il 2023, l’anno del ritorno al cinema

Del mio ritorno, mio. Nel senso che era parecchio che non ci andavo e nel 2023, la seconda parte specialmente, ci sono andato abbastanza spesso: mica perché mi sia venuto il ghiribizzo, bensì perché è stato un anno di grande cinema, ne sono usciti di davvero belli. Fedele alle mie funzioni di servizio, ecco qua alcuni titoli scelti tra quelli che ho visto io, qualcuno:

‘Io capitano’ di Matteo Garrone: per me il film dell’anno. Ne ho detto qui, curiosamente adesso ne è uscita la versione in dvd ed è tutto doppiato in italiano, a differenza del cinema. Scelta curiosa, perché due immigrati mahaliani che sognano l’Italia che parlano già un ottimo italiano forse non è una cosa del tutto buona per la comprensione, i sottotitoli andavano benissimo.

‘C’è ancora domani’ di Paola Cortellesi: che dire di altro? Finale corale splendido, qualche obiezione, cose riuscite, eccezionale Mastandrea che è l’unico che non ha momenti da commedia e di riposo, speriamo il dibattito non ricada tutto sulle spalle di questo film ma ne vengano molti altri sul tema.

‘Oppenheimer’ di Christopher Nolan: l’abbiamo probabilmente visto quasi tutti, comunque tre ore di biografia tosta e di una storia che non è il progetto Manhattan, bello con la bomba, bensì il maccartismo e una verbosa vicenda a noi del tutto oscura che ti tengono lì è un grande risultato ed è merito del regista.

‘The Old Oak’ di Ken Loach: film strepitoso su immigrazione e integrazione, non quella teorica, quella che ti entra in casa per davvero. Ne ho detto qui. Se Loach a novant’anni fa film così, la prego signore, prosegua.

‘Il sol dell’avvenire’ di Nanni Moretti: il film con cui ho inaugurato la stagione, riassunto e sintesi della sua filmografia, un bel film con dentro un altro bel film con attorno una vita. Ne ho detto qualcosina qui.

‘Killers of the flower moon’ di Martin Scorsese: nonostante l’ambientazione, è un classico film di gangsters di Scorsese. Pare che Di Caprio abbia rotto le palle a tutti sul set e De Niro e Scorsese non sono esattamente due con cui farlo, vedremo il prossimo cast. Tre ore ma si sta lì belli seduti a guardare.

‘La chimera’ di Alice Rohrwacher: l’ho detto, un film meraviglioso, poetico, commovente e insieme disperato con un’umanità fatta di bestioline che scavano e mangiano e distruggono tutto con una storia d’amore da Orfeo ed Euridice e un sacco di altre cose.

Film del 2023 ma meno meno ma comunque: ‘Grazie ragazzi’ di Riccardo Milani, ‘Mixed By Erry’ di Sydney Sibilia, ‘Enzo Jannacci – Vengo anch’io’ di Giorgio Verdelli.

Film del 2023 che non ho visto ma su cui scommetto qualcosa: ‘Rapito’ di Marco Bellocchio, ‘Cento Domeniche’ di Antonio Albanese, ‘Mon Crime – La colpevole sono io’ di François Ozon, ‘Palazzina Laf’ di Michele Riondino, ‘Lubo’ di Giorgio Diritti, ‘Enea’ di Pietro Castellitto, ‘Mur’ di Kasia Smutniak.
Ecco, ho fatto anch’io il mio riepilogo in fine d’anno come i critici veri. Ma i miei, eheh, non sono duemila e sono belli per davvero.

la più interessante regista italiana

Non so se sia un bel film, a me è piaciuto molto.

La chimera, di Alice Rohrwacher, storia poetica, allegra e malinconica, di un gruppo di tombaroli in Tuscia negli anni Settanta e di un’umanità, noi, che scava buche, mastica e trafuga tutto, non ha passato se non per qualcuno, e che sa, solo alcuni però, prendersi una cura amorevole e sgangherata delle persone. Fin dal trailer durante Oppenheimer l’avevo puntato, ce l’ho fatta: film meraviglioso. Poche sale, solito paese del cavolo.

un logo, quasi

Il Monviso è la montagna ideale disegnata da un bambino, la luna è comunque la luna, Superga è una signora basilica in posizione invidiabile, Valerio Minato è un grande fotografo.

Trova la posizione, che è comunque una e una sola, l’allineamento, la stagione, la sera serena, l’ora giusta, il fuoco, il tempo e il diaframma e, come è successo a lui, passano sei anni. Un miracolo di convinzione e bravura, oltre alla foto. Assurdo che gli rompano le palle in rete e uno debba premunirsi facendosi un video per dimostrare che la foto l’ha scattata per davvero. Dalla totale credulità alla totale incredulità, tempi attuali, ma almeno non si perdano gentilezza e rispetto, su.

un’ora sola ti vorrei

Passa un’ora tra la conferma ufficiale della nuova opera di Banksy a Peckham, tra Southampton Way e Commercial Way, che qualcuno zompa su, svita e se la porta via.

Ma di questi tempi è difficile farlo senza che qualcuno riprenda (c’è) o fotografi (ecco):

Passa poco e già in molti si divertono:

Un milione compra subito, affarone.
Nel frattempo, Scotland Yard non sta con le mani in mano, prima arresta uno e poi un altro. Chissà che reato è, se lo è a monte anche quello dell’artista, il bello della street art. Vediamo che succede ora.

la testa dura come quella di un, le gambe forti come quelle di un, il corno robusto come quello di un, tutto insieme nell’animale più forte di tutti

Agli albori della paleontologia, agli albori dell’idea stessa che sulla terra avessero camminato creature preistoriche poi scomparse prima dell’uomo, agli albori stessi delle scienze naturali in senso moderno, a Magdeburgo nel 1663 venne ritrovata una caverna ricolma di resti ossei di animali sconosciuti. Consultato a tal proposito, il naturalista Otto von Guericke fece quella che ancora oggi è la ricostruzione paleontologica più attendibile dell’Unicorno di Magdeburgo.

Ineccepibile. Quando sono triste, io penso all’Unicorno, lo immagino correre leggiadro e possente al tempo stesso e mi torna il buonumore. Ecco un’accurata ricostruzione contemporanea dell’animale con carni e pelle e pelo.

Poiché nel 1663 nemmeno il rinoceronte era ancora stato descritto nella letteratura scientifica, perché il cranio dell’Unicorno proprio quello è, fu difficile per gli scienziati del tempo sbrogliare la matassa. Oggi no, secondo Thijs van Kolfschoten dell’Università di Leida si tratta dell’insieme di un cranio di rinoceronte, appunto, delle gambe di un mammut primigenio e del corno di un narvalo. L’eccezionalità, e il mistero ancora da svelare, è che tali resti si trovassero nello stesso posto, escludendo che un rinoceronte e un mammut scorrazzassero per il mare a cavallo di un enorme narvalo.
Il Museum für Naturkunde di Magdeburg, come è giusto, non solo tiene viva la storia, ha anche ricostruito un modello dell’Unicorno a grandezza naturale – la prima foto – e ne fa, giustamente, anche bandiera e souvenir.

Che la via della scienza sia irta di ostacoli, false vie, vicoli ciechi e direzioni errate è un fatto noto ai più, che vi siano trappole così sostanziose forse lo sospettiamo meno, chissà quali unicorni sono oggi esposti nei nostri musei cui i nostri posteri guarderanno con lo stesso sguardo con cui io oggi guardo a Magdeburgo. Chissà. Nel frattempo corri, Unicorno, corri libero e bello e aggraziato e leggiadro. Corri.

a fitting – albeit somewhat sentimental – finale to a remarkable career?

Speriamo di no, “The Old Oak” di Loach è molto bello.

Direi come tutto Loach ma non sono così ferrato. I primi trenta secondi sono folgoranti, il racconto per fotografie che poi prosegue nella seconda sala del pub, la speranza persa e poi ritrovata e poi di nuovo persa e riguadagnata, le giuste piccole miserie delle nostre vite che ci fanno accogliere, o meno, chi ci sta attorno, due protagonisti notevoli, proprio un bel film sull’integrazione, l’immigrazione e la vita di tutti i giorni. Era molto facile scivolare ovunque e, invece, Loach non lo fa mai, un film convincente e coinvolgente, girato peraltro come se si entrasse in una casa e si vedesse svolgere una storia, non come fosse raccontata in un film. Eccessivi come sempre i Cahiers du Cinéma, vabbè, dopo “Io, capitano”, “C’è ancora domani”, “Killers of the flower moon”, Loach appunto, questa è davvero una magnifica stagione di cinema. E manca ancora Rohrwacher.

Pogues dilemma

Meglio questo?

O questo?

Accidenti, Shane MacGowan. Secondo e terzo disco dei Pogues, rispettivamente 1985 e 1988, furono doppietta fenomenale. Se il primo era completamente immerso nelle atmosfere del folk irlandese, il secondo allargava un poco gli orizzonti e contribuì, infatti, al successo più diffuso della band – Fairytale of New York con Kirsty MacColl francamente scassò anche parecchio -, pur perdendo la bassista Cait O’Riordan e dando la possibilità ad altri che non fossero MacGowan, Finer, Chevron, Woods, di scrivere qualche pezzo. I testi, i testi. Di sicuro, un periodo caratterizzato dalla grazia e dal tocco magico, non ne sbagliavano una. Come Sinéad O’Connor nei primi due dischi, i Dire Straits in tutta la carriera tranne l’ultimo o Marco Paolini tra Il Vajont e Ustica, ma è un altro discorso e sarebbe lungo.
Questi due dischi contribuirono alla fascinazione collettiva e personale per l’Irlanda, culturalmente di grande successo negli anni Ottanta e poi divisa che non si sapeva mai se dire Derry o Londonderry – la prima, ovvio, mica siamo filo-oppressori – e le bombe dell’IRA esplodevano dappertutto. E fu inevitabile andare e girarla un po’ su e giù fischiettando Chieftains, Clannad, Dubliners, Boomtown Rats, Van Morrison, Cranberries, U2 e tutta quella splendida musica che veniva da là allora.
Quando i Pogues cacciarono MacGowan per un evidente problema con l’alcool – ce l’avevano tutti nella band e anche nel paese, direi, era solo un problema di quantità inaudita e di incapacità a svolgere un lavoro -, lui disse solo: «Perché ci avete messo tanto?». Eh beh, è questo che vale.

lo stadio di tutti gli Ateniesi

Lo stadio Panathinaiko, stádion Panathēnaikón, “stadio di tutti gli Ateniesi”, fu costruito nel sesto secolo prima di Cristo, ampliato e ricoperto di marmo del monte Pentelico da Licurgo nel 329 a.c. e ampliato da Erode Attico nel 140 d.c. fino a raggiungere cinquantamila posti. Fu lo stadio degli antichissimi Giochi panatenaici e poi dello sport ateniese.
Come molte cose, venne poi abbandonato e dimenticato.

Venne riscoperto e scavato nel 1875 per le olimpiadi di Zappas, protolimpiadi moderne, e poi riammodernato di nuovo nel 1895 per le prime olimpiadi moderne.

Oggi può contenere ottantamila persone ed è stato utilizzato ovviamente per le olimpiadi del 2004, è il punto di arrivo della maratona di Atene e in occasione di ogni olimpiade è da lì che parte il tedoforo.

Beh, come minimo duemilaseicento anni di storia per lo stadio di tutti gli Ateniesi, trovo la cosa piuttosto emozionante. Ci farei volentieri un giro di pista, come a Olimpia.