con gioia e allegria

Caro C., tutto il resto è una cosa tra te e me. Ma siccome non ti dispiaceva fare qualche giro da queste parti, specie per i miei minidiari, e commentare le mie cose con affetto e partecipazione, mi viene naturale dirne qualcosa qui. Bell’affronto, eh, i Dream theater che ti vengono sotto casa dopo tanti giri per inseguirli, vero? Ma saranno ben vigliacchi. Beh, quella sera a Villafranca d’estate comunque era stata proprio una meraviglia, quindi bene così. E che ridere la dormita al circo Massimo mentre Waters sproloquiava a non finire, belli scomodi per terra. Che belle cose abbiamo fatto, che fortuna. Ogni volta in cui sarò in giro per un concerto ci sarà sempre un bicchiere levato alla tua salute. Il pensiero no, quello è costante, ovvio che sarà anche lì. E i minidiari che devo ancora scrivere saranno un po’ dedicati anche a te, come se mi leggessi e se ti venisse in mente qualche spunto di cui poi avremmo parlato o di cui avresti scritto. Non solo a te perché, lo sai, c’è anche F. che segue. Oh, comunque c’è Satriani ad aprile, finalmente dopo tutti i rinvii, che dobbiamo ancora vedere. Ma ci vediamo prima, tante volte. E in qualche modo ci parleremo, come abbiamo fatto sempre. Non andare via.

I am yours, you are mine, you are what you are

Ragazzino, ero in un camper negli anni Ottanta, su una strada assolata come sempre accadeva nelle nostre lunghe estati girovaghe. Ero seduto davanti, allora si poteva, e si passava il tempo giocando, cantando, ridendo, commentando ciò che la strada offriva. E poi, se c’era l’autoradio o magari un mangianastri portatile, si ascoltava qualche cassetta o radio occasionale. In quel giorno d’estate, il nostro amico E. prima mi parlò di un gruppo, accennò un ritornello, “doo-doo-doo-da-doo”, e poi mi raccontò la canzone perché non avevamo l’autoradio. La cantammo a lungo, a pezzi, quel che sapevo l’avevo imparato lì. Una volta a casa, poi, parecchio dopo, mi prestò il disco e io mi innamorai. Era la mia musica, non che capissi granché, ma lo spirito positivo che percepivo, l’ottimismo e l’entusiasmo per le persone, le relazioni, il mondo, l’atteggiamento giocoso anche nei confronti delle cose serie e dolorose, la consapevolezza, quella tristezza produttiva e quella malinconia sottile che permettono la comprensione della vita, le melodie cantate con piacere, lo stare insieme, la politica attiva e le prese di posizione, quello volevo fosse il mio mondo.
E così è stato.

Era Suite: Judy Blue Eyes di Crosby, Stills and Nash con quel cantato alla fine tutti insieme e io bam! conquistato per sempre. Poi arrivarono Marrakesh Express, altra folgorazione, Teach Your Children, The Lee Shore, Carry On, Right Between the Eyes, Love the One You’re With, Southern Cross, Cathedral, Guinnevere, Wooden Ships, Lady of the Islands, You don’t have to cry e potrei andare avanti parecchio, fino alla mia preferita di sempre: Helplessly Hoping. Da lì si spalancarono mondi, gli stessi Stills e Crosby, anche Nash, dai, con Our house, i Buffalo Springfield, Neil Young, la west coast, i Jefferson Airplane, Cat Stevens con lo stesso spirito positivo, e così via. Una vita, la loro, la mia, la nostra. Che meraviglia.

Ieri David Crosby se n’è andato verso una costa ancor più lontana, la sua croce del sud, spero piena di quel sole, di quella musica e di quell’impegno che tanto gli piacevano, e sì, anche di tutto ciò che faceva stare insieme le persone a parlare, cantare, volersi bene, aspirare alla giustizia sociale. E alla pace.
Sto sentendo ora la sua voce cristallina in Suite: Judy Blue Eyes che emerge dai cori, che meraviglia, ogni volta è una grande compagnia, molte le suggestioni, la mia mente corre fantasiosa ancora adesso. Chiaro, erano Crosby, Stills and Nash, da allora ogni volta che ne ho desiderio metto su un loro disco, oggi accendo spozzifai, l’emozione è forte e la spinta emotiva non diminuisce. Ma Crosby, Stills and Nash io non li ho mai visti – un altro concerto mancato, lo so – e non li conoscevo di persona, ho accolto le loro canzoni e li apprezzo, direi che sono loro riconoscente, senz’altro, ma non troppo di più. Ma chi mi spalancò quel mondo, quelle idee, quel comune sentire di cui parlavo all’inizio, chi mi ha mostrato un’umanità di cui ho sentito subito di voler far parte è stato il nostro amico E., quel giorno e mille altre volte. Ecco, è lui il mio Crosby, Stills and Nash, il mio Crosbystillsandnash, è lui che incarna tutto ciò, ancora oggi. E anche oggi, quando ci siamo scambiati il dispiacere per la scomparsa di David Crosby, sono stato contento di condividere con lui questo comune sentire e di avere dentro di me, da parte mia, tutta la gratitudine per avermi accompagnato in quel pezzo di mondo e di storia, per essere stato ed essere tuttora il mio Crosbystillsandnash.

Gianluca Vialli

Mi è sempre piaciuto, Gianluca Vialli. Fin dai tempi della Sampdoria, lo ricordo eccome, agganciava un lancio da trenta metri andandoselo a prendere, faceva altri quindici metri a sportellate con qualche difensore, poi guadagnava quel mezzo metro in velocità che gli permetteva di sparare in rete, spesso sul primo palo. Poi tutti a dire che il lancio illuminante era di Mancini, per carità, capitava, ma il grosso lo faceva lui. Ricciolo, simpatico, guascone, spesso irresistibile, era il nove di quel gruppone di giovinastri di Vicini, bravi. Alla Juve diventò capitano, più grosso e autorevole, sollevò la coppa per davvero, fece anche cose in acrobazia da ricordarsele. Poi andò in Inghilterra e lo perdemmo di vista, a un certo punto fece anche quella cosa stramba e tutta inglese del giocatore-allenatore. Mi è sempre piaciuto, Gianluca Vialli.
Ma non solo per il fòball. Mi è piaciuto perché quando si è ammalato non ha usato la retorica, idiota, del guerriero e della lotta, e sì che ne aveva anche la formazione, ma ha affrontato la malattia come si deve, con intelligenza, fatica e sofferenza, parlandone come di una compagna di viaggio da cui non ci si riesce a liberare e si può sperare di avere del tempo. La metafora della lotta è sciocca perché non aiuta e comporta moltissimi impliciti che peggiorano la comprensione del problema, Vialli era più intelligente e capace, ha rilasciato alcune interviste di grande saggezza e con approccio realista, consapevole ma mai abbandonato. Mi è sempre piaciuto, Gianluca Vialli. Molto come calciatore ma ancor più come persona.

mi no credevo che un omo podessi far questo

Il portiere non ha ancora fatto in tempo a girare la testa che la palla è di là di oltre un metro e lui, Pelè, dall’altra.

17 giugno 1970, Brasile-Uruguay 3-1, curiosamente Pelè stavolta non segnò.
Non è stato il più grande di tutti solo per il talento calcistico – e lo era comunque, destro, sinistro, testa – ma perché lo era nell’animo, partecipe dell’umanità, consapevole del proprio ruolo e artefice in prima persona della ricaduta positiva delle proprie azioni.

quando la Storia ha una faccia

Oggi è morto Mario Fiorentini, partigiano animatore del GAP di Roma. Fu lui a intuire la possibilità dell’attentato di via Rasella ai danni della colonna di SS, non vi partecipò perché aveva parenti che abitavano in zona ed essere riconosciuto avrebbe compromesso l’intera operazione.

Centotre anni, i conti son fatti: aveva ventiquattro anni, era tra i vecchi di quel gruppo di cui facevano parte anche, per dirne due, Carla Capponi e Rosario Bentivegna. Ora non resta più nessuno in vita, resta la memoria che un Feltri qualsiasi può tentare di insozzare se non stiamo accorti.
Per questo siamo qui, anche oggi.

sé stesso, sé stessi, séstessoséstessi, qual’è in futuro

Luca Serianni, dopo l’incidente di tre giorni fa, se n’è andato.

Che perdita. Non solo per quanto ha fatto, che per fortuna resta, o per quanto stava facendo, sempre di grande qualità vedi il recente lavoro sulla lingua di Dante, ma per i suoi interventi in favore della lingua e dell’uso, come sempre precisi e puntuali, indicativi e mai prescrittivi, soprattutto esatti e diretti nel cuore della questione.
Tutte le volte che mi abbia detto di mettere un accento su una consonante e andare nel deserto a guidare una tribù di Ubangi, io l’ho fatto. Sé stessi, sempre. Grazie, Professore. Grazie di cuore.

quella linea di demarcazione tra Peter Moore e me

Alla fine di aprile è mancato Peter Moore, a lungo direttore creativo di Nike, negli anni Ottanta, e di Adidas negli anni Novanta, entrambi decenni in cui le due aziende si sono lanciate, o rilanciate, notevolmente. Non per caso.
Moore era grafico, influenzato da Jasper Johns e Rauschenberg fin dagli inizi, disegnò le prime Air Jordan e il logo Wings, entrambe di clamoroso successo ma non le sue cose migliori, a parer mio. Fece poi un sacco di cose, ricordo un poster molto divertente in cui Moses Malone, Moses appunto, nella biblica valle dei palloni da basket guidava il suo popolo, bei tempi in cui ci si prendeva anche un po’ in giro. Prese McEnroe e rifiutò Lendl, «he’s a fucking communist», eheh, proprio no, non è che uno può capirle tutte, anche se disegna da dio. Ma la disfida sul campo fu anche questione di marchi, Lendl se lo prese l’Adidas.
Anche Moore passò alla concorrenza, anzi agli arcinemici, nel 1989 e contribuì in modo determinante al rilancio dell’azienda, ridisegnandone tra l’altro il logo, creando il Mountain che ancora ben resiste.

Chi si diletti o abbia a che fare con le questioni di grafica, ben sa quanto i dettagli facciano la differenza, quanto optare per una soluzione o un’altra renda un progetto valido e duraturo o, al contrario, una boiata pazzesca. Per fare un esempio pratico, io il logo Adidas Mountain di Moore, per mio modo ed esperienza, l’avrei chiuso nella parte superiore in modo diverso, ovvero portandolo alla forma triangolare e inclinando le rette superiori seguendo una linea non tracciata, quella in rosso.

Ed ecco la differenza tra un logo magnifico, il suo, e una schifezza colossale, la mia. Un dettaglio, piccolo ed enorme, che traccia la distanza tra lui e me. O, peggio, li avrei fatti tutti della stessa altezza, inguardabili. Maledetto Moore, hai vinto anche stavolta.
Fece molte altre cose, come i grandi grafici si disegnava i biglietti d’auguri per natale, dipingeva, «There’s a big difference between graphic design and painting. As a graphic designer, you solve your client’s problems. As a painter, communication is personal. The problems to solve are your own», chiaro. Il tocco era inconfondibile anche all’interno di un contesto molto più vivace di quello di oggi, le campagne Nike della fine degli anni Settanta, la geniale «There’s no finish line», erano poetiche ed evocative, ecco quella di Moore che molto si avvicina alla fotografia d’arte, più che alla comunicazione pubblicitaria.

Eh, niente, quella cosa là è purtroppo passata, un clima che se n’è andato. Oggi se il committente fa i mattoni, vuole i mattoni, niente da fare. Le idee poetiche e ispirate non passano, qui bisogna fatturare e il cliente deve vedere i mattoni. E noi gli diamo i mattoni, si discute meno e si va al fondo. È giusto? Ovviamente no, bisognerebbe ribellarsi ogni volta ma i fracassamattoni sono tanti e la pressione esterna è quasi sempre superiore. Ma ci si prova comunque, e riguardare le cose di Moore, tutto sommato, aiuta a rimettersi in carreggiata e ritrovare la giusta spinta antimattone.

«pidocchi ci chiamavano a noi sloveni»

È morto Boris Pahor. Ultracentenario, conobbe il successo e il riconoscimento del valore di ciò che raccontava ben dopo i novant’anni, in Italia, e qualche anno prima in Francia. Necropoli è un libro di memorie importante, scritto in maniera magistrale, l’ho letto come tutti dopo il 2008, quando lo abbiamo scoperto. Per questo lascia un po’ straniti Rumiz che oggi definisce Pahor «lo scrittore del secolo», avrà le proprie ragioni, per fortuna è vissuto abbastanza per vedere riconosciuta la propria opera. Era sloveno ed era uno che non taceva, molte cose si spiegano anche così.
Il fatto che lo stesso giorno in cui Pahor se ne va alcuni criminali vandalizzino la tomba di Alfredo Rampi ricoprendola di svastiche mi dice una cosa sola, la solita: nulla è mai acquisito, la memoria va alimentata ogni giorno. Niente di nuovo, continueremo a farlo, è di certo davvero un peccato insensato che persino Pahor non lasci un segno indelebile nella coscienza di tutti.

l’invasione, giorno quarantasei: e se fossi io?

Una persona cara, non saprei se chiamarla un’amica, una persona cui sono di certo riconoscente e cui voglio bene, è in Ucraina. È lì perché è il suo paese, è lei che negli anni mi ha sempre parlato di una guerra in Ucraina e io, lo devo dire, ho sempre sottostimato le sue parole, pensando all’occupazione successiva al 2014. No. Lei è là perché ha fatto una scelta, una di quelle quasi definitive, è infatti entrata in convento. Non so esattamente dove, diciamo nella zona di Leopoli. A settembre, quando ha finalmente deciso, era contenta, convinta di sé. Ci siamo sentiti poi poco, qualche messaggio qua e là, qualche augurio alle date comandate, perché il convento ha le proprie regole, e ci mancherebbe. Dall’invasione, ci siamo sentiti più spesso, può evidentemente utilizzare di più il telefono, è necessario. Non immagino cosa significhi sentire le bombe precipitare, non riesco a quantificare la preoccupazione per la famiglia che lei ha, provo compassione e sono preoccupato. Lei mi risponde gentilmente con voce tesa ma pacata che al momento non c’è da preoccuparsi, io invariabilmente insisto proponendole ospitalità qui, per lei e famiglia, garantendole ogni appoggio, lei con pazienza mi dice ogni volta che non ha intenzione di scappare.
Non posso certo io dirle quel che dovrebbe fare, le mie sono supposizioni, frasi fatte, non so cosa significhi abbandonare la propria casa, natale o adottiva, materiale o spirituale, per causa di un invasore. Non lo so ma provo lo stesso a dirle ogni volta che se dovesse avere bisogno, ci sono, ci siamo. Lei lo sa, credo dai e dai l’abbia capito, al momento non ha intenzione di chiedere, né per sé né per i suoi. E poi, conclude le nostre conversazioni con la frase di rito: «il Signore provvederà». Già.
Mica posso discutere il Signore, quello con la esse maiuscola, tantomeno con lei, che è una professionista. Non solo non ne avrei la capacità, ma non avrebbe nemmeno senso, mi dico. Perché dovrei cercare di scalfire la sua fede, di insinuare un dubbio proprio in questo momento, quando lei ne ha probabilmente più bisogno? E in nome di cosa? Di una ragionevolezza che per me, qui, seduto al pc in casa mia preparando la cena mi pare avere tutta la fondatezza del mondo? Però sono preoccupato, quante volte mi sono chiesto se sarei in grado di capire il momento in cui è il caso di scappare, quel momento oltre il quale non è più possibile farlo. Quante volte mi sono chiesto perché di fronte a catastrofi così evidenti le persone non siano scappate per tempo, penso alla Germania del 1933, per fare un esempio concreto. La risposta è facile, le cose non sono mai così semplici né evidenti e le persone non sono sciocche, ciò che non è avvenuto è perché non poteva avvenire, almeno non come lo immagino io. E la risposta è, inoltre, no. Non saprei riconoscere il momento per scappare, l’ultima occasione. Io, come loro, non lo riconoscerei.
Allora provo a insistere, devo provarci, lei chiude il discorso. Il Signore, ci penserà lui.
L’ultima volta sono andato oltre. Senti, le ho detto, sebbene io sia del parere diverso è giusto che tu pensi che provvederà il Signore a te, ai tuoi cari, al tuo paese, immagino. E se, le ho chiesto, e se fossi io il modo in cui il Signore sta provvedendo a te? Se io – io come chiunque altro, sia chiaro – fossi l’inconsapevole mezzo con il quale ti viene offerta una via di sopravvivenza o, almeno, di vita migliore, temporanea? Tace. Non ti aspetterai che si manifesti di persona per dirti che quella è la via e dandoti indicazioni su cosa fare, vero? Lo sappiamo entrambi che, comunque, non agisce così, la maggior parte delle volte, secondo quanto dicono. Se io fossi il gessetto sulla lavagna di un disegno più grande? Tace ancora un po’, poi taglia corto, «siamo nelle mani del Signore, sarà quel che sarà». E bon, ci risentiamo. A volte guardo le date delle ultime connessioni per sapere che si è collegata, quindi immagino stia bene, spero. Almeno ha la connessione e c’è, mi dico.

Poi sto lì, ci ripenso, e mi dico che potrei anche essere un inconsapevole mezzo per portarla alla rovina, per farle fare la scelta sbagliata, dal punto di vista delle possibilità è esattamente la stessa cosa. E mi richiedo, ancora: è il momento di scappare, l’ultimo? Dovrei insistere? Cosa potrebbe comprendere in più grazie alla mia insistenza? Nulla. È quello che mi dico, nulla. Perché è un dilemma, lo sarà finché le condizioni non peggioreranno o miglioreranno a tal punto da chiarire la bontà di una scelta, non c’è soluzione. C’è la sua soluzione, quello che deciderà di fare e nel momento che riterrà giusto, impossibile dirlo da fuori. Che poi, ci penso, è quel che dice lei: provvederà qualcuno o qualcosa. Cioè a un certo punto qualcosa cambierà e lei agirà di conseguenza. È giusto. E con che diritto, io, qui, faccio pressione perché faccia una cosa o un’altra? Avrà ben altre preoccupazioni più importanti del parlare con me, del mio dialoghino teologico da balera, vivaddio?, le tirano i missili vicino. Lo sa che se ha bisogno qui c’è posto, basta, mi dico. Sì, va bene così. Provvederà, magari lei stessa. Mi metto quieto.
Poi, dopo qualche giorno, la sento. E insisto di nuovo.