano in barca sotto mi gridava di insistere e i prezzi da proporre, continuando a lanciarmi tovaglie, sciarpe e tappeti. Mi ha offerto pure una commissione su ogni vendita, mi veniva da ridere. Credo mi abbia anche sgridato, a un certo punto. A girare in gruppo, si viene assaliti, a girare da soli o in due, generalmente no. L’insistenza è tipica da qui a Istanbul a Marrakech e ricevere un pagamento in euro, comprensibilmente, molto apprezzato. Alcuni chiedono il cambio di monete in euro in carta o carta su carta per lo stesso valore ma non ho afferrato lo scopo, ancora. Amichevoli e sorridenti, sono sempre a mio agio anche se immagino vi sia una regola inderogabile: nulla può accadere a un turista, pena la morte o quasi, vivendo il paese di questo. In alcuni momenti veniamo affiancati da un militare con fucile allo scopo, mi spiegano, di tenere a bada i venditori e i seccatori, non perché vi sia pericolo reale. Io mi sento più inquieto per lui che per loro ma non lo dico. Difficile fare domande o esprimere opinioni in dittatura, non si sa mai con chi si stia parlando, vedi Regeni o Zaki, per stare ai casi a noi noti.

A Edfu un tempio impressionante per l’integrità della struttura e a Esna uno che conserva le pitture con i colori originali grazie a una supermuffa che li ha ricoperti e preservati e che ora si toglie come una ceretta. Sovrapponendo le visite, si riesce ancora ad avere un’idea piuttosto precisa di ciò che erano i templi egizi, millennio più o meno. In barca proseguiamo la navigazione e puntiamo su Luxor e Karnak e se lo dicessi con il nome antico sarebbe ancora più emozionante: Tebe. La leggendaria e splendida Tebe, fin da Omero. La cosa buffa è la posizione relativa: per me Omero è un termine post quem, ovvero una delle figure più remote io possa citare in quella che considero la mia cultura in senso stretto e quando Omero citava Tebe essa aveva toccato il suo culmine cinquecento anni prima ed era bell’e che tramontata, colpevole Assurbanipal, nel 663 avanti cristo. Figuriamoci.

Alle cinque, mattina o sera, e per altre tre volte partono i lagni dei muezzin. Per carità, non voglio essere irrispettoso (sì lo voglio) ma a orecchio ineducato (invece capisco benissimo) parrebbe una lamentazione (lo è) invece che una litania (che canbia?). La tecnologia non aiuta, nel senso che gli altoparlanti rompono le storie a grande distanza e non contenti sono molti i fedeli che hanno la sveglia del telefono puntata alle ore canoniche e come suoneria parte la preghiera (lagna). Naturalmente viene lasciata suonare per tutta la durata e spesso, siccome il fedele sta facendo altro, interpreta l’ascolto come preghiera sufficiente. Eh, bravo, così ho pregato anch’io e tutti gli altri nel raggio di abbastanza. Però cibo ottimo, fave, zucchine, melanzane anche bianche e molto piccole, pomodori, cipollotti, spinaci, legumi vari, felafel, pasta filo, marmellate, spezzatini, riso, tutto ottimo e con spezie moderate e gentili. Ci vado a gran nozze.

Mentre cammino per le strade di Luxor o Edfu dei giovani uomini mi fanno cenno, a volte con una lattina di birra in mano, di entrare in un garage o ripostiglio o casa buia per bere degli alcolici segretamente. Non sono mai molesti, nessuno qui lo è mai, al massimo insistenti nel tentativo di vendere qualcosa perché la differenza di capacità economica è troppo ampia. Comunque, mi vien da ridere, hanno l’aria di adolescenti che ti offrono il primo sorsone di Glen Grant dal mobile bar di famiglia, ovviamente ci salutiamo e a posto così, grazie. La cosa è ragionevolmente tollerata, altro discorso per le droghe o le opinioni politiche un po’ troppo esposte, stare in campana. Il resto sono larghe zone di città in cui si cammina tranquillamente oppure mercati in cui solitamente si viene assaliti da venditori, come spesso accade in nordafrica, senza la rinomata delicatezza dei venditori iraniani. La cosa davvero buffa è sempre la contrattazione, non è raro che una cosa parta da settecento, per dire, e si venda a cinquanta. Che è già non poco, due volte su tre fanno tutto loro. Ma d’altronde, per quanto mi riguarda, è una specie di piccola pratica di redistribuzione.


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